23 marzo 2023

TRE PIANI di Eshkol Nevo

 

Tre piani, tre storie, tre drammi familiari distinti ma collegati fra loro in un unico romanzo che li raccoglie tutti, completandoli. Un romanzo avvincente, che cattura e coinvolge subito fin dalle prime pagine, per la capacità dell’autore — che conosce e sa ben usare il cliffhanger — di tenerci continuamente agganciati alla storia. In tutte e tre i racconti infatti, siamo informati fin da subito che è successo qualcosa di piuttosto importante e grave, e tutta l’attenzione di noi lettori procede in quella direzione. 

La voce narrante, nei tre capitoli, è sempre la prima persona, che dal suo punto di vista si rivolge a un interlocutore ogni volta diverso, attraverso un dialogo aperto (nel primo caso è un amico dell’adolescenza, uno scrittore; nel secondo è un’amica d’infanzia; nel terzo, è il marito defunto della protagonista).

È proprio la struttura, l’architettura, il modo agile e ben costruito della trama, la capacità tecnica dello scrittore israeliano (finora a me sconosciuto) che riesce a creare questo complesso trittico, ciò che più ho apprezzato.

I tre piani possono rappresentare la coscienza dell’uomo, come l’autore suggerisce in riferimento a L’Enciclopedia delle idee di Freud, dove «al primo piano risiedono tutte le nostre pulsioni e istinti, l’Es. Al piano di mezzo abita l’Io, che cerca di conciliare i nostri desideri e la realtà. E al piano più alto, il terzo abita sua altezza il Super-Io» e ogni protagonista del rispettivo piano sembra rappresentare proprio queste peculiarità.

Il piano rappresenta anche la famiglia, come istituzione, nello specifico il modello familiare medio-borghese, con tutti i pregi e difetti, vizi e virtù, verità nascoste o dichiarate, sullo sfondo di una cittadina alla periferia di una Tel Aviv contemporanea. «Ogni famiglia è un pianeta a sé, e a volte serve la presenza di qualcuno atterrato lì da un altro posto per rendersi conto».

Al primo piano la vicenda si muove attorno alle congetture di Arnon, su un ipotetico abuso sessuale da parte del vicino di casa anziano, affetto da Alzheimer, sulla figlioletta Ofri di otto anni. L’ostinata supposizione e la ricerca morbosa della verità da parte di Arnon, porteranno conseguenze tali, che a causa di mosse azzardate e passi falsi, comprometteranno seriamente l’equilibrio familiare.

Al secondo piano vive Hani, una giovane donna, madre di due figlie piccole, costretta a crescerle da sola, perché il marito è fuori per lavoro anche per lunghi periodi. Le confessioni all’amica ce la rivelano come una donna fragile, ma lucida e intelligente: «Da otto anni mi trovo intrappolata — sì è questa la parola  — intrappolata nel mio desiderio di riuscire nella missione in cui mia madre ha fallito, e intanto la polvere del tempo mi ricopre, Neta. E io mi lascio ricoprire. Lo so che è un’immagine ormai logora, ma sono logorata anch’io. Non ho la forza di fingere un’allegria che non provo più». Una donna profondamente delusa, abbandonata, sola, che vede e sente parlare il barbagianni (il fantasma della sua coscienza, che poi diventano due) risvegliandole la paura di impazzire, di perdere il senno come già è accaduto alla madre. C’è in lei però tutta la volontà di resistere, di approfondire il dolore dell’anima, di scavare dentro sé per ritrovarsi, e la lettera sincera e appassionata all’amica lo testimonia. Anche qui c’è una tensione, quel detto all’inizio ma non detto chiaramente, che rivela fin da subito l’evento che ha spinto Hani a scrivere all’amica, quel segreto che solo a lei può raccontare, con la speranza di non essere giudicata. Anche qui l’espediente narrativo dello show don’t tell non manca: raccontare e far vedere Hani attraverso i sentimenti e le emozioni, la gioventù, le passioni, il servizio militare, il matrimonio, le maternità usando la formula del ricordo.

E infine al terzo piano Dvora, vedova, giudice in pensione, madre e moglie (combattuta tra i due ruoli, logorata dai sensi di colpa per non aver saputo conciliare l’affetto filiale a quello coniugale), donna tormentata dal senso di fallimento e inferiorità, nell’essere stata perenne appendice del marito. Si avverte forte il conflitto generazionale che crea a sua volta il difficile rapporto figlio - genitore, soprattutto in una società borghese dove le imposizioni culturali, sociali, ideologiche sono più sentite ed estremizzate. Ancora una volta sappiamo fin da subito che il figlio Adar ha abbandonato la famiglia ma non conosciamo la motivazione e la tensione è tutta lì, in questo mistero, che l’autore sa mantenere e destreggiare sapientemente. Qui colpisce più che mai la modalità di narrazione: Dvora racconta al marito tutto ciò che sta vivendo, attraverso messaggi lasciati alla segreteria telefonica dov’è registrata la voce del marito defunto, trovata per caso durante le operazioni di trasloco (anche qui perché il trasloco? L’autore ce lo dirà solo alla fine) trasformandola in una sorta di diario sonoro. In questa storia più che nelle altre due, si intuisce la realtà politica israeliana, il fermento delle rivolte giovanili contro ogni forma di potere, qualche accenno alla Shoah.

L’aspetto sorprendente e a parer mio più rilevante è che in tutte e tre le storie nonostante la tragicità degli eventi, si avverte sempre lo spiraglio di speranza, di un cambiamento possibile, di un rinnovamento inevitabile, che può essere interpretato a livello sociale «Qui sta succedendo qualcosa di straordinario: un’infinità di persone non più disposte ad accettare le cose come sono, credono ci sia una possibilità di riparare e per farlo si riuniscono in un unico luogo. È proprio una congiuntura speciale» e individuale nella frase finale di Dvora in cui spezzando la catena che la lega al marito asserisce:« D’ora in poi non si tratta più della nostra strada, amore mio, fiore mio, mia sventura. D’ora in poi è la mia strada».

La fugacità del tempo, della vita che scorre implacabile è meravigliosamente rappresentata con questa metafora: «La sabbia della mia vita sta per terminare, e quello che non chiedo oggi, chissà, potrei non aver modo di chiederlo domani». Così la riflessione sulla solitudine, come isolamento, che non ci permette di vedere la realtà: «Tutti soli non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperatamente nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce».

Ben felice di aver scoperto l’autore, la sua scrittura  fluida, brillante, avvincente, ricca di originali metafore, una lettura piacevole, stimolante, intimistica che mi ha davvero entusiasmata.

Forse il tecnicismo può far perdere un po’ dell’ emozione, ma il risultato è senz’altro notevole.

 A.C.

Tre piani di Eshkol Nevo(  Neri Pozza 2017)

20 marzo 2023


Nasce l'idea, un'amica ti chiama: "Sto organizzando uno spettacolo con alcuni testi che ho scritto, mi farebbe felice averti nel gruppo". Ti fa piacere aderire al progetto, ma non ti senti all'altezza, le tue esperienze teatrali non sono così salde da affrontare il palco, esibirti nella maniera giusta, competente, e poi hai tanti altri impegni... "Devi solo leggere un brano". Quello si, lo puoi fare. Il testo ti piace, sembra creato apposta per te, aderisce alle tue forme senza una piega "Istruzioni per invecchiare bene", proprio il pezzo che avresti potuto scrivere tu, una riflessione sull'avanzare dell'età e come viverla nel modo più saggio. Le competenze di un amico ti guidano a impostare la voce, a darle spessore, calore. "Sarebbe meglio impararlo a memoria". Ci provi, sei scettica ma superate le prime difficoltà ci riesci.

Il tempo dall'idea al palco è breve, un respiro ritrovarsi tutte insieme in teatro il giorno della prima, ognuna fiera nella sua parte, forte del proprio carattere, peculiarità, esperienza, ognuna animata dal desiderio di dare il meglio di se. L'emozione è travolgente dietro le quinte, la stessa che riuscirà a creare la magia inaspettata dello scroscio di applausi, sorrisi, risate di un pubblico attento e accogliente.
In un attimo realizzi che quegli attimi, pensieri, impegni rubati alla routine della tua vita quotidiana, non sono stati vani.
Eva... e le altre regia Alberto Cavallaro, testi Barbara Carraresi

17 e 18 marzo 2023

11 marzo 2023

AGE PRIDE di Lidia Ravera

 

Inizio dal titolo per introdurre l’ultima lettura, Age pride, che potremmo tradurre “orgoglio dell’età”, ovvero una maggiore considerazione di un periodo di vita, l’ultimo, non vissuto quasi mai con fierezza. Il focus del libro di Livia Ravera è centrato sulla Terza Età o l’Età dei Grandi Adulti - come preferisce definirla - (forse prendendo spunto dalla lingua anglosassone), anche se non mancano argomentazioni sulle altre fasi della vita, i Paesi Stranieri, come li definisce l’autrice stessa. «Infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia. Sono paesi separati. Se si odiano l’uno con l’altro la colpa è degli stereotipi che li ingabbiano. Odiarsi tra vicini, è pericoloso, è così che scoppiano le guerre».

Ogni periodo della vita ha i suoi vantaggi e svantaggi e in questo libro Ravera ce lo spiega in maniera eccellente ed esaustiva andando oltre i pregiudizi e luoghi comuni. Credo che sia proprio qui l’innovazione di questa opera, superare ogni preconcetto e azzardare nuove teorie.

Sono solita riportare e commentare nelle mie recensioni le frasi per me più significative, ma devo dire che in questa occasione mi è assai difficile farlo, a meno che non voglia riscriverlo per intero. Ci proverò comunque.

La prima piacevole sorpresa è stato scoprire che non si trattava di un saggio, come viene pubblicizzato (non ci sono capitoli a separare gli argomenti, tutti fluisce come pensiero unico e collegato). Più che un saggio, anche se pone l’attenzione su principi, modi, regole che muovono il sentire umano, infatti sembra il flusso di pensiero ben strutturato dell’autrice, che avvalendosi delle sue conoscenze (non mancano interessanti citazioni letterarie, storiche, sociologiche), ci racconta in forma romanzata (attingendo anche dall’autobiografia) il mondo della Terza Età, reale e utopico.

Interessante come la scrittrice riesca a spiegarcelo e a renderlo come un privilegio, un’ opportunità, una possibilità di conquista, alleggerendolo dal manto negativo che da sempre e ancor oggi, si è portato addosso. Grazie al progresso della scienza, della medicina e chirurgia, è migliorato il tenore e lunghezza di vita, di conseguenza la popolazione anziana (che fino al secolo scorso non esisteva) oggi è presente e rappresenta una novità assoluta, una nuova generazione sperimentale, condizione che permette agli anziani di potersi inventare il proprio tempo, di proporsi senza modelli precedenti, e, aggiungo io, se la salute li accompagna. Con le parole dell’autrice: «Possiamo essere vecchi come ci pare. Questo che stiamo per attraversare è uno spazio vuoto, che prima non esisteva e adesso c’è. Ma bisogna avere il coraggio di arredarlo. Arredarlo, renderlo abitabile, perfino accogliente[…] Non c’è un modello da eguagliare o contestare. Dobbiamo crearlo noi il modello, mentre a tutti gli altri, i giovani, i maturi, gli adolescenti,tocca a fare i conti con il già dato, già stabilito. Già corrotto dalla ripetizione. Noi possiamo inventare. Anzi “dobbiamo” inventare, inventarci. Scrivere nuovi copioni. Ridisegnare i costumi».

Non è una bellissima prospettiva anche per chi come me non è ancora nel Terzo tempo, ma ci sarà fra non molto, se avrò fortuna?

Per le donne è più difficile accettare la decadenza del proprio fisico e ancora di più se si è concentrata tutta la vita sulla bellezza del proprio corpo, oggetto di desiderio sessuale. Venendo a mancare la bellezza, la donna può cadere in depressione, non assolvendo neanche più alla funzione che la distingue dall’uomo, la procreazione. L’uomo non ha questo problema, si può permettere le rughe senza essere disprezzato, può riprodurre fino alla fine dei i suoi giorni.« Le donne odiano invecchiare perché non riescono più a immaginarsi oggetti di desiderio e non hanno ancora imparato a immaginarsi soggetti di desiderio[… ]Non hanno ancora imparato a vivere da soggetti, le donne, invece di pomparsi il seno, spianarsi la pelle o mettersi il vestito della festa, sperando di rassomigliare a qualcun’altra, fosse pure la ragazza che sono state. Aspettano le donne, anche se spesso non se ne rendono conto, di essere scelte. Si comportano da ninnoli, non sembrano capaci di portare a termine questa piccola grande rivoluzione individuale e universale: imparare a vivere da soggetti».

“Scegliere, non essere scelte, essere soggetto e non oggetto di desiderio” è un concetto davvero illuminante, dovremmo scriverlo sulla porta a caratteri cubitali quando usciamo di casa ogni mattina. In un periodo come il Terzo Tempo della Vita, dove ancora non sono state scritte e vissute le modalità di comportamento, dove tutto è ancora da sperimentare, quale occasione migliore per fare ciò che ci piace, ci gratifica, arricchisce, completa, realizza? Certo dobbiamo fare i conti con un fisico che non sarà prestante come un tempo, ma salvo malattie, possiamo lavorare su noi stesse, attuando quel cambiamento, che come dice Ravera, riferendosi in particolare alle donne, ci trasformi da Oggetto (quali siamo sempre state) a Soggetto.

E qui faccio un inciso. La donna è un oggetto anche se non vuole esserlo. Io stessa ricordo lo sguardo addosso degli uomini nella mia adolescenza e maturità, le esclamazioni di apprezzamento di una parte del mio corpo, a conferma. Avrei voluto sottrarmi volentieri a quegli sguardi, passare inosservata, privilegio che invece oggi mi è concesso.

Divertente la stesura della carta dei Desideri, un decalogo di regole e comportamenti atti a vivere il Terzo Tempo nel migliore e più fruttuoso dei modi, facendo nuove conquiste (non quelle amorose e passionali di un tempo) indirizzate a riappropriarsi del proprio sé, della propria identità, autenticità.

Condivido e lo sperimento ogni giorno, lavorando per un’utenza che abbraccia tale periodo, il fatto che non è assolutamente vero che la vecchiaia abbrutisce, rende la persona sofferente, lamentosa, indisponente; tutto dipende dal carattere, «così come il carattere guida l’invecchiamento, l’invecchiamento disvela il carattere». Ci sono anziani che hanno davvero molto da dire, raccontare, insegnare.

La solitudine, frequente negli anziani rappresenta una piaga sociale di rilievo, associata spesso alle difficoltà economiche e alle patologie. Ecco un altro obiettivo prioritario di cui la politica dovrebbe farsi carico, ma di cui si parla invece ben poco. Si potrebbe in tal senso, come dice Ravera «smettere di rottamare l’intelligenza dei vecchi e di sprecare l’intelligenza dei giovani», in un ottica di collaborazione si potrebbero creare meravigliosi progetti.

Non mancano riflessioni sul fine vita: «la morte è sempre un ospite di riguardo. Ci fa abbassare la voce», una grande verità in una semplice e palese constatazione. Oppure «Abbiamo bisogno di imparare a morire. Di parlarne. Di immaginare anche l’ultimo dei paesi stranieri, il più straniero di tutti. Se ne parliamo, fra giovani e vecchi, fra adulti e bambini, fra donne e uomini, avremo meno paura di vivere. Tutti». E infine questa che mi risuona particolarmente: «Se gli eventi di vera discontinuità sono la nascita e la morte, la fine dovrebbe essere celebrata con la stessa commossa allegria con cui si accoglie l’inizio».

E non posso fare a meno di riportare anche la citazione sulla quarta di copertina, e concludo davvero: «La vita finisce quando tutto si ferma […]Bisogna restare agili. Non giovani, agili. Flessibili. Bisogna imparare a muoversi a tempo nel Tempo. senza ostinarsi all’imitazione di modelli scaduti. Ma senza nascondersi. Soprattutto senza nascondersi».

Una lettura davvero arricchente per i concetti e i valori che l’autrice rivela con una capacità espressiva semplice ma sorprendente (sembra dar voce ai propri pensieri), per la scrittura coinvolgente, fluida, dallo stile raffinato e conciso, colto, in cui fanno da cornice stimolanti citazioni di grandi personaggi, come Beauvoir, Montaigne, Freud, Jung, Cicerone…

Un saggio che si legge come un romanzo, che nonostante il tema all’apparenza poco stimolante per gli stereotipi, i pregiudizi insiti, consiglio con grande convinzione a tutti, se non altro per l’infinito messaggio di speranza che l’autrice riesce a trasmettere e a dimostrare, grazie alla sua penna, intelligenza ed esperienza sicuramente legate all’età.        

A.C

Age Pride -Per liberarci dai pregiudizi sull’età di Lidia Ravera (Einaudi 2023)

05 marzo 2023

TURCHINA di Elena Triolo

 

Incuriosita dal personaggio della famosa fata di Pinocchio (sulla quale ho scritto un racconto di prossima pubblicazione), ho partecipato proprio ieri alla presentazione di Turchina, una graphic novel di Elena Triolo, sebbene non conoscessi l’autrice e il genere narrativo. Ebbene, mi si è aperto un mondo. Ho iniziato la lettura subito dopo l’acquisto e non mi sono più fermata, apprezzando ogni singola frase, immagine, fumetto, perfino il logo di Bao, rivisitato dall’autrice e il salto finale del grillo. Credo che dovrò rileggerlo, con la lentezza utile e necessaria se vorrò apprezzarne ogni singolo dettaglio (e ce ne sono davvero tanti).

Non so davvero da che parte cominciare per esprimere il mio alto gradimento indirizzato alla rappresentazione grafica, espressività dei personaggi, cura dei particolari, ricostruzione storica, ambientale e sociale di Sesto Fiorentino nel secolo scorso, curiosità e aneddoti legati al personaggio di Carlo Lorenzini, Collodi, autore di Pinocchio romanzo uscito a puntate, dal felice successo.

L’aspetto interessante di questo libro, oltre al disegno che trovo delizioso e godibile da un punto di vista visivo, è la storia di un personaggio secondario (ma non più di tanto), ovvero di colei che ispirò il personaggio della fata turchina, Giovanna Ragionieri, cameriera presso la residenza di Villa il Bel Riposo, a Castello dove Carlo Lorenzini  trascorreva le vacanze estive. Carlo conobbe Giovanna quando era piccola, e giocava nella villa dove il padre era giardiniere. Fra i due nacque una forte e solida amicizia (e su questo sono d’accordo con l’autrice) che andava al di là di ogni convenzione e impedimento sociale, tanto che lo scrittore volle immortalarla nel suo romazo nelle sembianze della fata turchina, figura, come tutti sappiamo, che ammaliò e condusse sulla buona strada il burattino di legno.

Azzardo la definizione di opera autobiografica (perché l’autrice narra la vita di Giovanna Ragionieri dall’infanzia alla morte), anche se non mancano elementi di finzione, in cui Elena mette in atto la fantasia (in maniera eccellente) compensando perciò le mancanze dovute alla scarsa documentazione in merito. Tra le righe della storia, si intuisce il grande lavoro di ricerca e documentazione che ha impegnato l’autrice nella ricostruzione di un periodo storico, sociale (non facile per una piccola realtà come quella sestese), per restituircelo vero e plausibile.

Altro aspetto che ho apprezzato molto è la struttura della narrazione, ovvero l’impostazione della storia, sempre ben datata, che si svolge come un dialogo continuo, una corrispondenza aperta tra Giovanna e lo scrittore, in cui entrambi si rivelano al lettore, esprimendo emozioni, pensieri, sentimenti trasportandoci e coinvolgendoci nel loro complice e meraviglioso rapporto. Rilevante  anche (e qui ci sarebbe da aprire una lunga parentesi) l’aspetto del femminile di Giovanna – la prima mestruazione, il matrimonio, il rapporto coniugale, la maternità, la maturità e la vecchiaia – trattato dall’autrice con una sensibilità dolce e rassicurante, unica, direi.

Anche la tematica della morte, l’immagine dantesca di una barca a traghettare le anime sull’altra sponda, è rappresentata e vissuta (termine non proprio appropriato per un defunto) con leggerezza e ironia.

Altro merito del libro è la rappresentazione di alcuni avvenimenti e riferimenti storici che hanno caratterizzato la storia di Sesto Fiorentino, come la strage del Collegino di Colonnata, il bombardamento dell’8 febbraio 1944 in via delle Porcellane, in cui persero la vita 23 bambini insieme al parroco, scambiati dagli alleati per soldati; l’importante e florida Manifattura di porcellane  Richard Ginori; l’esistenza del Teatro Niccolini nel centro di Sesto, demolito negli anni sessanta; l’isola di Santa Croce e del “mare sestese”, insomma, un modo originale e affascinante di ripercorre e mantenere viva la memoria di un paese se non altro per non ripetere gli stessi errori.

Gradevole e non trascurabile (e qui concludo) è il buon odore, fresco di stampa del libro, anch’esso parte integrante nella lettura, che alimenta altrettanta magia e incanto.

Insomma un libro davvero delizioso in tutti i sensi, che consiglio a grandi e piccini, con l’augurio sincero che superi i confini geografici e come la storia di Pinocchio, faccia ingresso in tutte le case del mondo. 

A.C.

Turchina di Elena Triolo ( Bao Publishing 2023)