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27 aprile 2024

LE CAMPANE DI BICÊTRE di George Simenon

 

Come può sentirsi un uomo all’età di cinquantaquattro anni, direttore di un importante giornale parigino, nel pieno della sua attività lavorativa, sociale e affettiva, che all’improvviso si ritrova in un letto di ospedale, in un corpo che non risponde più ai comandi, costretto a una dipendenza fino allora sconosciuta, in balia di una schiera di persone che pensano, decidono e agiscono in vece sua, convinti di conoscere la sua volontà?

Ce lo spiega molto bene George Simenon in questo suo romanzo datato 1963, in cui ancora una volta ci delizia con la sua narrativa accattivante e coinvolgente, capace di sviscerare e captare il moto anche più sottile e recondito dell’animo umano, questa volta nell’autoanalisi di un uomo malato.

Renè Maugras, persona influente, giornalista affermato a livello nazionale, durante la cena con il gruppo di amici abituali (anch’essi personaggi di spessore nell’entourage parigino) viene colpito da un ictus nella toilette del ristorante. Si risveglierà in seguito in clinica, constatando l’ inevitabile realtà che non è più come prima, che non può muoversi, parlare, interagire, attaccato a una flebo di glucosio che lo alimenta al posto del suo apparato digerente. La sua mente capisce tutto e capisce anche molto bene che gli altri parlano per lui, si sostituiscono a lui, alle sue parole, pensieri, sentimenti e perfino emozioni. Chi sono per arrogarsi tale diritto? Come mai sono così sicuri di sapere quello che lui sta provando? Lo conoscono davvero tanto bene? Questi e altri interrogativi popolano il romanzo, che si muove alla continua ricerca di una spiegazione, di un senso, di una o molteplici realtà che ruotano attorno alla vita di quest’uomo.

Ecco allora che dalla forzata pausa di inattività fisica nella sua camera di degenza, germoglia un’intensa attività mentale ed emotiva, che porta Maugras a catturare anche il più piccolo dettaglio, a soffermarsi su ogni singola azione compiuta dagli altri, a prestare attenzione a quel microcosmo in cui è costretto a vivere (e che in fondo non gli dispiace), che nella sua limitatezza nasconde verità mai viste o immaginate.

Nel letto d’ospedale il suo ruolo di direttore, la sua autorità e autorevolezza, pur essendogli ancora riconosciute, cambiano tonalità, espressione, dovendosi riadattare alla nuova condizione: « (i medici) si rivolgono a lui come a un essere umano […] è anche vero che, contemporaneamente, lo trattano come un oggetto». Si perché la malattia lo ha catapultato in un’altra dimensione adesso, «lui ha superato una barriera invisibile e adesso si trova in un altro universo», un universo in cui non si sente più un soggetto con autonomia operativa e decisionale, ma un essere la cui sopravvivenza adesso dipende da altri, dai medici che si occupano della guarigione, dalle infermiere che lo vigilano e assistono nei suoi bisogni, notte e giorno.

Interessante è il suo pensiero da emiplegico, antitetico al precedente di persona sana, che poi è ciò che fa cadere in errore tutti coloro che gli stanno attorno, «che vogliono pensare al posto suo» mentre «Come potrebbe spiegar loro che lo disturbano, che lui è rassegnato, che non ha bisogno d’incoraggiamenti, che quello che gli succede doveva succedere, e che lo accetta, anzi gli dà sollievo …». Per questo anche i tentativi dell’infermiera, la signorina Blanche, di distrarlo dalla presunta angoscia non lo interessano. È soltanto una forma di inganno che lui non gradisce.

In questo romanzo, sebbene datato, emerge forte l’aspetto del rapporto medico - paziente, e quanto spesso sia difficile la componente relazionale della cura, il mettersi a fianco della persona in ascolto, per capire ciò che davvero sente, prova, vuole e questa interessante domanda retorica ne esprime appieno il senso: «Per certi medici il sogno non sarebbe la malattia senza il malato?».

«Medici e specialisti hanno una visione ristretta del problema», per questo non vedono la realtà nella totalità, non si sforzano di capire la volontà del paziente, e proprio come un oggetto, lo escludono dai loro sguardi come se quello che sta accadendo in lui non lo riguardasse.

La malattia interrompe un cammino idealizzato, cambia le regole del gioco, con l’annuncio di una diagnosi «si diventa un malato che non vedrà mai più la vita sotto la stessa luce».

Ma la malattia per Renè è anche occasione di riflessione, la maniera di rallentare, di fare chiarezza, di interessarsi agli altri «di cui sente il bisogno di raschiare via la superficie, convinto, se ci riesce, di arrivare a vedere più chiaro in se stesso».

Ecco allora l’analisi del rapporto con la moglie Lina, alla ricerca continua di sicurezze e serenità che solo l’alcool sembra concederle momentaneamente; con la figlia disabile, l’unica che sa affrontarlo da pari, capace forse di capirlo meglio di tutti gli altri; con gli amici più intimi con i quali adesso disprezza la compagnia; con il professor Besson, l’amico medico che vuole ricacciarlo in fretta nel mondo di prima; col suo collaboratore, così imbarazzato quando viene a trovarlo, da parlare ininterrottamente, per non lasciare spazi vuoti al suo silenzio.

Tutti lo spronano a collaborare, perché è forte e il ritorno alla salute di un tempo dipende da lui. Ma è davvero così scontato e ovvio che un uomo malato anche se curabile, voglia guarire in fretta? Ciò che gli altri pensano e credono giusto per lui  è verità universale e soprattutto coincide sempre con ciò che è bene per la persona? Ancora una volta volontà, desideri, tempistiche, aspettative non sono quelli del malato ma del sistema che vi gira intorno.

Un taccuino, sul quale annota ogni giorno non senza difficoltà anche solo una parola, gli sarà di aiuto in questa fase di ricerca di comprensione.

Un libro indimenticabile che metto in cima alla lista delle scritture dell’autore, forse perché parla del mio mondo professionale, della malattia, della cura e assistenza, del non facile percorso di recupero della salute, il tutto permeato da un’intensa narrativa introspettiva, capace di sciogliere nodi per permettere la ripresa dell’imprevedibile  e incredibile viaggio chiamato Vita.

Un’opportunità per tutti i lettori - grazie al personaggio di Renè divertente e stimolante che riesce nella tragicità a strapparci sempre un sorriso o una risata -, di immedesimarsi in una situazione di infermità invalidante, di avvicinarci alla malattia senza disperazione ma con lucidità, come un cambiamento (fisico, mentale, spirituale) e sicuramente come possibilità di crescita e di evoluzione.

Le campane di Bicêtre” di George Simenon ( Adelphi Edizioni 2009)

18 aprile 2024

OSCAR E LA DAMA IN ROSA di Eric - Emmanuel Schmitt

 

«La vita è uno strano regalo»

Perché è tanto difficile relazionarsi in maniera empatica con un bambino di soli dieci anni, affetto da una forma di leucemia che non risponde alle terapie, e che a breve lascerà il suo posto letto a un altro piccolo paziente con la speranza di una diagnosi migliore? È per il fatto, forse, che troviamo innaturale, ingiusta e violenta una tale condanna sulla testa di un innocente? È davvero così impossibile parlare e rispondere con sincerità a domande che desiderano risposte autentiche, anche se dolorose, dettate da un’incredibile e straordinaria autoconsapevolezza?

Per Nonna Rosa non lo è, anzi, le viene proprio spontaneo affrontare il problema di petto, come faceva un tempo, quando era una lottatrice di catch ed era soprannominata la Strangolatrice del Languedoc. È per questo che Oscar la preferisce agli altri adulti (medici, infermieri e gli stessi genitori) che lo fanno sentire inadeguato, frustrato e deluso per non rispondere bene alla terapia, per non riuscire a guarire nonostante i loro sforzi e tentativi. Eppure «La malattia è come la morte. È un fatto. Non è una punizione».

Gli adulti eludono le sue domande, non sorridono, non giocano, fingono, sempre nascosti dal velo della serietà, che gli restituisce solo pena e tristezza.

«Ma perché non mi dicono semplicemente che morirò?» si chiede Oscar. È davvero incredibile la lucidità di questo  ragazzino, che come un adulto sa porsi grandi domande e darsi anche grandi risposte: «Se dici morire in un ospedale, nessuno sente. Puoi star sicuro che ci sarà un vuoto d’aria e che si parlerà d’altro».

Sì, non è facile parlare della propria morte con una persona adulta, figuriamoci con un bambino! Ma se sappiamo metterci a fianco della persona e la si sa ascoltare, ecco che avviene il prodigio ed escono fuori immense verità.

Oscar è intelligente, sente che la morte gli è vicina. Disprezza le persone che lo allontanano dai suoi pensieri, che gli negano una realtà evidente e ineluttabile. Il fatto di essere in ospedale con una malattia incurabile ne è la conferma: «Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire» e la frase di Nonna Rosa pur nella sua durezza, lo sostiene: «Dimentichiamo che la vita è fragile, friabile, effimera. Facciamo tutti finta di essere immortali».

Ma la dama in rosa non si limita solo a sostenerlo nella triste scoperta di verità infauste, gli fa dono di una strategia che gli permette di continuare a vivere con gioia, curiosità e sorpresa. Gli propone un gioco: «A partire da oggi, osserverai ogni giorno come se ciascuno contasse per dieci anni» in modo che Oscar possa vivere ogni fase della vita, le turbolenze e le gelosie dell’adolescenza, l’innamoramento, il matrimonio, la maturità, l’abbandono e la vecchiaia, concentrando il suo tempo, dandogli valore non in termine quantitativo ma di qualità.

Nel fine vita, la spiritualità, che può coniugarsi nella fede, religione o semplicemente nella speranza, assume un posto di rilievo assoluto. Per questo Nonna Rosa esorta Oscar a tenere un diario, o meglio a scrivere lettere a Dio «per sentirti meno solo». 

«Bisogna distinguere due pene, Oscar, la sofferenza fisica e la sofferenza morale. La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si sceglie» è così che gli apre le porte a quella visione spirituale in cui sottolinea in maniera metaforica l’importanza della scelta: «All’idea di morire, non sei obbligato ad avere male. Non sai che cos’è. Dipende dunque da te». Parole così semplici che anche un bambino può capire ma tanto difficili per la maggior parte delle persone che non vogliono capire e affrontare l’argomento del fine vita.

Ma cosa è che ci fa più paura? L’ignoto o la perdita delle persone che amiamo?

Ci risponde proprio Oscar prima di compiere “i suoi cento anni”: «Bisogna sempre conservare la speranza».

E visto che morire è inevitabile per tutti, qual è il miglior modo per accettarlo? Ancora una volta è sempre lui a illuminarci.

«Quello che penso io , Nonna Rosa, è che l’unica soluzione per la vita sia vivere» o come invece Dio ci rivela in segreto: «Ogni giorno guarda il mondo come se fosse la prima volta».

Un piccolo libro con grandi verità, toccante, coinvolgente, commovente (lo ammetto, alla battuta finale ho avuto un groppo in gola e le lacrime), un modo semplice e diretto per parlare di un tema tabù, che evitiamo, esorcizziamo per allontanarlo dalla nostra vita, mentre come ci insegna Oscar, sarebbe proprio l’inclusione e la consapevolezza della propria morte a renderci più vivi, aperti e curiosi alla vita. 

“Oscar e la dama in rosa” di Eric-  Emmanuel Schmitt ( ed. Bur 2005)


31 marzo 2024

LA CURA di Hermann Hesse

 


«Perché la vita non è un conto o una figura matematica, ma un prodigio»

Già in questa frase così incisiva, si può ben intuire il valore de “La cura” di Hermann Hesse, scritta nel 1925, successiva di pochi anni a “Siddartha”, in cui l’autore esplora, sebbene in maniera assai diversa, le tematiche a lui care.

La cura”, romanzo breve ma di un’intensità straordinaria, può considerarsi anche una sorta di diario - appunti di un soggiorno presso Baden in una lussuosa stazione termale, che lo scrittore cinquantenne si concesse per le cure di una sciatalgia - per la scrittura intima, riflessiva, introspettiva, che come un flusso di coscienza si sviluppa e si mantiene costante in tutta la narrazione, con un sottotesto che ci rivela l’intento dell’autore, di non lasciare il manoscritto chiuso in un cassetto, ma destinarlo a un lettore, ai suoi lettori, per la chiarezza nell’esporre, spiegare, analizzare i pensieri che sgorgano impetuosi dalla sua mente vivace e curiosa.

Un percorso di cura, volto al benessere del corpo, della mente e dello spirito, occasione per riflettere e approfondire attraverso gli aspetti del quotidiano, il suo “sentire”, i moti dell’ anima irrequieta e smaniosa, alla ricerca continua delle verità. Hermann Hesse è un chirurgo del corpo e dell’anima, seziona, sviscera, esamina ogni sentimento ed emozione per capire e per capirsi. Ecco allora le analisi accurate sulla sua apatia mattutina, sull’insonnia con la quale convive da anni, sulla sua indole solitaria, sulla trappola del piacere scaturito dal cibo e dal gioco, sulle asserzioni del cinematografo e della musica frivola, sul consumismo imperante che schiavizza l’umanità inventandosi futili necessità … su una foglia secca entrata al volo dalla finestra «di cui respiro lo straordinario memento della caducità, che ci fa rabbrividire ma senza il quale non ci sarebbe nulla di bello».

E qui si riallaccia la sua visione dualistica dell’uomo stesso, il suo essere buono e cattivo, virtuoso e vizioso, ordinato e caotico, assennato e folle,… nel continuo oscillare tra materialismo e idealismo, perché non può esistere niente di assoluto e perfetto, «che un uomo, per tutta la vita, possa venerare sempre lo spirito disprezzare sempre la natura, essere sempre rivoluzionario e mai conservatore o viceversa, mi sembra, sì, una gran prova di virtù, di carattere e di fermezza, ma mi sembra anche, e non meno, una cosa esiziale, folle e ripugnante, come se uno volesse sempre solo mangiare o dormire».

Un dualismo che non può esistere ed esprimersi senza la coscienza dell’ unità, come riconciliazione, ritorno, redenzione: «Noi non possiamo credere alla fine nel senso di distruzione ma solo nel senso di metamorfosi […]Nessun’altra idea mi è più sacra di quella dell’unità, l’idea che l’intero cosmo è una divina unità e che tutto il dolore, tutto il male consistono solo nel fatto che noi, singoli, non ci sentiamo più come parti inscindibili del Tutto, che l’io dà troppo importanza a se stesso».

Hesse indirizza il suo“occhio cosmico” alla ricerca di quell’unicità che nasce dalla molteplicità della realtà, «sotto il cui sguardo non c’è più nulla di piccolo, di sciocco, di brutto, di malvagio, ma tutto è santo e venerabile». E questa realtà non è altro che la Natura stessa, che ci salva dall’artificio e dall’illusione. Niente di più vicino anche al mio sentire.

L’ovvio diviene straordinario, in un continuo dialogo con se stesso, sulla nostra ineluttabile transitorietà: «È meraviglioso come la bellezza e la morte, il piacere e la caducità si esigano e si condizionino a vicenda!».

Anche il dolore, questa esperienza invisibile, multifattoriale, non quantificabile, quasi impossibile da descrivere, da dimostrare, acquista per lui un valore diverso se contrapposto al piacere, e che sembra addirittura alleggerirsi se condiviso con gli altri.

La cura è perciò non solo finalizzata al miglioramento fisico e mentale, ma soprattutto alla consapevolezza che la malattia deve avere un posto marginale nella vita di una persona.

«Il paziente Hesse, grazie a Dio, è morto e non ci riguarda più. Al suo posto c’è di nuovo un Hesse del tutto diverso: anche questo con la sciatica, ma ora la possiede anziché esserne posseduto».

La malattia non si combatte ma la si vive, facendosela compagna di viaggio e non protagonista assoluta di vita. «Io abbandono la malattia a se stessa, non sono mica al mondo per farle la corte tutto il santo giorno».

Perseguire la salute totale quando gli anni avanzano e gli acciacchi si sommano è un utopia, e Hesse lo dice chiaramente «Preferiamo soltanto guarire a metà, ma vivere in cambio in modo un po’ più piacevole e divertente, noi non siamo giovinetti che pretendono l’assoluto da se stessi e dagli altri, ma persone anziane, profondamente implicate nei condizionamenti dell’esistenza e perciò abituate a lasciare un po’ correre. No, non vogliamo essere perfettamente guariti, non vogliamo vivere in eterno» Un pensiero sorprendentemente attuale, considerando che è datato un secolo.

Una lettura che continua a risuonare anche a libro chiuso, che vede il segreto di tutta la felicità racchiuso nell’ equilibrio dell’amore « possibilità di amare senza restare in debito ora in questo, ora in quello, un amore di se stessi che non ruba niente a nessuno, un amore per gli altri che però non diminuisce né violenta il nostro io!».

Un libro pieno di pillole di saggezza - che non ho potuto fare a meno di citarle di nuovo e commentarle, perdonatemi - un’ottima “cura” per coloro che hanno voglia di interrogarsi e di riflettere su ciò che veramente conta.

08 gennaio 2024

LA SOLITUDINE DEL MORENTE di Norbert Elias

 


Norbert Elias è un sociologo tedesco di origine ebraica (1897-1990) che in queste poche pagine condensa il proprio pensiero sul vivere la morte, l’evento finale che più terrorizza l’essere umano, inserito nel contesto sociale attuale (riferito al 1982, anno di pubblicazione) e attraverso i secoli, avvalendosi anche delle teorie di altri sociologi e filosofi (quali Aries, Freud, Weber, ecc…). Scritto all’età di novanta anni, rispecchia la visione della morte dell’autore con serenità e accoglienza.

Molte le citazioni da rilevare e commentare, troppe per riportarle tutte – che comunque provo a estrapolare perché degne di nota e riflessione – fondamentali per capire come la morte sia un argomento tabù agli occhi del mondo odierno.

Le modalità – dice Elias – di affrontare la morte sono molteplici. Si può mitologizzarla (e questo è tipico dell’antichità – ma anche dei nostri giorni  – in cui si ipotizzava una vita nell’aldilà in cui tutto aveva un seguito); si può allontanarla, credendo e sentendosi immortali, ciò che avviene più frequentemente ai nostri tempi; possiamo guardarla dritta in faccia, comprenderla, riconoscerla come una fase inevitabile della vita e affrontarla oggettivamente per quello che è.

Nella nostra società contemporanea, ciò che ci riguarda non è solo il problema del morire, ma il fatto che la questione è spesso legata all’invecchiamento della popolazione che a sua volta si lega alla cronicità delle patologie.

Elias sostiene che «è necessario che la morte sia demitizzata il più possibile [] l’umanità è una comunità di mortali e gli uomini nel loro bisogno possono aspettarsi aiuto solo da altri uomini [] la morte è un problema che riguarda i vivi; i morti non hanno problemi».

Interessante ciò che afferma sulla coscienza della morte negli esseri viventi: «Tra gli esseri che muoiono, gli uomini sono le creature per le quali la morte costituisce un problema», infatti gli animali non hanno paura e angoscia della morte a differenza degli uomini. «Non è la morte ma la coscienza a costituire un problema per gli uomini». Questa è una considerazione davvero interessante.

L’approccio alla morte cambia nei secoli e nelle diverse società. In passato l’uomo aveva un’aspettativa di vita inferiore (a quarant’anni era già vecchio). Oggi un uomo a settant’anni può essere ancora attivo e in forze. L’età biologica e anagrafica non sempre coincidono e questo determina anche un atteggiamento verso il fine vita più ottimistico e lungimirante, allontanando sempre di più il momento dell’evento nefasto. Da ciò ne deriva anche un eccessivo attaccamento alla vita, e una tendenza a rimuovere il pensiero della morte sia a livello individuale che a livello collettivo, perché turba il benessere a cui aspiriamo. La morte così viene scacciata dal nostro pensiero, relegata in uno spazio a sé, separato dal contesto comunitario, lo stesso in cui si viene a trovare invece la persona morente.

Un tempo la morte era vissuta in ambito familiare – da qui il nome di morte addomesticata – che insieme alla nascita, rappresentavano eventi comunitari, mentre oggi vengono vissuti in maniera più privata, dice Elias. Oggi «obbedendo all’oscura sensazione che i bambini possano esserne danneggiati, nascondiamo loro gli eventi naturali della vita, che dovranno in seguito inevitabilmente conoscere e capire» ma «sarebbe salutare che essi familiarizzassero con l’evento naturale della morte», come accadeva un tempo. Oggi si prova imbarazzo di fronte al morente, perché non siamo preparati culturalmente, allontanandone in ogni occasione l’argomento. E quando gli uomini sono costretti al capezzale dei moribondi «non sono più in grado di confortarli con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza». È di primaria importanza invece la vicinanza alla persona morente, il suo aspetto emotivo, la sensazione di sentirsi ancora amata unita alla consapevolezza di rappresentare un valore per i propri cari. Ciò che manca, aggiungo io, è proprio l’abitudine a stare accanto alle persone che soffrono, che muoiono. Disagio che si protrae anche dopo la morte della persona cara, nel delegare a personale specializzato la preparazione della salma. Anche il cimitero, la città dei morti, è una sorta di isola, un luogo circoscritto, distanziato dal resto del contesto civile caotico e vitale, dove invece il silenzio, la solennità e sacralità  confermano ancora questa separazione.

Così «per quanto riguarda la morte, la tendenza all’occultamento, al suo isolamento, in una sfera speciale, non è certo inferiore ma anzi superiore rispetto al secolo scorso». Ciò che fa paura è che «non è la morte a ispirare terrore, ma la rappresentazione anticipata della morte». E questo lo traduco come la consapevolezza e la coscienza della possibilità e probabilità imminente del morire, da cui deriva la paura.

Tenendo conto dell’aumento della durata della vita «bisogna tenere presente la rappresentazione della morte come momento conclusivo di un processo naturale che si è allungato grazie ai progressi della medicina e dell’igiene». Per questo l’uomo, abbagliato anche da questa chimera, cerca di allontanarla il più possibile.

Altra caratteristica che determina un particolare atteggiamento verso la morte è legata al fatto che viviamo in società e culture pacifiste e che la probabilità di morire ammazzati, per guerre e battaglie è pressoché rara. Diversa è quindi la concezione in paesi dove c’è guerra e la morte è sempre imminente e presente. Oggi, aggiungerei, nelle nostre realtà europee e pacifiste, le paure sono altre e diverse: gli incidenti stradali e legati ai trasporti, le sciagure atmosferiche e le catastrofi climatiche, omicidi e più ancora i femminicidi che negli ultimi anni raggiungono cifre impressionanti.

Elias afferma che l’immagine della morte che domina nella coscienza di un uomo è strettamente legata all’immagine di sé e di uomo che prevale nella società in cui egli vive». Siamo di fronte a una visione individualistica del morire nel contesto sociale, che apre la questione della solitudine del morente. Ciò «rimanda a un complesso di significati in reciproca correlazione; può riferirsi alla consapevolezza del fatto che l’esperienza della morte non può essere condivisa con nessuno; può esprimere il sentimento che con la morte sparirà per sempre il piccolo mondo legato alla propria persona con tutte le sue memorie uniche, con tutti i suoi sentimenti, esperienze, conoscenze e sogni noti unicamente a colui che sta morendo. Può riferirsi anche alla sensazione d’essere abbandonati nella morte da tutte le persone cui si è affezionati [] Il motivo della morte in solitudine ricorre assai più frequentemente in epoca moderna che in passato».

La solitudine del morente dice Elias è legata anche a ciò che abbiamo vissuto e ciò che siamo stati nella vita, ovvero «la relazione che sussiste tra il modo in cui si vive e quello in cui si muore».

«Il modo in cui si muore dipende in non poca misura anche dalle possibilità che un individuo ha avuto di porsi, e raggiungere, delle mete durante la sua vita. Dipende da quanto una persona, in punto di morte, sente di avere trascorso una vita piena e sensata, o vuota o senza senso». In altre parole, se il morente è appagato della vita che ha vissuto, se sente che la sua vita è compiuta e ha avuto un senso, il morire stesso è più facile.

«Quando il morente sente che non riveste più alcuna importanza per le persone che lo circondano, allora è realmente solo».

Bellissimo il finale di cui sottolineo alcune parole chiave : «fine tranquilla e pacifica», «la sensazione dei morenti di non essere d’ingombro», «parlare con franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero». E infine per concludere: «L’etica dell’”homo clausus”, dell’uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita». E ci sarebbe ancora tanto da aggiungere a queste parole che parlano da sole, ma sufficienti a trarne una grande messaggio.

“La solitudine del morente” di Norbert Elias ( Il Mulino 1982)