Quando un libro non conosce tempo, rimanendo sempre attuale
e vero, nonostante gli anni che si porta appresso, non può essere che un
capolavoro e anche se questo breve romanzo di John Steinbeck non è molto conosciuto, lo farei rientrare in questa
categoria. Un libro che parla di guerra (lo
vogliamo più attuale?), di un popolo che ne conquista un altro per interessi
economici, di vincitori e vinti, di
invasori e invasi, due opposti ma facce della stessa medaglia.
Seconda guerra mondiale. Una truppa dell’esercito tedesco capeggiata
dal colonnello Lanser, invade e occupa
un paese della Norvegia per appropriarsi del carbone che esporterà per proprio
profitto. Lanser il colonnello a
capo della spedizione e i suoi cinque ufficiali, Hunter, Bentick, Loft, Tonder, Prackle, si stabiliscono
nella casa di Orden, sindaco del
paese, primo cittadino e rappresentante dell’anima del suo popolo.
Quello che gli invasori chiedono al paese conquistato è lo
sfruttamento del territorio con l’estrazione di carbone da parte dei minatori
locali. Se rispetteranno le regole, non morirà nessuno. Non mancheranno però le
ribellioni, morti ammazzati, coloro che in nome della libertà non possono e non
vogliono farsi schiacciare da un potere prevaricatorio e ingiusto. Colpisce la
semplicità, la rettitudine, la saggezza, il senso di giustizia del popolo
invaso, che emerge e si evidenzia nella figura del sindaco stesso, Orden e del
dottor Winter, amico e suo fidato consulente,
di Annie la governante coraggiosa
che non esita a gettare acqua bollente sugli oppressori quando tentano di
entrare nella loro dimora, di Joseph che
in modo reverenziale sa muoversi al meglio e nel momento più opportuno. Si
apprezza la fermezza d’animo del giovane Morden,
fucilato per aver colpito e poi ucciso in una lite l’ufficiale Loft, e la
determinazione e il coraggio della moglie Molly,
che approfittando dell’invaghimento del romantico Tonder nei suoi confronti,
non esita a ucciderlo per farsi giustizia. Interessante in questo passo della
narrazione, l’assenza della descrizione dell’omicidio, che si consuma nella
sequenza successiva, dopo l’immagine della giovane che nasconde le forbici
all’ingresso dell’ufficiale, senza che l’autore ce lo dica chiaramente. Una
scelta stilistica che ho assai apprezzato, in quanto anch’io ritengo inutile e svantaggioso
riproporre la violenza e ogni sua espressione, in quanto stimolante e
corroborante per menti malvagie e perfide.Non manca, come ogni romanzo richiede,
la zizzania nella bontà del grano, il traditore, il negoziante del paese Correll, che si vende agli invasori per
interessi personali.
Quello che mi ha sorpreso in questa lettura è, come ripeto, la mancanza (almeno palese) di
vera violenza e scene, descrizioni, situazioni atroci e crudeli tipiche di un
fenomeno così massacrante, mentre l’attenzione è focalizzata sull’uomo, sui
sottili risvolti psicologici e interiori che questa condizione può
generare. Anche l’occupazione della casa
del sindaco, dove vive con la moglie, e i due servitori, Joseph e Annie,
avviene in forma molto diplomatica, senza prepotenza e tragicità, in modo quasi
colloquiale, in cerca di compromessi e migliori soluzioni per evitare inutili
barbarie e spargimenti di sangue. Significative e umane le parole del
colonnello Lanser, volte a sottolineare la debolezza e il limite umano: «La guerra è tradimento e odio, pasticci di
generali incompetenti, torture, assassinio, disgusto, stanchezza finché poi è
finita e nulla è mutato, se non che c’è una nuova stanchezza, un nuovo odio».
La guerra non ha un senso, è solo una finzione, un miraggio
di gloria e potere che può affascinare il prevaricatore, ma che risulta alla
fine un’attività impraticabile e quindi inutile, «l’unico
lavoro impossibile al mondo, l’unica cosa che non si può fare […] infrangere per sempre lo spirito dell’uomo».
La guerra è assurda, «gente
contro altra gente, non un’idea contro un’altra idea»,
un entità stupida che stupisce: «La
popolazione è confusa ora che vive in pace da tanto e tanto tempo che non crede
più alla guerra, non sa più che cosa sia».
L’uomo anela a ideali positivi, governati dal sentimento,
dalla bellezza, dalla libertà, dalla solidarietà, dalla partecipazione e non da regole imposte
dall’alto, da un potere costrittivo che pascola gli individui come pecore, per
questo «gli uomini liberi non possono scatenare una guerra
ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a combattere nella
sconfitta. Gli uomini-gregge, seguaci di un capo, non possono farlo, ed ecco
perché sono sempre gli uomini-gregge che vincono le battaglie e gli uomini
liberi che vincono le guerre».
E sono proprio questi i quesiti che come luci si accendono
al termine del libro. Chi sono vincitori e i perdenti, chi gli oppressi e i
sottomessi? A che serve tanto rumore, tanto orrore, distruzione? Ha senso un
cambiamento conquistato con violenza, sangue e morte? Sono sempre più convinta
che nessuna guerra potrà mai togliere la libertà del proprio pensiero di
giustizia.
Ho letto Furore da
adolescente, Uomini e topi più volte e
ogni volta rimango affascinata dalla narrazione così pulita, semplice vera e
profonda dello scrittore americano che adoro, una narrazione che esalta il
sentimento, l’emozione, il valore umano più che la successione di fatti e
azioni, come nel caso specifico ci si potrebbe
aspettare parlando di guerra; mi incanto nelle sue descrizioni
particolareggiate che cercano indizi precisi tra le pieghe dei volti, delle
mani, sulle macchie degli abiti, per raccontarci di quel personaggio, per dirci
cosa sente, prova, pensa; mi perdo nei dialoghi in cui sembra di averli davanti
in carne e ossa gli interlocutori, percepisco il tono, il timbro, il volume
della loro voce attraverso le parole, le frasi che si alternano. Riuscire a far
questo e trasmetterlo al lettore non è cosa da poco, per questo
meritano davvero le opere del grande scrittore. Ringrazio Renato, compagno di
letture e recensioni per avermelo fatto incontrare di nuovo.
A.C.
La luna è tramontata di
John Steinbeck (Bompiani 2016)