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04 novembre 2025

CHIEDI ALLA POLVERE di John Fante

 


CHIEDI ALLA POLVERE di John Fante

«Ho un consiglio molto semplice da dare a tutti i giovani scrittori. Non tiratevi mai indietro di fronte a una nuova esperienza. Vivete la vita fino in fondo, prendetela di petto, non lasciatevi sfuggire nulla».

È la quarta volta che rileggo Chiedi alla polvere, e ogni volta scopro nuove sfumature, dettagli un tempo sfuggiti, capaci di suscitare pensieri e riflessioni inedite. E la cosa più sorprendente è che, al termine della lettura, non rimango mai delusa.

Siamo negli anni Quaranta. Arturo Bandini, un giovane ragazzo di origini italiane, si trasferisce dal Colorado a Los Angeles con il sogno di diventare uno scrittore di successo. Nella polverosa metropoli coltiva la sua ambizione, facendo esperienze nuove, intrecciando relazioni con prostitute - per poi pentirsene subito dopo - conoscendo i coinquilini dell’albergo dove vive, uomini e donne segnati da storie di fallimento, di alcolismo e degrado.

L’incontro con Camilla Lopez, la cameriera messicana del pub che frequenta quando non scrive, segnerà la svolta. Arturo sente di amarla, anche se lei è innamorata di Sammy, il cameriere che invece la disprezza per la sua etnia. Un amore tormentato, un’altalena di sentimenti e passioni dove i ruoli spesso si invertono. Una trama apparentemente comune, una storia di amore non corrisposto, ma che in realtà nasconde molto di più. Non a caso la letteratura di Fante è stata riscoperta e apprezzata, anche grazie a Bukowski, che lo considerava un maestro.

Arturo Bandini è l’ alter ego dell’autore, tanto che potremmo definirlo in gran parte un romanzo autobiografico. Cambiano i nomi, ma nella sostanza c’è lui, John Fante. La vicenda si svolge durante le due Guerre Mondiali, con riferimenti fugaci all’ Europa e a Hitler, ma senza che l’autore insista sugli eventi storici e la loro tragicità. Il suo sguardo è rivolto al conflitto interiore del protagonista, un giovane alle prese con le sue aspirazioni letterarie e le proprie fragilità.

Dietro l’ambizione e l’ arroganza di Bandini, si nasconde una grande umiltà, un animo gentile e comprensivo. Bandini/ Fante è l’ «amico degli uomini  come degli animali», perché conosce la condizione degli emarginati, di coloro che per conquistarsi dignità e reputazione devono lottare con le proprie forze. Lui fa parte di questo popolo. La redenzione degli ultimi, attraverso la tenacia, il sacrificio e anche un po’ di fortuna è la lezione che Fante vuole dimostrare con questa sua grande opera.

Nel romanzo emerge anche una profonda ricerca di spiritualità, radicata nella tradizione familiare dell’autore, spesso incapace di dare risposte ai suoi interrogativi. Bandini patteggia con Dio, lo invoca e lo respinge, combattuto tra fede e scetticismo: « Quale Dio? Quale Cristo? Erano miti in cui avevo creduto un tempo ma ora era fede che mi sembrava mito […] Scendi giù dal tuo paradiso, Dio, scendi che ti spacco la faccia, maledetto buffone […] La Chiesa deve sparire; è il ricettacolo degli stolti, delle canaglie e delle mezze cartucce».

A mio parere, non è la trama, ma lo stile il vero punto di forza del romanzo. La narrazione in prima persona è scorrevole e intimistica, come se fosse il lettore a dialogare con sé stesso. Ma l’alternanza con la terza persona, in alcuni passaggi, rende il ritmo ancora più dinamico consentendo all’autore di osservare il suo protagonista da una certa distanza, restituendolo come un’entità indipendente.

Le descrizioni sono poesia, senza effetti speciali, ma di una bellezza sobria e naturale.

«Quando varcò le porte girevoli, fu come una musica […] La città che si stendeva ai miei piedi sembrava un albero di Natale […] la nebbia si era insinuata ovunque come un grande animale bianco […] I suoi capelli sparsi sul cuscino sembravano inchiostro uscito da una boccetta […] Il suo viso giallastro, in cui solo gli occhi sembravano vivi, mi ricordava una rosa dimenticata tra le pagine di un libro […] Facce sbiadite come fiori strappati alla radice e ficcati in un vaso…», il libro ne è pieno.

Nei dialoghi Fante è un maestro: sono essenziali, vivi, perfetti. Nascondono bene la loro finzione.

È pure evidente nel racconto, la difficoltà - così attuale - di affermarsi come scrittori, di rendersi credibili al mondo e all’editoria, nonostante il talento.

In Arturo si avverte una profonda solitudine, condizione quasi necessaria alla creazione artistica, che lo porta a preferire l’immaginazione all’esperienza diretta dell’amore per Camilla.

La Morte e la malattia, attraversano spesso questo romanzo, argomenti scomodi per un giovane come Bandini, ma che diventano occasione di  consapevolezza e di trasformazione artistica. «Fui sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo […] il male del mondo non era più tale, ma diventava ai miei occhi un mezzo indispensabile per tener lontano il deserto».

Lo stesso deserto da cui arriva la polvere che dà il titolo al libro, riempie ogni scena, ogni passaggio, le strade di L.A, la stanza di Arturo. È  la polvere del Mojave, quel velo dietro cui si cela la verità delle cose, oppure come scrive Fante nell’epilogo, «è una polvere da cui non cresce nulla, una cultura senza radici, una frenetica ricerca di un riparo, la furia cieca di un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere». Parole di grande attualità, che sembrano raccontare la storia odierna, di quelle popolazioni perseguitate in cerca di asilo o di una patria.               

Chiedi alla polvere è un grande libro, un desiderio di appartenenza, un respiro di speranza, di possibilità di sogni che possono realizzarsi.

Una lezione di vita, nella voce di un ventenne: «Diventare un uomo migliore: sempre quella era l’idea di Arturo Bandini, di diventare un grand’uomo, di scrollarsi la polvere della strada, di amare uomini e bestie nello stesso modo»

“Chiedi alla polvere” di John Fante ( ed Einaudi 1982)

01 novembre 2025

MI RICONOSCI di Andrea Bajani

 

«Comunque, per quanto poche, la vita lascia anche altre opzioni»

Un libro che nasce come omaggio ad Antonio Tabucchi – al suo valore di scrittore e di uomo – emigrato in Portogallo senza però recidere il legame col suo paese d’origine, in particolare con Vecchiano, in Toscana.

È la storia di un’amicizia tra due scrittori: stessa origine, stessa passione per la letteratura, stesso amore per le parole. Scritto in prima persona (dall’autore stesso) e rivolto direttamente all’amico, come una lettera a senso unico, il racconto inizia dalla fine – dal funerale di Tabucchi – per ripercorrere a ritroso la storia della loro amicizia, il vissuto e le esperienze condivise, i momenti salienti e incisivi della loro  relazione intellettuale, fino alla malattia e alla morte, il 25 marzo 2012.

La malattia diviene uno spartiacque, un confine tra un prima e un dopo. Trasforma il corpo ma non l’anima, lo trasforma senza chiedere il permesso, senza possibilità di scelta. Bajani la descrive con una lucidità disarmante: «Non eri tu che la sceglievi, era la morte che ti metteva addosso la sua maschera di carnevale. Ti obbligava a una vestizione che non avevi chiesto».

Una frase che esclude ogni pietismo , restituendo alla morte un valore oggettivo, quasi naturale.

La storia di un’amicizia autentica, in cui si può essere sé stessi, dire ciò si pensa senza filtri, telefonarsi a notte fonda per parlare ore e poi riagganciare senza neppure un saluto formale.

Le frasi scorrono come versi, una prosa che ha il respiro della poesia, mai melensa, sempre essenziale. Dolore, malattia, sofferenza e morte pervadono il testo, restituite dall’autore come un omaggio alla vita, al valore degli affetti, dell’amicizia e dei legami veri.

In un passaggio, Tabucchi dialoga con la Morte, quasi a patteggiare con lei: prima con spavalderia, poi con rabbia, infine con accettazione.

Le descrizioni sono minuziose e singolari: non spiegano, mostrano

Ottime le metafore e similitudini che colpiscono per precisione e concretezza. Ogni emozione viene restituita attraverso un suono, un colore, un odore o una forma. È come se Bajani scavasse nelle parole per trovare alla fine, il “ tesoro” nascosto.

Mi riconosci è un libro per chi ama la buona letteratura, per chi non si accontenta di una trama ma cerca qualcosa di più: un’esperienza di stile e di verità, dove la scrittura diviene un modo per riconoscere se stessi e gli altri.

“Mi riconosci” di Andrea Bajani (ed Feltrinelli 2013)

13 settembre 2025

PARLA, MIA PAURA di Simona Vinci

 


«Ecco il trucco, la magia: non chiudere, apri. Non nasconderti, mostrati. Non tacere, esprimiti. Se hai paura, chiedi aiuto».

Un  romanzo autobiografico intenso questo libro di Simona Vinci  in cui l’autrice racconta senza veli le proprie paure: l’insorgenza degli attacchi di panico, la depressione post partum, l’anoressia, le idee suicide come unica via di fuga, i lunghi anni di terapia.

«La “Ragna”- così la scrittrice definisce la depressione - è lì, aggrappata alla tua schiena, la bocca agganciata al tuo midollo. Ti succhia anche se non te ne accorgi. Di te si nutre, di te si riempie, di te fa strage».

Depressione, ansia, attacchi di panico, esistono strategie per affrontare condizioni tanto subdole quanto invalidanti , che impediscono di vivere? È possibile mettere a tacere la regina delle paure, ovvero la paura della paura?

Per Simona Vinci la salvezza passa attraverso la scrittura, il potere salvifico della parola, come afferma nelle Nota a fine  libro: «È grazie alle parole, quelle che ho letto, quelle che ho scritto, quelle che ho ascoltato e quelle che ho pronunciato, se sono ancora viva».

Una scrittura fluida, sincera, che colpisce per la sua forza disarmante. Uno stile narrativo dal tono intimo, una capacità singolare di esprimersi con onestà al di là delle convenzioni, trasformando il dolore in linguaggio e creatività.

Una piacevole scoperta, una voce che senz’altro tornerò a leggere.

"Parla, mia paura"  di Simona Vinci ( Einaudi 2017)

02 aprile 2023

LA SCRITTRICE OBESA di Marisa Salabelle

 

La Scrittrice obesa, è il primo libro che leggo dell’autrice, Marisa Salabelle, consigliata da un’amica. Non poteva che intrigarmi un simile testo, dal momento che anche per me scrivere è una grande passione, unita alla lettura. Copertina e titolo sono assai invitanti: l’immagine della signora piena e abbondante di Tiziano Vercellio nel suntuoso abito porpora è senz’altro un punto a favore del libro, oltre al tema della scrittura, al fascino della letteratura e dell’arte dello “scrivere”.

Susanna Rosso è una giovane donna che ama la scrittura più di ogni altra cosa al mondo, parimenti solo al cibo di cui si nutre in maniera eccessiva e sregolata, tanto da diventare obesa. Orfana di padre, e poi anche della madre, rimane sola nell’appartamento di famiglia, dedicandosi soltanto alla scrittura, producendo racconti, romanzi, riflessioni, lettere a personaggi famosi e case editrici (Mondadori, Woody Allen, Ginzburg, Guccini, Tolkien, Roth, perfino Dio…) senza averne mai una risposta. In quelle lettere si avverte tutta la sua rabbia, l’odio ma anche la presunzione di non essere riconosciuta per quello che invece crede e sente di valere.

Colpisce subito la personalità di Susanna, (di cui seguiamo l’intero percorso di vita, giovane trentenne, donna matura e infine anziana), quel suo modo arrogante e presuntuoso di divorare il mondo (insieme al cibo), mondo che non l’ascolta, che continua a ignorarla nonostante le ripetute sollecitazioni. Ciò fa aumentare tutto il suo rancore, la frustrazione, l’insoddisfazione, che sublima sì scrivendo, ma riempiendosi fino all’ inverosimile di cibo malsano. Nemmeno Lorella, sua amica di infanzia, e suor Consolazione, che cercano di aiutarla, riusciranno a parte sporadici momenti, a farla deviare dalla sua folle discesa verso l’autodistruzione.

Nonostante sia una perdente, vittima di un destino che le rema contro (e quindi soggetto facile all’empatia del lettore), mi è stato difficile simpatizzare con lei, stare dalla sua parte, forse per questo atteggiamento troppo rabbioso, egocentrico, superbo e ostinato che non lascia spazio agli altri. Il suo continuo piangersi addosso e rimpinzarsi di cibo per colmare il vuoto dell’insuccesso, senza prestare ascolto a ciò che accade intorno, rifiutando il rapporto e il confronto diretto con gli altri, non me l’ha fatta amare.

Certo, ciò che Susanna afferma sull’editoria è molto vero, e spesso non basta il talento da solo a dar vita a uno scrittore apprezzato, occorre anche una buona dose di fortuna e conoscenze. Susanna può esserne l’esempio, ma non è certo l’autodistruzione, far terra bruciata intorno a sé, la modalità corretta per risolvere il problema.

In tutta sincerità, il personaggio di Susanna, non mi ha entusiasmato granché. Avrei voluto sentire e capire meglio le motivazioni, i pensieri, i veri sentimenti che ribollivano sotto tutto quel panno di grasso, oltre la rabbia e la frustrazione (sono le uniche emozioni che sono riuscita a percepire) di non riuscire a sfondare in quel talento che solo lei, Lorella e la suora riconoscono. L’ho trovata insomma un personaggio un po’ piatto, e anche la storia, la trama (che per me non è elemento fondamentale) piuttosto uniforme  (in cui si ripetono le continue abbuffate, le ordinazioni del cibo a domicilio, le liti con la vicina di casa…) senza consistenti alti e bassi da creare un ritmo più brioso e coinvolgente. Sicuramente è un mio gusto personale la scrittura più intimistica, quella che approfondisce più la psicologia del personaggio, le emozioni, i tormenti interiori, le paure, i dubbi, le sicurezze… e forse qui non ne ho trovata abbastanza.

La struttura del romanzo è sicuramente interessante e ben impostata, con l’alternanza dei punti di vista (in terza persona onnisciente e in prima persona quando parla Lorella, l’amica), altrettanto l’idea delle epistole o mail ai grandi personaggi (coloro che ce l’hanno fatta) in cui la protagonista esprime tutto il suo risentimento. Assai suggestivi sono i passi in cui Susanna, ormai chiusa nel proprio mondo, isolata da troppo tempo, immersa completamente nella scrittura, comincia a confondere la realtà con la finzione: i due mondi (realtà e immaginario) si fondono, formandone uno solo, unico e vero, ma soltanto per lei. Gli incontri tra Susanna e i suoi personaggi, i quali molto spesso si lamentano con lei per la sorte che ha destinato loro, sono davvero ben costruiti e memorabili. «Perché mi hai fatto i piedi palmati? Si può sapere  cosa ti è saltato in mente?» ,«Il cancro mi sta divorando, ho dolore indescrivibili!»,«Già mi ha dato un cognome assurdo, c’era bisogno che mi facessi venire pure la sclerosi multipla?»,«Sadica!», «Pervertita!», «Assassina!»

La scrittura è fluida, nitida, competente, sicuramente una piacevole lettura, anche se alla fine, per tutte le ragioni anzidette, mi ha lasciato una sensazione di mancanza, quel  vuoto che la protagonista avrebbe senz’altro riempito, con un bel bignè alla crema, o forse due.

 A.C.

La scrittrice obesa di Marisa Salabelle (Arkadia2022)


14 novembre 2021

UNA TORTURA DELIZIOSA - Pagine sull’arte di scrivere” di Henry Miller

 

Non poteva mancare nel nostro blog un testo sulla scrittura, sul valore per chi la pratica, sul significato intrinseco della parola, sull’ impegno, ricerca e faticoso lavoro che si cela dietro l’arte dello scrivere, affidato non solo all’ispirazione del momento.

In questo libro che racchiude frammenti tratti dalle principali opere di  Henry Miller (Tropico del Cancro, Crocifissione rosa, Tropico del Capricorno, Primavera Nera, The Cosmological Eye, I libri della mia vita, Arte e oltraggio, ecc…) si svela la personalità dell’uomo e dello scrittore, unità unica e inscindibile costruita col tempo e l’esperienza, fonte primaria per la ricerca della verità.

Infinite sono le riflessioni sulla scrittura, e mi trovo in difficoltà a selezionare le più significative e rilevanti, a testimonianza delle sue capacità di artista della parola.

“La scrittura come la vita stessa, è un viaggio di scoperta. L’avventura è di tipo metafisico: è un modo di accostarsi indirettamente, o di acquisire una visione totale piuttosto che parziale dell’universo. Lo scrittore vive sospeso tra il mondo superiore e quello inferiore:imbocca una strada per poter alla fine diventare lui stesso quella strada.[...]. Sono un uomo che racconta la storia della sua vita, un’operazione che sembra diventare sempre più inesauribile man mano che vado avanti [...].Quasi fin dall’inizio sono stato profondamente consapevole che non esiste uno scopo. Non spero mai di abbracciare il tutto, ma semplicemente di dare in ogni singolo frammento, in ogni opera, la sensazione del tutto man mano che vado avanti, perché sto scavando sempre più in profondità nella vita, scavando sempre più in profondità nel passato e nel futuro. Con questo scavare senza fine si sviluppa una certezza che è più grande di qualsiasi fede o credo. Divento sempre più indifferente al mio fato, come scrittore, e sempre più certo del mio destino di uomo. [...]

Il destino dell’uomo è per Miller la ricerca del proprio destino:

“…il problema non è andare d’accordo con il proprio vicino o contribuire allo sviluppo del proprio paese, ma scoprire il proprio destino, vivere in armonia con il ritmo profondo del cosmo [...]. Il paradiso è ovunque , ed è lì che porta ogni strada, se si continua a percorrerla fino in fondo.    

La scrittura ha questa valenza intrinseca di rivelare l’uomo che è in noi, di renderci consapevoli della nostra identità, attraverso il percorso stesso, un percorso che sembra non avere mai fine.

E ancora ci parla dell’impronta autobiografica della sua scrittura:

“Ogni riga, ogni parola è profondamente collegata alla mia vita, sia sotto forma di azione, evento, dato, pensiero, emozione, desiderio, evasione, frustrazione, sogno, fantasia, capriccio, perfino i frammenti incompleti che fluttuano distrattamente nel cervello come i fili spezzati di una ragnatela”.

E della consapevolezza del suo unico talento:

“Mi sentivo spinto a scrivere perché sembrava l’unico sbocco possibile per me, l’unico compito adatto alle mie capacità”.

Ma anche la consapevolezza che nel perseguire questa strada si deve distruggere ogni certezza degli altri su noi stessi:

“Ho dovuto imparare a pensare, a sentire e vedere in modo completamente nuovo, in un modo incolto, in un modo tutto mio, che è la cosa più difficile del mondo. Ho dovuto tuffarmi nella corrente, sapendo che probabilmente sarei affondato [...] Nessuno può affogare nell’oceano della realtà se si abbandona volontariamente all’esperienza. Nella vita non si progredisce adattandosi, ma osando e obbedendo al cieco impulso”.

Può sembrare rischioso e azzardato un pensiero del genere, che poi ha portato Miller a osare con un linguaggio scandaloso spesso criticato e censurato, ma che trova conforto, spiegazione e riscatto in queste parole:

“Agli occhi di Dio tutto è divino. E quando dico tutto intendo tutto. Se si guardano le cose in questa luce, la parola trasmutazione diventa ancora più carica di significato: implica che il nostro benessere dipende dalla nostra comprensione spirituale, dall’uso che facciamo della visione divina che possediamo.”

Non sono certamente le parole oscene e il linguaggio accusato di pornografia a togliere valore e spiritualità all’opera di Miller.

Avrei ancora tanto da commentare in merito al libro che consiglio a tutti coloro che come me, hanno riservato alla scrittura un posto speciale nella propria vita. Non è questo lo spazio giusto per dilungarmi, perciò segnatevi il titolo e leggetelo, se sono riuscita a incuriosirvi.

Voglio terminare con una bellissima frase dell’autore, che riassume, il grande Uomo e Scrittore (per quanto lo conosca) che ho trovato in lui:

“ L’umanità si trova in queste perniciose condizioni perché tutti noi, i giusti come gli ignoranti e i malvagi, manchiamo di vera indulgenza, di vera compassione,  di una vera conoscenza e comprensione della natura umana. Per dirla nel modo più succinto e semplice possibile, questo è il mio atteggiamento fondamentale nei confronti della vita, in altre parole la mia preghiera: «Smettiamola di contrastarci a vicenda, smettiamola di giudicarci e condannarci, smettiamola di massacrarci»”. (da The Henry Miller Reader, 1959)

A.C.

"Una tortura deliziosa - Pagine sull’arte di scrivere” Ed. minimum fax