L’importanza del
cambiamento
Una lettura illuminante, un testo che tutti – medici, chirurghi, studenti in medicina, operatori sanitari che come me si occupano di assistenza – dovrebbero leggere e analizzare per acquisire non solo conoscenza, ma una maggiore consapevolezza e coscienza sulla realtà della cura.
È proprio l’umiltà, la trasparenza dell’autore nel suo mostrarsi senza timori, riconoscendo i propri limiti e quelli della scienza, il desiderio di non arrendersi mai in un’ottica di miglioramento continuo, nonché la sua volontà a trovare risposte, che cattura e ancora al testo.
Approfondire, sezionando ogni capitolo sarebbe interessante, perché tanti sono i momenti di riflessione, ma ne verrebbe fuori una lunga e troppo ampia argomentazione che in questo spazio non è richiesta. Voglio solo lanciare sassolini nel fiume, le cui onde possono arrivare a toccare qualche sponda.
È un saggio, ma anche un diario dove si riportano storie e fatti realmente accaduti; è anche una raccolta di articoli dove si elencano cifre, dati e rapporti ma lo si può leggere anche come un romanzo, in cui non manca la biografia del chirurgo con le certezze e i dubbi, successi e fallimenti nel grande viaggio della cura dell’altro.
È un libro che porta inevitabilmente a meditare sulla nostra attività di operatori sanitari, a rimettere in discussione il nostro modo di essere e di lavorare e a riconsolidarci in maniera nuova, adottando strategie di crescita personale e collettiva.
Così Atul Gawande ci elenca tre importanti requisiti per il successo in medicina.
Ecco allora che la scrupolosità
diviene una virtù basilare, in «quanto
necessità di prestare sufficiente attenzione ai dettagli per evitare errori e
superare gli ostacoli».
Fare la cosa giusta
non è
questione di poco conto, se la si estende anche all’assistenza, nel momento in
cui il paziente più che ostinazione e accanimento terapeutico ha maggiore
necessità di cure palliative e di supporto umano. In tal senso l’autore
si interroga «su come facciamo a capire
quando bisogna continuare a lottare per un malato e quando bisogna smettere».
E poi c’è l’ingegnosità,
un termine che trovo entusiasmante, che definisce il “saper pensare” in modo
nuovo sulla base delle proprie conoscenze, competenze e responsabilità.
Una lettura che apre la mente a chi è disposto al cambiamento, che
ci trasforma in devianti positivi alla
continua ricerca del meglio per il meglio e di conseguenza apporta beneficio a
chi si relaziona con noi, a chi curiamo, assistiamo.
Concludo con i cinque consigli della postfazione, che non posso
fare a meno di menzionare, tanto sono chiari, incisivi, determinanti:
1) Fate una domanda fuori
copione: uscire ogni tanto (e quando la condizione lo permette) dal copione,
dal proprio ruolo professionale, chiedendo magari al paziente qualcosa che va
al di là della sua patologia può arricchire la cura e anche noi stessi. Il
paziente non è solo la “sua malattia”.
2) Non lamentatevi:
potrei scrivere anch’io un saggio sulle lamentele nei luoghi di lavoro ma non
voglio aggiungere altro altrimenti mi
lamento.
3)Trovate qualcosa da
contare: (questo non fa per me) dati,
cifre e numeri a testimonianza della qualità della cura.
4) Scrivete qualcosa:(invita
la lepre a correre) la scrittura «consente
di ritornare su un problema e di riflettere».
E infine:
5) Cambiate: «le scelte di un medico sono necessariamente
imperfette, ma cambiano la vita delle persone. Per questa ragione, a volte,
sembra più prudente attenersi a prassi consolidate, a ciò che fanno tutti,
limitarsi a essere una delle tante rotelle in camice bianco di una grossa
macchina. Invece no, un medico non deve farlo, non dovrebbe farlo nessuno che
si assuma rischi e responsabilità nella società».
E concludo davvero aggiungendo anch’io un piccolo consiglio, già
compreso in parte nelle citate virtù: cerchiamo di usare sempre anche un
pizzico di creatività, che non toglie ma aggiunge benessere e valore.
“Con cura Diario di un medico deciso a fare meglio” di Atul Gawande (2007 Einaudi)