Visualizzazione post con etichetta fragilità. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta fragilità. Mostra tutti i post

14 dicembre 2025

FAME di Knut Hamsun

 

Dignità, generosità e onestà, gli ingredienti giusti per placare la fame

Knut Hamsun ( 1859-1952), scrittore norvegese e premio Nobel per la Letteratura nel 1920, è una figura complessa e controversa. La sua opera è stata a lungo offuscata per le sue simpatie nazifasciste che gli costarono anche la prigionia. Al di là di questo Fame resta uno dei romanzi più influenti del Novecento.

Il romanzo, semibiografico,  narra le vicissitudini di un giovane scrittore esordiente nella città di Christiana impegnato in una estenuante battaglia per affermarsi nel difficile e impervio  mondo dell’editoria.

La narrazione ruota attorno al vagabondare del protagonista - tema ricorrente in tutte le sue opere - alle prese con difficoltà economiche, dubbi sulle proprie capacità creative e intellettuali, rifiuti editoriali e colpi avversi di una sorte che sembra accanirsi contro di lui.

Nel protagonista/ autore, si avverte una somiglianza impressionante con Arturo Bandini di J.Fante: il peregrinare incessante, la miseria, la ricerca disperata di comprensione e amore, il continuo rivolgersi a un Dio percepito ostile e ingiusto, ma sempre invocato e presente.

Anche per questo Hamsun viene considerato un pioniere della narrativa del Novecento, spostando l’attenzione sulla realtà più profonda dell’essere umano: sui  bisogni, desideri, aspirazioni che possono condurre tanto alla grandezza quanto alla follia e alla miseria.

La fame - quella vera, fisica - domina la scena. Si impone, sembra placarsi con pasti abbondanti ed esagerati, per poi  tornare ancora più prepotente e persecutoria. Da qui nascono deliri, allucinazioni, sofferenze del corpo e della mente, che portano il protagonista costantemente al limite delle possibilità,  per poi superarlo e ricominciare da capo con rinnovata e inspiegabile energia.

Nel romanzo si assiste a una continua caduta negli abissi seguita da improvvise risalite, spesso dovute a eventi fortuiti o momentanee benevolenze della sorte. Una precarietà incessante che non concede mai stabilità e certezze.

La prosa di Hamsun è molto meticolosa, dettagliata, frammentata, dilatata nel tempo. In alcuni passaggi può forse risultare ripetitiva, ma questa scelta stilistica si rivela comunque efficace per restituire l’ossessione della soddisfazione di un bisogno primordiale come il cibo e l’alterazione della percezione che ne deriva.

Un personaggio davvero  unico, lo stereotipo dello scrittore che crede ostinatamente nelle proprie capacità e gioca il tutto e per tutto per raggiungere il suo obiettivo. Colpisce questa incrollabile convinzione, che sembra essere il viatico per raggiungere il successo: talento, determinazione, impegno, costanza, e inevitabilmente una buona dose di fortuna. Il tutto vissuto nel rispetto dell’altro, senza prevaricazione nè antagonismo.

A sorprendere maggiormente è però la sua integrità morale. Nonostante la miseria estrema, emergono onestà, generosità e altruismo. Il protagonista non indulge nell'autocommiserazione e non vede solo le proprie disgrazie, ma anche quelle altrui arrivando a donare il poco denaro posseduto a chi ritiene ne abbia più bisogno. Intanto la fame lo consuma, lo indebolisce, lo uccide.

Povero ma dignitoso, pensa: «la consapevolezza di essere una persona onesta mi aveva dato alla testa, colmandomi di una sensazione gloriosa di essere un uomo di carattere, un faro bianco nel mezzo di una marea vergognosa di persone miserabili».

Le descrizioni sono così suggestive, da trasmettere tutta l’angoscia, il languore, il vuoto, il delirio, i fantasmi che la mancanza di cibo è in grado di evocare. Una fame percepita a livello fisico e mentale, una fame che tuttavia non cancella i pilastri dell’ integrità dell’ uomo: dignità, onestà e altruismo.

Il lettore finisce per sentirsi affamato insieme al protagonista, a gioire con lui dei suoi brevi successi editoriali, ad indignarsi davanti alle umiliazioni subite e alle improvvise e sconsiderate dispersioni del denaro appena ricevuto.

Un’ altalena di sentimenti contrastanti - euforia e depressione, sazietà e mancanza, pienezza e vuoto, felicità e tristezza - che rende il romanzo toccante ed estremamente realistico.

Fame è una lettura intensa, scomoda e profondamente umana, che non concede consolazioni nè soluzioni definitive. Un romanzo capace di mettere il lettore davanti alla fragilità dell'individuo e, al tempo stesso, alla sua ostinata volontà di resistere. Un'opera che logora, coinvolge e resta impressa, invitando ad andare oltre la superficie della fame per interrogarsi sul prezzo della dignità, dlla vocazione e dell'integrità morale.

Una scoperta che merita di essere approfondita.

 “Fame” di Knut Hamsun ( ed. Gli Adelphi 2002)


13 novembre 2024

L’ORA DI GRECO di Han Kang

 

Dopo La vegetariana, sapevo che sarei andata incontro a una lettura non facile, ma non avrei mai immaginato di ritrovarmi un testo così articolato, da leggere un po’ alla volta, a piccoli sorsi come una bevanda troppo calda che rischia di bruciarti la gola. Sì, perché ho trovato L’ora di greco un libro assai complesso, almeno nella struttura anche se si deve forse a questa peculiarità parte del merito e della bellezza.

A differenza del libro precedente (dal quale non posso separarmi) che aveva una forma più definita e chiara – perché diviso in tre parti, di cui ciascuna descriveva il punto di vista di un personaggio – qui la struttura invece appare stravolta, perché l’autrice sembra avanzare più per sensazioni che per logica, creando un puzzle di immagini, suoni, profumi, odori e sensazioni tattili legate alle vicende, che il lettore stesso deve essere abile a ricomporre, per seguire la trama delle storie in una Seoul indistinta.

Lo stile è caratteristico e audace. L’autrice si destreggia con maestria passando velocemente dalla terza alla prima persona, per infine inserire anche la seconda persona (nei monologhi del professore con l’amico Joachim Gründel e con la sorella Ran) mantenendo però sempre fermi i punti di vista dei protagonisti.

Due sono i personaggi principali, semplicemente la “donna”e l’“uomo”, due esseri umani senza l’ importanza del nome – nonostante la loro forte individualità – due esistenze simili che incrociano i loro destini segnati dalle loro specifiche mancanze: la vista per lui, la parola per lei.

E nell’ aula – dove lui, il professore, insegna greco mentre lei segue le sue lezioni – tra le strade di Seoul, nell’appartamento senza luce e vuoto di lei, si muovono le loro storie, frammentate dai ricordi di un passato, ora dell’uno ora dell’altra, che ricompongono lentamente il quadro complesso delle loro esistenze.

Ognuno di loro porta con sé il peso del proprio dramma, che la scrittrice sa svelarci con maestria, riproponendo quelli che sono i temi a lei più cari: la famiglia – i rapporti fraterni, coniugali, filiali – l’amore, la solitudine e l’impossibilità di entrare in relazione con l’altro, la diversità o meglio l’unicità, la malattia, la fragilità

Nei personaggi di Han Kang è profondamente radicato “il male di esistere”, come un sintomo che necessita di una cura da ricercare per essere gestito e placato; oppure si va oltre, dove c’è una completa separazione tra il corpo e lo spirito, fino al paradosso di una completa fusione senza più un confine: «A volte, più che una persona, ha l’impressione di essere una sostanza di qualche tipo, un solido o un liquido in movimento. Se sta mangiando del riso caldo, le sembra di essere riso caldo. Se si sta lavando la faccia con acqua fredda, le sembra di essere acqua fredda. Allo stesso tempo, sa benissimo di non essere né riso, né acqua, bensì una materia resistente, spietata, che si rifiuta di mescolarsi con qualunque altra forma di esistenza».

Han Kang sa regalare al lettore (se la sa cogliere) una chiave di lettura nuova, spalancando la porta su un mondo dove le angosce, le paure, le sofferenze diventano immagini, suoni, profumi, trasformando l’emozione in materia e la materia stessa in emozione. Una prosa che in molti tratti si fa poesia.

A testimonianza può bastare questo passaggio nella caratterizzazione della “donna”: «Da quando ha perso l’uso della parola, a volte ha l’impressione che le sue inspirazioni ed espirazioni siano un po’ come il linguaggio. Intaccano il silenzio con altrettanta audacia della voce». Oppure nel parlare del suo mutismo: «Non era un problema di corde vocali o di capacità polmonare. Semplicemente non le piaceva appropriarsi dello spazio» dove si legge tutta la sua ostinazione a non volersi relazionare col mondo; e ancora «Ognuno occupa un certo spazio fisico che corrisponde esattamente al volume del proprio corpo, ma la voce si propaga molto oltre. Lei non voleva espandere la propria presenza».

Interessante la fusione dei sensi, lo sguardo che si sostituisce alla parola e nel caso dell’uomo, la parola che si sostituisce là dove gli occhi non possono più comunicare. E sarà proprio questa combinazione a creare lo spiraglio di luce nel dramma delle loro vite, una possibile riconciliazione col mondo. Un poetico lieto fine (che nel precedente libro mancava) che apre il cuore alla speranza.

 “L’ora di greco di Han Kang” ( Adelphi 2023)