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27 aprile 2024

LE CAMPANE DI BICÊTRE di George Simenon

 

Come può sentirsi un uomo all’età di cinquantaquattro anni, direttore di un importante giornale parigino, nel pieno della sua attività lavorativa, sociale e affettiva, che all’improvviso si ritrova in un letto di ospedale, in un corpo che non risponde più ai comandi, costretto a una dipendenza fino allora sconosciuta, in balia di una schiera di persone che pensano, decidono e agiscono in vece sua, convinti di conoscere la sua volontà?

Ce lo spiega molto bene George Simenon in questo suo romanzo datato 1963, in cui ancora una volta ci delizia con la sua narrativa accattivante e coinvolgente, capace di sviscerare e captare il moto anche più sottile e recondito dell’animo umano, questa volta nell’autoanalisi di un uomo malato.

Renè Maugras, persona influente, giornalista affermato a livello nazionale, durante la cena con il gruppo di amici abituali (anch’essi personaggi di spessore nell’entourage parigino) viene colpito da un ictus nella toilette del ristorante. Si risveglierà in seguito in clinica, constatando l’ inevitabile realtà che non è più come prima, che non può muoversi, parlare, interagire, attaccato a una flebo di glucosio che lo alimenta al posto del suo apparato digerente. La sua mente capisce tutto e capisce anche molto bene che gli altri parlano per lui, si sostituiscono a lui, alle sue parole, pensieri, sentimenti e perfino emozioni. Chi sono per arrogarsi tale diritto? Come mai sono così sicuri di sapere quello che lui sta provando? Lo conoscono davvero tanto bene? Questi e altri interrogativi popolano il romanzo, che si muove alla continua ricerca di una spiegazione, di un senso, di una o molteplici realtà che ruotano attorno alla vita di quest’uomo.

Ecco allora che dalla forzata pausa di inattività fisica nella sua camera di degenza, germoglia un’intensa attività mentale ed emotiva, che porta Maugras a catturare anche il più piccolo dettaglio, a soffermarsi su ogni singola azione compiuta dagli altri, a prestare attenzione a quel microcosmo in cui è costretto a vivere (e che in fondo non gli dispiace), che nella sua limitatezza nasconde verità mai viste o immaginate.

Nel letto d’ospedale il suo ruolo di direttore, la sua autorità e autorevolezza, pur essendogli ancora riconosciute, cambiano tonalità, espressione, dovendosi riadattare alla nuova condizione: « (i medici) si rivolgono a lui come a un essere umano […] è anche vero che, contemporaneamente, lo trattano come un oggetto». Si perché la malattia lo ha catapultato in un’altra dimensione adesso, «lui ha superato una barriera invisibile e adesso si trova in un altro universo», un universo in cui non si sente più un soggetto con autonomia operativa e decisionale, ma un essere la cui sopravvivenza adesso dipende da altri, dai medici che si occupano della guarigione, dalle infermiere che lo vigilano e assistono nei suoi bisogni, notte e giorno.

Interessante è il suo pensiero da emiplegico, antitetico al precedente di persona sana, che poi è ciò che fa cadere in errore tutti coloro che gli stanno attorno, «che vogliono pensare al posto suo» mentre «Come potrebbe spiegar loro che lo disturbano, che lui è rassegnato, che non ha bisogno d’incoraggiamenti, che quello che gli succede doveva succedere, e che lo accetta, anzi gli dà sollievo …». Per questo anche i tentativi dell’infermiera, la signorina Blanche, di distrarlo dalla presunta angoscia non lo interessano. È soltanto una forma di inganno che lui non gradisce.

In questo romanzo, sebbene datato, emerge forte l’aspetto del rapporto medico - paziente, e quanto spesso sia difficile la componente relazionale della cura, il mettersi a fianco della persona in ascolto, per capire ciò che davvero sente, prova, vuole e questa interessante domanda retorica ne esprime appieno il senso: «Per certi medici il sogno non sarebbe la malattia senza il malato?».

«Medici e specialisti hanno una visione ristretta del problema», per questo non vedono la realtà nella totalità, non si sforzano di capire la volontà del paziente, e proprio come un oggetto, lo escludono dai loro sguardi come se quello che sta accadendo in lui non lo riguardasse.

La malattia interrompe un cammino idealizzato, cambia le regole del gioco, con l’annuncio di una diagnosi «si diventa un malato che non vedrà mai più la vita sotto la stessa luce».

Ma la malattia per Renè è anche occasione di riflessione, la maniera di rallentare, di fare chiarezza, di interessarsi agli altri «di cui sente il bisogno di raschiare via la superficie, convinto, se ci riesce, di arrivare a vedere più chiaro in se stesso».

Ecco allora l’analisi del rapporto con la moglie Lina, alla ricerca continua di sicurezze e serenità che solo l’alcool sembra concederle momentaneamente; con la figlia disabile, l’unica che sa affrontarlo da pari, capace forse di capirlo meglio di tutti gli altri; con gli amici più intimi con i quali adesso disprezza la compagnia; con il professor Besson, l’amico medico che vuole ricacciarlo in fretta nel mondo di prima; col suo collaboratore, così imbarazzato quando viene a trovarlo, da parlare ininterrottamente, per non lasciare spazi vuoti al suo silenzio.

Tutti lo spronano a collaborare, perché è forte e il ritorno alla salute di un tempo dipende da lui. Ma è davvero così scontato e ovvio che un uomo malato anche se curabile, voglia guarire in fretta? Ciò che gli altri pensano e credono giusto per lui  è verità universale e soprattutto coincide sempre con ciò che è bene per la persona? Ancora una volta volontà, desideri, tempistiche, aspettative non sono quelli del malato ma del sistema che vi gira intorno.

Un taccuino, sul quale annota ogni giorno non senza difficoltà anche solo una parola, gli sarà di aiuto in questa fase di ricerca di comprensione.

Un libro indimenticabile che metto in cima alla lista delle scritture dell’autore, forse perché parla del mio mondo professionale, della malattia, della cura e assistenza, del non facile percorso di recupero della salute, il tutto permeato da un’intensa narrativa introspettiva, capace di sciogliere nodi per permettere la ripresa dell’imprevedibile  e incredibile viaggio chiamato Vita.

Un’opportunità per tutti i lettori - grazie al personaggio di Renè divertente e stimolante che riesce nella tragicità a strapparci sempre un sorriso o una risata -, di immedesimarsi in una situazione di infermità invalidante, di avvicinarci alla malattia senza disperazione ma con lucidità, come un cambiamento (fisico, mentale, spirituale) e sicuramente come possibilità di crescita e di evoluzione.

Le campane di Bicêtre” di George Simenon ( Adelphi Edizioni 2009)

31 marzo 2024

LA CURA di Hermann Hesse

 


«Perché la vita non è un conto o una figura matematica, ma un prodigio»

Già in questa frase così incisiva, si può ben intuire il valore de “La cura” di Hermann Hesse, scritta nel 1925, successiva di pochi anni a “Siddartha”, in cui l’autore esplora, sebbene in maniera assai diversa, le tematiche a lui care.

La cura”, romanzo breve ma di un’intensità straordinaria, può considerarsi anche una sorta di diario - appunti di un soggiorno presso Baden in una lussuosa stazione termale, che lo scrittore cinquantenne si concesse per le cure di una sciatalgia - per la scrittura intima, riflessiva, introspettiva, che come un flusso di coscienza si sviluppa e si mantiene costante in tutta la narrazione, con un sottotesto che ci rivela l’intento dell’autore, di non lasciare il manoscritto chiuso in un cassetto, ma destinarlo a un lettore, ai suoi lettori, per la chiarezza nell’esporre, spiegare, analizzare i pensieri che sgorgano impetuosi dalla sua mente vivace e curiosa.

Un percorso di cura, volto al benessere del corpo, della mente e dello spirito, occasione per riflettere e approfondire attraverso gli aspetti del quotidiano, il suo “sentire”, i moti dell’ anima irrequieta e smaniosa, alla ricerca continua delle verità. Hermann Hesse è un chirurgo del corpo e dell’anima, seziona, sviscera, esamina ogni sentimento ed emozione per capire e per capirsi. Ecco allora le analisi accurate sulla sua apatia mattutina, sull’insonnia con la quale convive da anni, sulla sua indole solitaria, sulla trappola del piacere scaturito dal cibo e dal gioco, sulle asserzioni del cinematografo e della musica frivola, sul consumismo imperante che schiavizza l’umanità inventandosi futili necessità … su una foglia secca entrata al volo dalla finestra «di cui respiro lo straordinario memento della caducità, che ci fa rabbrividire ma senza il quale non ci sarebbe nulla di bello».

E qui si riallaccia la sua visione dualistica dell’uomo stesso, il suo essere buono e cattivo, virtuoso e vizioso, ordinato e caotico, assennato e folle,… nel continuo oscillare tra materialismo e idealismo, perché non può esistere niente di assoluto e perfetto, «che un uomo, per tutta la vita, possa venerare sempre lo spirito disprezzare sempre la natura, essere sempre rivoluzionario e mai conservatore o viceversa, mi sembra, sì, una gran prova di virtù, di carattere e di fermezza, ma mi sembra anche, e non meno, una cosa esiziale, folle e ripugnante, come se uno volesse sempre solo mangiare o dormire».

Un dualismo che non può esistere ed esprimersi senza la coscienza dell’ unità, come riconciliazione, ritorno, redenzione: «Noi non possiamo credere alla fine nel senso di distruzione ma solo nel senso di metamorfosi […]Nessun’altra idea mi è più sacra di quella dell’unità, l’idea che l’intero cosmo è una divina unità e che tutto il dolore, tutto il male consistono solo nel fatto che noi, singoli, non ci sentiamo più come parti inscindibili del Tutto, che l’io dà troppo importanza a se stesso».

Hesse indirizza il suo“occhio cosmico” alla ricerca di quell’unicità che nasce dalla molteplicità della realtà, «sotto il cui sguardo non c’è più nulla di piccolo, di sciocco, di brutto, di malvagio, ma tutto è santo e venerabile». E questa realtà non è altro che la Natura stessa, che ci salva dall’artificio e dall’illusione. Niente di più vicino anche al mio sentire.

L’ovvio diviene straordinario, in un continuo dialogo con se stesso, sulla nostra ineluttabile transitorietà: «È meraviglioso come la bellezza e la morte, il piacere e la caducità si esigano e si condizionino a vicenda!».

Anche il dolore, questa esperienza invisibile, multifattoriale, non quantificabile, quasi impossibile da descrivere, da dimostrare, acquista per lui un valore diverso se contrapposto al piacere, e che sembra addirittura alleggerirsi se condiviso con gli altri.

La cura è perciò non solo finalizzata al miglioramento fisico e mentale, ma soprattutto alla consapevolezza che la malattia deve avere un posto marginale nella vita di una persona.

«Il paziente Hesse, grazie a Dio, è morto e non ci riguarda più. Al suo posto c’è di nuovo un Hesse del tutto diverso: anche questo con la sciatica, ma ora la possiede anziché esserne posseduto».

La malattia non si combatte ma la si vive, facendosela compagna di viaggio e non protagonista assoluta di vita. «Io abbandono la malattia a se stessa, non sono mica al mondo per farle la corte tutto il santo giorno».

Perseguire la salute totale quando gli anni avanzano e gli acciacchi si sommano è un utopia, e Hesse lo dice chiaramente «Preferiamo soltanto guarire a metà, ma vivere in cambio in modo un po’ più piacevole e divertente, noi non siamo giovinetti che pretendono l’assoluto da se stessi e dagli altri, ma persone anziane, profondamente implicate nei condizionamenti dell’esistenza e perciò abituate a lasciare un po’ correre. No, non vogliamo essere perfettamente guariti, non vogliamo vivere in eterno» Un pensiero sorprendentemente attuale, considerando che è datato un secolo.

Una lettura che continua a risuonare anche a libro chiuso, che vede il segreto di tutta la felicità racchiuso nell’ equilibrio dell’amore « possibilità di amare senza restare in debito ora in questo, ora in quello, un amore di se stessi che non ruba niente a nessuno, un amore per gli altri che però non diminuisce né violenta il nostro io!».

Un libro pieno di pillole di saggezza - che non ho potuto fare a meno di citarle di nuovo e commentarle, perdonatemi - un’ottima “cura” per coloro che hanno voglia di interrogarsi e di riflettere su ciò che veramente conta.

03 febbraio 2024

STELLA MARIS di Cormac McCarthy

 

STELLA MARIS di Cormac McCarthy

«Se sei abbastanza sano di mente da sapere che sei pazzo non sei così pazzo come se pensassi di essere sano di mente».

Non è una lettura certo facile Stella Maris di Cormac McCarthy (che leggo per la prima volta incuriosita dalla storia accattivante e dalle recensioni) definito da molti un thriller esistenziale. Ultima opera dell’autore da poco scomparso, Stella Maris costituisce il prequel de Il passeggero, anche se le due storie  rimangono separate e indipendenti.

Come dicevo è stata una lettura impegnativa e ho avuto più volte la tentazione di abbandonarla soprattutto nei passaggi dove il linguaggio diventava troppo tecnicistico e di non facile comprensione per chi come me non è “addetta ai lavori”e inesperta di matematica, fisica e filosofia. Facile bloccarsi su nomi sconosciuti, su enunciati, teorie e speculazioni di cui non conoscevo neppure l’esistenza. Però mi sono fatta coraggio e ricercando e approfondendo la terminologia ignota, sono riuscita a comprendere meglio e proseguire. Inoltre mi son detta: «Non capisce neppure Michael Cohen con cui Alicia si interfaccia più volte lo psicanalista lo ribadisce dunque posso permettermelo anch’io».

Alicia Western è una ragazza di vent’anni, esperta di matematica, fisica e filosofia (indagando ho scoperto che McCarthy stesso si appassionò a questi studi preferendoli alla letteratura), intelligentissima, suona il violino in maniera eccellente, con una diagnosi dall’età di dodici anni di schizofrenia, con manie suicide, tracce di autismo e anoressia. Nelle sue allucinazioni incontra personaggi «intrattenitori» o «famigli» come li definisce il dottor Cohen, dalle forme più strane: Talidomide Kid è uno di loro, un nano che al posto delle mani possiede ali e dialoga con lei non solo a parole. Sicuramente un caso interessante per il dottor Cohen, che l’accoglie nella struttura psichiatrica Stella Maris (nella quale era già stata internata due volte) e intraprende con lei un nuovo percorso terapeutico. Sarà un’impresa anche per lui accompagnarla in questa avventura, perché Alicia ha davvero una mente potente, acuta e arguta, poliedrica, analitica e universale, che afferma tutto e l’istante dopo lo nega, con una strabiliante cultura e proprietà di linguaggio unite alla capacità manipolatrice con cui riesce bene a deviare il percorso che il terapeuta cerca di tracciare con lei. «Lei pensa che a volte non ascolto. Penso che ascolta. Non son sicura di che cosa sente» già in questo botta e risposta si capisce già molto del suo carattere. Oppure «Sopporto male la gente che vuole aggiustarmi».

Alicia è un personaggio memorabile, con la sua storia di bimba difficile e mente geniale perciò isolata dal resto del mondo; per il rapporto conflittuale con la madre (morta quando era piccola) e il padre troppo indaffarato in questioni mondiali; per l’amore incestuoso col fratello Bobby maggiore di lei sette anni (protagonista de Il passeggero); per la relazione con la nonna, l’unica persona che la cresce e si preoccupa di lei finchè Alicia non se ne andrà in giro per il mondo. Sullo sfondo della storia si muove la Storia, quella legata al Progetto Manhattan, con la realizzazione delle prime bombe atomiche in cui il padre di Alicia, come fisico aveva preso parte. Tutto ciò lo apprendiamo attraverso il dialogo tra la ragazza e il dottor Cohen in cui emerge anche tutto il pessimismo «La mia ipotesi è che si possa essere felici fino a un certo punto. Mentre il dolore non sembra avere fondo», il suo vissuto emotivo e il tormento dell’anima, nelle lunghe riflessioni su sé stessa in relazione al mondo, combattuta e pervasa dal dubbio, dall’incertezza della realtà dell’esistere.

Proprio questi passaggi, in cui si avverte tutta la tensione e vivacità del suo mondo interiore, sono quelli che più mi hanno ancorato al libro. Come quando parla della malattia mentale: «La malattia mentale è una malattia […] è una malattia associata a un organo che per la conoscenza che ne abbiamo potrebbe anche appartenere ai marziani. È probabile che il comportamento deviante sia un mantra. Nasconde più di quanto svela. Fra i tanti problemi che il terapeuta deve affrontare c’è che il paziente potrebbe desiderare di non essere curato». C’è in questa frase, che sembrerebbe dello psichiatra ma che invece è di Alicia, un’ iniziale e interessante tematica che affronta il problema etico delle scelte di cura e il diritto del paziente alla sua autodeterminazione nel rispetto della sua volontà e libertà.

Ma anche il tema della morte è affrontato dalla protagonista in maniera molto lucida e attendibile: «Contemplare l’idea della morte dovrebbe avere un certo valore filosofico. Addirittura palliativo. Banale dirlo, ma il modo migliore per morire bene è vivere bene».

E ancora: «Non penso che ci siano modi per prepararsi alla morte. Bisogna inventarsene uno. Non c’è nessun vantaggio evolutivo nell’essere bravi a morire. Per trasmetterlo a chi? La cosa con cui stai facendo i conti – il tempo – non è malleabile. Salvo per il fatto che più lo covi meno ne hai». Pillole isolate davvero piene di saggezza.

Il ritmo è serrato, di un’intensità mantenuta ed esasperante, tanto da richiedere pause per una sigaretta o una tazza di tè,.che lo stesso terapeuta propone e che Alicia accetta volentieri.

Dal punto di vista stilistico è davvero notevole. L’autore riesce a condurre un intero romanzo - che si articola per circa duecento pagine - senza l’ausilio di nessun altra forma narrativa se non quella del dialogo, come già altri scrittori avevano fatto prima di lui ( mi viene in mente il coetaneo Philip Roth nel romanzo “Inganno”). Non è una scelta facile, sia per lo scrittore, che deve caratterizzare i personaggi proprio su ciò che fa dir loro, dal quale deve trasparire tutto il non verbale, la tonalità della voce, l’ atteggiamento, la gestualità, l’espressione facciale, la mimica, la postura che per il lettore il quale attraverso l’alternanza del dialogo (non sempre simmetrica) deve capire chi sta parlando ed entrare nel personaggio giusto, “immaginando” tutto il resto, i segnali che lo identificano, ricostruendo ogni elemento che l’autore non dice ma che esiste, (le dimensioni della stanza, le pareti bianche adornate da quadri o poster, l’illuminazione artificiale o naturale di una finestra, gli abiti di Alicia e del dottor Cohen, il bollitore del tè in un angolo). Una strategia davvero interessante.

Concludo ritenendolo un libro difficile ma d’effetto, per la capacità dell’autore di trascinare e coinvolgere anche noi lettori nel vortice di questa lucida follia, dove genialità e pazzia sembrano andare a braccetto separate da una sottile e fragile linea. Insieme allo psichiatra ci perdiamo nelle lunghe disquisizioni di Alicia, ci incantiamo, sprofondiamo con lei e ritorniamo in superficie, grazie anche, e per fortuna, alla semplicità di un gesto, come quello di una carezza, o tenersi la mano «perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa».

“Stella Maris” di Cormac McCarthy (Einaudi 2022)


12 dicembre 2023

FRANCESCO ANTONINI La vita e le intuizioni di un geriatra di Giovanna Ferretti

 

Un saggio, questo libriccino dell’autrice Giovanna Ferretti, segretaria per molti anni  di Francesco Antonini illustre professore, docente alla Cattedra di Gerontologia e Geriatria – la prima al mondo  – istituita presso l’Ateneo forentino nel 1962. Qui il Professore tenne per molti anni lezioni informali, che spaziavano dalla Medicina, alla riabilitazione e cinematografia sull’età avanzata, dalle cure palliative  al fine vita, un insegnamento dalla visione empirica, totalizzante che poneva l’attenzione sull’anziano in ogni suo aspetto, emotivo, psicologico, affettivo, culturale, sociale e non solo sulla malattia.  Molti dei suoi allievi (coi quali aveva rapporti che andavano oltre le mura universitarie), lo ricordano ancora con affetto, stima e orgoglio, consapevoli di aver avuto in lui un’ottima guida, un vero Maestro.

Così lo ricorda Pietro Valdina (medico-geriatra): «Antonini non è stato soltanto un grande clinico medico, ma un innovatore, un educatore, un trascinatore, un vulcano pieno di idee, una figura carismatica ricca di fascino personale, di cultura, vivacità e di creatività, che ha saputo interpretare molto prima e molto meglio degli altri la filosofia della vecchiaia».

Curiosità, passione, grinta, preparazione culturale, libertà di pensiero, acuto senso di osservazione e di ascolto erano le caratteristiche dell’uomo, oltre all’attitudine critica e all’intuizione, che unite alla profonda sincerità e convinzione che le animava, hanno creato e reso possibile un modo diverso e innovativo  di pensare all’invecchiamento. Un uomo dalla  solida cultura umanistica oltre che medica. Estroverso, gran parlatore, dalle uscite a effetto. “Era un ideatore, che una volta avviata un’iniziativa affidava il compito ad altri nel portarla avanti” dice ancora Niccolò Marchionni(suo allievo).  Un uomo in cui vita privata e professionale non conoscevano separazioni.

Merito di Antonini la felice intuizione del valore della funzione rispetto al valore della struttura nel considerare l’età dell’invecchiamento, focalizzando la cura non sul ripristino morfologico di ciò che la patologia o l’usura del tempo ha danneggiato, ma garantendo la funzione anche se ciò può comportare adattamenti non usuali. Passare dalla cura della patologia alla cura della persona assicurando una qualità di vita dignitosa, rispettabile, accettabile.

«Non più individui da gestire, percepiti spesso come un peso in quanto esclusi dalla produzione, ma persone alle quali si devono assicurare adeguati supporti perché possano continuare a mantenere per quanto possibile la “libertà”, intendendo con questo il mantenimento della propria autonomia, che sola può consentire libertà di pensiero e di movimento, riducendo solo a casi estremi l’istituzionalizzazione».

La cura e l’assistenza dell’anziano centrati non solo sulla patologia, ma anche sugli altri aspetti psico - sociali (affettività, solidarietà, vicinanza), in ambienti aperti ai familiari, in un atmosfera cordiale, calda di fiducia e rispetto reciproci, dove la riabilitazione  (dopo l’evento acuto) ha un ruolo basilare. Ed è proprio Antonini il pionere al quale si riconduce la nascita della Scuola Speciale per Terapisti della Riabilitazione nel 1969. Così come l’istituzione dell’Unità di Cura Intensiva Geriatrica, al Ponte Nuovo, dove già dal 1967 si svolgeva attività di geriatria internistica; e ancora la realizzazione dei “Fraticini”, una struttura ospedaliera sulle colline fiorentine, dove il Professore dette un importante contributo riguardo alla riabilitazione (non potendo svolgere il ruolo di Direttore per l’incompatibilità con l’incarico universitario). Dobbiamo ancora ringraziarlo per l’ampio impegno e dedizione nella realizzazione delle prime Unità Coronariche Mobili, collaborando insieme ad altri professionisti di livello internazionale. È sempre con lui che ha inizio nel 1983 l’Università dell’Età Libera a Firenze, dove il Comune istituisce corsi di studio aperti a tutti, anche agli anziani.

Voglio concludere con una sua bellissima frase sulla speranza, un sentimento che sembra un ossimoro legato alla terza età, sulla discriminazione: «Credere nel domani crea speranza, la speranza crea valori: come bellezza, bontà, ricerca della perfezione, amore… sei libero perché ti piace la vita, la vita ha valore perché tu le dai valore…Il più bel dono che un giovane può fare a una persona anziana è considerarla della sua stessa specie… Si parla tanto di razzismo, ma il primo razzismo che si deve sconfiggere è quello dell’età».

“Francesco Antonini – La vita e le intuizioni di un geriatra”di Giovanna Ferretti ( ed.Polistampa 2014)


03 dicembre 2023

CON CURA - Diario di un medico deciso a fare meglio



L’importanza del cambiamento

Una lettura illuminante, un testo che tutti – medici, chirurghi, studenti in medicina, operatori sanitari che come me si occupano di assistenza – dovrebbero leggere e analizzare per acquisire non solo conoscenza, ma una maggiore consapevolezza e coscienza sulla realtà della cura.

È proprio l’umiltà, la trasparenza dell’autore nel suo mostrarsi senza timori, riconoscendo i propri limiti e quelli della scienza, il desiderio di non arrendersi mai in un’ottica di miglioramento continuo, nonché la sua volontà a trovare risposte, che cattura e ancora al testo.

Approfondire, sezionando ogni capitolo sarebbe interessante, perché tanti sono i momenti di riflessione, ma ne verrebbe fuori una lunga e troppo ampia argomentazione che in questo spazio non è richiesta. Voglio solo lanciare sassolini nel fiume, le cui onde possono arrivare a toccare qualche sponda.

È un saggio, ma anche un diario dove si riportano storie e fatti realmente accaduti; è anche una raccolta di articoli dove si elencano cifre, dati e rapporti ma lo si può leggere anche come un romanzo, in cui non manca la biografia del chirurgo con le certezze e i dubbi, successi e fallimenti nel grande viaggio della cura dell’altro.

È un libro che porta inevitabilmente a meditare sulla nostra attività di operatori sanitari, a rimettere in discussione il nostro modo di essere e di lavorare e a riconsolidarci in maniera nuova, adottando strategie di crescita personale e collettiva.

Così Atul Gawande ci elenca tre importanti requisiti per il successo in medicina.

Ecco allora che la scrupolosità diviene una virtù basilare, in «quanto necessità di prestare sufficiente attenzione ai dettagli per evitare errori e superare gli ostacoli».

Fare la cosa giusta non è questione di poco conto, se la si estende anche all’assistenza, nel momento in cui il paziente più che ostinazione e accanimento terapeutico ha maggiore necessità di cure palliative e di supporto umano. In tal senso l’autore si interroga «su come facciamo a capire quando bisogna continuare a lottare per un malato e quando bisogna smettere».

E poi c’è l’ingegnosità, un termine che trovo entusiasmante, che definisce il “saper pensare” in modo nuovo sulla base delle proprie conoscenze, competenze e responsabilità.

Una lettura che apre la mente a chi è disposto al cambiamento, che ci trasforma in devianti positivi alla continua ricerca del meglio per il meglio e di conseguenza apporta beneficio a chi si relaziona con noi, a chi curiamo, assistiamo.

Concludo con i cinque consigli della postfazione, che non posso fare a meno di menzionare, tanto sono chiari, incisivi, determinanti:

1) Fate una domanda fuori copione: uscire ogni tanto (e quando la condizione lo permette) dal copione, dal proprio ruolo professionale, chiedendo magari al paziente qualcosa che va al di là della sua patologia può arricchire la cura e anche noi stessi. Il paziente non è solo la “sua malattia”.

2) Non lamentatevi: potrei scrivere anch’io un saggio sulle lamentele nei luoghi di lavoro ma non voglio  aggiungere altro altrimenti mi lamento.

3)Trovate qualcosa da contare: (questo non fa per me) dati, cifre e numeri a testimonianza della qualità della cura.

4) Scrivete qualcosa:(invita la lepre a correre) la scrittura «consente di ritornare su un problema e di riflettere».

E infine:

5) Cambiate: «le scelte di un medico sono necessariamente imperfette, ma cambiano la vita delle persone. Per questa ragione, a volte, sembra più prudente attenersi a prassi consolidate, a ciò che fanno tutti, limitarsi a essere una delle tante rotelle in camice bianco di una grossa macchina. Invece no, un medico non deve farlo, non dovrebbe farlo nessuno che si assuma rischi e responsabilità nella società».

E concludo davvero aggiungendo anch’io un piccolo consiglio, già compreso in parte nelle citate virtù: cerchiamo di usare sempre anche un pizzico di creatività, che non toglie ma aggiunge benessere e valore.

Con cura Diario di un medico deciso a fare meglio” di Atul Gawande  (2007 Einaudi)