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05 ottobre 2025

LA COMMEDIA UMANA di William Saroyan

 

«Pensavo che un ragazzo non dovrebbe piangere più, una volta cresciuto, mentre sembra quasi che sia proprio quello il momento di cominciare, perché è allora che apre gli occhi»

Un autore che non conoscevo e che mi ricorda molto John Fante – col suo alter ego Arturo Bandini –collocandosi tra i tanti scrittori americani figli di immigrati, in fuga da realtà belliche persecutorie, alla ricerca di un futuro migliore.

William Saroyan nato negli USA ma di origini armene, ripropone in tutta la sua opera letteraria la propria esperienza di figlio di immigrati, in un contesto diverso in cui riesce a inserirsi con coraggio, ostinazione e umiltà.

Una piacevole scoperta, che ci porta nell’America degli anni Quaranta, in un paese immaginario della California, Ithaca, dove la Seconda Guerra mondiale fa da sfondo morale e affettivo alle vicende quotidiane della famiglia Macauley, segnandone le paure, le perdite e le speranze.

Il protagonista, Homer Macauley, è un ragazzino di quattordici anni che lavora come messaggero telegrafista per portare a casa qualche soldo in più a sostegno della famiglia. Studia di giorno e lavora la sera, consegnando con straordinaria velocità, in sella alla sua bicicletta, i telegrammi alle famiglie del paese. Una figura straordinaria, che emerge per la sua intelligenza, dignità e onestà. Un piccolo grande uomo con una sensibilità unica, pieno di amore e coraggio. Un ragazzo già consapevole del male che affligge il mondo, dell’atrocità delle guerre, dell’odio e della competizione tra gli uomini. Una consapevolezza che lo rende propositivo e resiliente, capace di trasformare le avversità della vita in insegnamento e stimolo di crescita.

Al suo fianco si muovono altri personaggi significativi: Ulysses, il fratellino minore, con lo sguardo meravigliato sul mondo nonostante gli ostacoli (emblematica la scena della trappola nel negozio del signor Covington dalla quale viene liberato grazie al gigante Chris) deliziandoci per la sua innocenza e curiosità; la madre, donna forte e presente, amorevole e saggia, capace di ascoltare senza essere iperprotettiva; Bess, la sorella adolescente che studia al liceo e suona il pianoforte e Marcus, il fratello maggiore arruolato nell’esercito. Una famiglia senza il padre – morto in guerra – ma la cui presenza aleggia costantemente nel ricordo benevolo e nostalgico di ciascuno.

Indimenticabile anche l’anziana insegnante Hicks con i suoi precetti preziosi: «In uno stato democratico tutti sono uguali, ma è fondamentale che ciascuno si impegni per dare il meglio di sé, non importa come […] Che sia ricco o povero, brillante o impacciato, genio o semplicione, per me fa lo stesso, quel che conta è la sua umanità – che abbia un cuore – che ami la verità e l’onore – che rispetti i superiori ma anche le persone più deboli […] Voglio che i miei ragazzi siano persone originali, felicemente diverse».

Il signor Grogan col quale Homer instaura un rapporto d’amicizia e di reciproco aiuto nonostante la notevole differenza di età, gli fa dono di pillole di saggezza, anche con la mente offuscata dall’alcol: «Sii contento di te, sii riconoscente. Cerca di comprendere l’importanza di essere contenti di come si è. Sii contento, perché godrai della fiducia di persone del tutto sconosciute». Un messaggio che racchiude una lezione profonda: credere in se stessi e nella propria identità è una forza vincente e travolgente.

C’è poi Il signor Spangler, che assume il ragazzo comprendendone la necessità, nonostante non abbia ancora l’età e che si ferma spesso a parlare con lui, quasi a colmare la figura paterna mancante.

Tra i personaggi più teneri Lionel, Il miglior amico di Ulysses, evitato dagli altri ragazzi perché ritenuto “scemo” ma amato e reso unico dal piccolo.

Proprio per questo ricco mondo, dove ogni figura rappresenta un tassello importante della storia, definirei La commedia umana molto più di un romanzo di formazione, perché i personaggi che “crescono” sono molti, forgiati dalle prove della vita che ognuno affronta con forza, dignità e orgoglio.

Si avverte il taglio autobiografico – i genitori armeni fuggiti al genocidio, le origini umili, i lavori saltuari dell’autore (tra cui quello di telegrafista) – che rende la scrittura così realistica nella sua linearità e chiarezza.

La commedia umana è una storia di vita in un’ epoca segnata dalla guerra mondiale, scritta con uno stile semplice, caloroso e immediato, che arriva direttamente al cuore.

La scrittura di Saroyan parla di sentimenti, emozioni e valori autentici: la famiglia, il lavoro, la solidarietà, l’amicizia, l’empatia, il rispetto, il sacrificio, la compassione… e soprattutto la speranza.

E a proposito di speranza non posso non citare le parole della madre al figlio: «Nel mondo ci sarà sempre dolore. Questo non significa che si debba perdere la speranza. Un uomo vero si sforzerà di eliminare il dolore dal mondo. Un uomo meschino non lo vedrà nemmeno, tranne che in sé stesso. E un uomo malvagio, per sua disgrazia, porterà al mondo altro dolore, seminandolo dovunque andrà».

Questa aria di speranza è il sottile ottimismo che attraversa l’intero romanzo, come un avvertimento a non lasciarsi sopraffare dallo sconforto e dall’inerzia.

Un libro tremendamente realistico e attuale, delicato ma profondo, senza tempo.

Un romanzo che tutti – grandi e piccini – dovrebbero leggere: una grande scoperta per cui devo ringraziare ancora l’amica del gruppo di lettura che ce lo ha consigliato.

“La commedia umana” di William Saroyan ( ed Marcos y Marcos 2018)

13 settembre 2025

CASA DI BAMBOLA di Henrik Ibsen

 

Capolavoro del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, Casa di Bambola (1879) critica le ipocrisie della società borghese e denuncia i ruoli imposti a uomini e donne nell’epoca vittoriana.

Nora, moglie di Torvald Helmer, avvocato da poco nominato Direttore di un’ importante banca, rappresenta l’ ideale di moglie devota e di madre premurosa. Sotto  l’apparente idillio domestico, custodisce però un segreto, destinato a sconvolgere ogni equilibrio famigliare. La rivelazione  la porterà a compiere una scelta radicale, che la trasformerà da persona frivola a donna consapevole e determinata.

Figura sorprendentemente moderna, Nora incarna il simbolo dell’emancipazione femminile e anticipa il pensiero femminista. La forza del testo risiede proprio nella sua attualità, dove sotto la leggerezza della storia si nasconde una critica tagliente che interroga il lettore sul valore della libertà e dignità umana.

Casa di bambola” di Henrik Ibsen (Einaudi 1963)

01 maggio 2024

LE RAGAZZE DI SANFREDIANO di Vasco Pratolini

 

Leggere “Le ragazze di Sanfrediano” più che una lettura, è un’esperienza virtuale nel quartiere di Sanfrediano nel dopoguerra, in una nazione appena liberata dal fascismo, animata e sostenuta dagli ideali partigiani, di libertà, democrazia e giustizia sociale. San Frediano è il rione Diladdarno, dove la vita scorre frenetica nelle strade e nei vicoli, nelle botteghe artigiane, sulla soglie delle case, tra schiamazzi di ragazzini e massaie che dialogano dalle finestre spalancate delle abitazioni, tra il frastuono delle motociclette e i rintocchi  delle campane del Cestello che scandiscono le ore.

Bob, il cui vero nome è Aldo Sernesi, ma che si fa chiamare Bob per la somiglianza con il divo Robert Taylor, fa strage di cuori nel quartiere «che è tutta la sua vita, una riserva di caccia tutta sua particolare». Le ragazze - Gina, Bice, Mafalda, Silvana, Tosca e Loretta - gli corrono dietro come api al miele, e lui, intreccia una relazione con ciascuna di loro, «perché le ragazze rappresentano il suo vero sport, la sua arte, e la sua religione» pronto però a dimenticarsene non appena la ragazza in questione esce dal suo campo visivo. Bob sembra sincero quando dichiara il suo amore, sente di amarle tutte e nessuna, ma non sa decidersi a scegliere «poiché Bob, ormai, si riteneva dotato di un’immensa riserva di affetto che una sola donna sarebbe stata incapace di accettare e esaurire».

Ma le ragazze di Sanfrediano non si lasciano incantare, sono donne determinate e orgogliose, «non prendono i rifiuti di nessuno», ognuna col proprio carattere e peculiarità, con l’impronta genetica della resistenza proverbiale del rione saprà, unita con le altre per giusta causa, dare la meritata lezione al presuntuoso damerino.

Ecco allora interi capitoli dedicati a ciascuna di loro: Tosca «una creatura che la vita dovrà ingegnarsi per riuscire ad umiliarla, e forse non ci riuscirà»; Gina snella, piacente [… ]con quella gentilezza di modi che se non era più innocenza, era tuttora il suo carattere e la sua virtù»; Mafalda la rossa, «dal corpo solido e plebeo» risoluta e intraprendente; Bice «quieta, credula, ottimista, incapace di sentimento assaltante come di un affetto eroico e di un sacrificio meditato, squisitamente femminile, limitata e paziente»; Silvana «manidifata» la contesa; Loretta ultima arrivata, che nonostante il recente innamoramento, non si tira indietro per seguire le altre.

Protagonista in questo romanzo, come già altri hanno individuato, non è soltanto Bob intorno al quale si tesse la trama, ma le tutte donne e soprattutto il quartiere.

Un messaggio di solidarietà femminile che emerge a risoluzione di questa scrittura fortemente scenica (dal quale è stato tratto il film di Valerio Zurlini che per l’occasione mi sono rivista) e che si afferma in modo rudimentale e grezzo, a dimostrare l’emancipazione femminile e la  parità dei diritti di genere. Ma non solo aggiungerei, soprattutto il diritto al rispetto e alla dignità della persona.

Una prosa popolare, dai termini e detti “fiorentini”, testimonianze di tradizione e costume, che hanno risuonato in me (…non m’è rimasto attaccato neanche un’ugna, mi gingillo, …ha corso la cavallina, …è tanto che mi struggo,… un pirulino, …una sugna,… una mezzasega, …togliere l’olio dai fiaschi) e che colorano e arricchiscono il testo, lo animano, rendendolo vero e appetibile.

Un libro meno impegnativo rispetto ad altre sue opere, ma che ogni fiorentino (e non solo) dovrebbe conoscere, per apprezzare e ritrovare i sapori, odori, suoni di un tempo nemmeno tanto lontano che ha fatto la nostra Storia.

«Le ragazze di Sanfrediano» di Vasco Pratolini (ed. Bur Rizzoli 2011)


29 gennaio 2024

ESSERE MORTALE Come scegliere la propria vita fino in fondo di Atul Gawande

 

«Per gli esseri umani la vita ha un senso perché è una storia […] E nelle storie il finale conta».

La vita di un essere umano è la biografia della grande biblioteca dell’Umanità, ognuno ha la sua storia, dettata dalle proprie origini, dalle vicende che l’hanno determinata sulla base delle proprie  scelte (o non scelte) desideri, volontà… e ogni capitolo ha il suo valore, non per ultimo quello del fine vita, momento conclusivo e proprio per questo, di straordinaria importanza. Perché sminuirlo e non considerarlo in tutta la sua valenza e rilevanza?

Atul Gawande, medico chirurgo statunitense, ci porta a riflettere su questo momento fondamentale della vita, che dobbiamo rendere interessante e significativo (per chi se ne va ma anche per chi resta) e non demonizzarlo come invece accade.

Molte le tematiche affrontate che provo a riassumere nei capitoli dedicati.

Indipendenza. Indipendenza è una parola che spesso troviamo contrapposta al problema della “vecchiaia”, fase della vita di un individuo in cui si assiste a un decadimento fisico e cognitivo più o meno lento. Lo sviluppo tecnologico, scientifico, informatico e medico ha determinato un progresso tale da portare la popolazione a vivere più a lungo, a invecchiare, condizione che non sussisteva nei secoli passati quando l’età media era intorno ai cinquant’anni. Ovviamente con l’aumento dell’età sono aumentate le patologie croniche che la medicina controlla con la terapie, ma che possono creare disabilità e disagi tali da minare spesso l’indipendenza delle persone. Questa è la grande piaga del nostro secolo, la cura e l’assistenza di un’ ampia fascia di popolazione che non è più autosufficiente e ha bisogno di assistenza e cura continua spesso da parte di personale competente. Con la scomparsa della famiglia patriarcale, l’anziano è diventato sempre più una questione sociale, di indirizzo medico assistenziale e sempre meno familiare. I figli stessi sono già in età avanzata nel gestire il proprio genitore, non vivono con lui, e quando questi perde la propria autonomia, il problema emerge improvviso e devastante. Oggi le soluzioni (almeno nella nostra realtà italo-europee) sono le badanti o istituzioni quali RSA, case di riposo, istituti che permettono la gestione quotidiana di una persona non più autosufficiente da parte di personale qualificato. 

Tutto si disfa. Atul Gawande ci mostra la vita di un individuo come una traiettoria sulla linea delle ascisse, che la medicina e la sanità pubblica contemporanea hanno cambiato radicalmente, come dicevo innanzi. Nei traumi, malattie a esito infausto (come un infarto cardiaco, emorragia cerebrale massiva,ecc…) la traiettoria ha un andamento costante e soddisfacente per qualità della vita fino all’improvvisa caduta determinata dalla morte. Grazie alla Medicina e Chirurgia, la traiettoria può essere modulata variando così a seconda delle patologie. Nelle malattie tumorali l’andamento è costante e soddisfacente fino a un declino più o meno lento nella fase finale della vita. Nella malattie croniche invece si assiste a un andamento costantemente in discesa con cadute improvvise (crisi e scompensi ) subito gestiti dalla medicina che riportano la persona a un livello sempre inferiore rispetto a quello prima dell’evento scatenante. Nell’invecchiamento fisiologico invece la traiettoria è una linea che scende in maniera graduale verso il basso, fino all’esito finale. L’autore ci fa notare che vivere così a lungo come viviamo oggi rappresenta un fenomeno assai innaturale, in quanto la morte di vecchiaia in passato era cosa rara. Perché si invecchia allora? Sembra che la genetica sia solo un frammento nella spiegazione del quesito. Sembriamo progettati per funzionare a tutti i costi, e ce lo dimostra il fatto che abbiamo due occhi, due reni, due orecchie, due braccia… nel caso uno dei due venga a mancare. Illuminante questa considerazione pur così semplice, nel giustificare il dualismo del nostro corpo.

Ci sono alcune specializzazioni più attraenti per la carriera di un medico (la chirurgia plastica, la radiologia, per es…) rispetto ad altre come la geriatria (e io aggiungo le cure palliative) che deprivano di una qualità importante della professione ovvero la possibilità di garantire la speranza di vita a lungo termine. Molti medici lavorano poco volentieri con gli anziani. Ovvio, mi viene da pensare, non è un settore della medicina che dà soddisfazione e speranza, dal momento che dovremmo affrontare problemi sconvenienti come l’accettazione dell’ inevitabile declino del corpo e quello del fine vita, perché come asserisce A.G «il sogno di tutti è vincere il tempo, l’ingrato compito del geriatra è farci accettare che non ne siamo capaci».

Il problema fondamentale nella presa in carico dell’anziano è che non si può prendere in considerazione solo ed esclusivamente le patologie croniche (l’insufficienza renale, cardiaca, respiratori il diabete, ecc…) ma tutta la persona nella sua interezza e globalità, in una visione individuale  e soggettiva (ciò che è bene per quella persona), familiare e sociale. I medici non geriatri spesso non riescono a fare questa considerazione, forse per cultura, per mancanza di strumenti e di risorse, per abitudine… indirizzandosi più sulla cura del sintomo e cercando la soluzione per quello. E da qui nascono tutti i problemi.

Dipendenza. Non è la morte che le persone molte anziane mi dicono di temere. È quel che la precede: perdere l’udito, la memoria, gli amici più cari, le  abitudini di vita».

Negli Stati Uniti negli anni Cinquanta le case di carità per l’assistenza agli anziani indigenti e malati chiusero determinando un grosso problema sanitario e sociale. Ovviamente il tutto non poteva risolversi da parte dell’ospedale, luogo destinato alla cura di eventi acuti e non alla gestione delle patologie croniche. Cominciò così a delinearsi, una nuova concezione di luogo di assistenza per la persona anziana con patologie croniche: la moderna casa di riposo, nursing home nata più dalla necessità di liberare posti letto dall’ospedale che per risolvere i problemi legati alla terza età. Le nursing homes fiorirono come alberi in primavera arrivando a un numero di tredicimila nel 1970 - documenta l’autore - col supporto anche di Medicaid, il sistema di previdenza sociale americano. L’evoluzione c’è stata anche sulla base di iniziative private che hanno cercato di ricreare case comunitarie in cui l’anziano potesse giovarsi dell’assistenza necessaria e al contempo vivere la parte conclusiva della propria vita sentendosi a casa propria.

Il problema di un luogo di cura e assistenza nella terza età non riguarda solo la realtà statunitense, ma anche la nostra. Le case di riposo purtroppo rimangono spesso istituzioni non centrate sulla persona ma su problematiche di carattere sociale, gestionale, pratico, l’alternativa quando non ci sono altre soluzioni.

Assistenza. Cos’è la vecchiaia? Una serie di definizioni interessanti ce le fornisce l’autore avvalendosi di alcune teorie «Secondo alcuni è un mutamento che riflette la saggezza acquisita con una lunga esperienza di vita. Altri ritengono che si tratti del risultato cognitivo di cambiamenti dei tessuti cerebrali legati all’età. Altri ancora sostengono che il cambiamento di comportamento sia imposto agli anziani e non rifletta ciò che nel profondo del cuore essi vogliono veramente. I vecchi restringono le loro mire perché le limitazioni imposte dal declino fisico e cognitivo non consentono loro di perseguire gli obiettivi di un tempo, oppure perché il mondo glielo impedisce per l’unica ragione che sono vecchi. A quel punto invece di lottare si adattano, o per dirla in modo più triste si arrendono». E l’arrendevolezza aggiungo io coincide purtroppo con la perdita dell’autosufficienza nel paziente fragile (oppure è questa che la determina) , che non può più farsi le proprie ragioni perché dipende da qualcun altro. E questa è la tomba della persona, alienata nei propri desideri. Ma quali sono i desideri dell’anziano fragile? È una domanda che dobbiamo sempre porci. Studi dimostrano che le persone che risiedono nelle RSA come desiderio primario esprimono la condizione di sentirsi a casa. Perché come dice A.G «La casa è l’unico posto dove le proprie priorità regnano sovrane. A casa tua, decidi tu come spendere il tuo tempo, come ripartire il tuo spazio, come gestire i tuoi beni personali». Mentre purtroppo le case di assistenza non mettono al centro i bisogni e i desideri della persona (alzarsi alla propria ora, mangiare quando si ha fame, guardare alla tv ciò che si preferisce, circondarsi di persone significative …) in quanto tutto ruota attorno a una organizzazione standard che possa nella maniera più redditizia ottimizzare l’assistenza, garantire sicurezza e soddisfazione dei bisogni primari appunto.

Interessante la carrellata di esperienze innovative di case comunità che l’autore ci racconta, con l’obiettivo di realizzare proprio questa possibilità. Esperienze che hanno più o meno funzionato, anche se «non esistono metodi validi per valutare il successo di una struttura residenziale nell’aiutare i residenti a vivere. Mentre in materia di salute e sicurezza, invece, disponiamo di criteri molto precisi».E aggiunge in battuta finale: «è cosi che vanno le cose […] i nostri vecchi non si ritrovano che con questo: un’esistenza istituzionale, sotto controllo e sotto tutela, una risposta medica a problemi medicalmente irrisolvibili, una vita pensata per essere sicura, ma priva di interesse».

Una vita migliore. Riportandoci l’esperienza di Bill Thomas, medico e direttore di una casa di riposo, riferisce quelle che «chiamava le “tre piaghe” della vita in casa di riposo: la noia, la solitudine, l’impotenza». Perciò introdusse cani, gatti, uccellini, un giardino con piante di cui i residenti potessero prendersi cura, offrendo loro una ragione di vita.

Quale dovrebbe essere l’ obiettivo delle residenze sanitarie assistite, delle case per anziani, di riposo o comunque le vogliamo chiamare? Aiutare le persone autosufficienti e non autosufficienti, nella soddisfazione dei bisogni primari, preservando dignità e valore della vita. Cosa occorre? Luoghi ridimensionati, più intimi, dove esista la privacy, pur garantendo protezione e sicurezza. Non mancano nella narrazione molti esempi di esperienze americane in cui sono stati raggiunti risultati simili: l’autonomia, la sicurezza nel rispetto della propria libertà di azione, la dignità, l’orgoglio di vivere in coerenza con le proprie ideologie. Perché è questo che l’anziano vuole, e che vorremo anche noi quando lo saremo, «continuare a scrivere la nostra storia […] mantenere la libertà di plasmare la nostra vita in modo coerente con la nostra personalità e con ciò in cui crediamo».

«La lotta dell’essere mortale è la lotta per mantenere l’integrità della propria vita: è la battaglia per evitare di finire così degradati, prostrati, o sottomessi da non aver più un legame con ciò che siamo stati o con ciò che vogliamo essere».

Lasciare andare. «Dobbiamo porre un freno agli imperativi di tipo prettamente medico e resistere al nostro bisogno di armeggiare, riparare, controllare». Una frase forte che in poche parole dice tutto. Non è facile in una cultura in cui dobbiamo sempre vincere, fare i conti con la morte che rappresenta la sconfitta. Ecco perché è più facile agire, accanirsi, che lasciare andare e far sì che la vita segua il corso naturale degli eventi. Siamo impreparati, ignoranti, non conosciamo le modalità di accompagnamento alla morte. In passato esistevano manuali popolari, come la versione medievale sull’ “ars moriendi” pubblicato in latino dove «la gente credeva che la morte dovesse essere affrontata stoicamente, senza paura né autocommiserazione, e senza altra speranza se non quella riposta nella misericordia di Dio». Oggi esiste «L’hospice, che ha tentato di proporre un nuovo ideale di modo di morire. Non tutti hanno accettato i suoi rituali, ma coloro che lo hanno fatto stanno contribuendo alla composizione negoziata di un’“ars moriendi” della nostra era. In questo negoziato, tuttavia, trova anche espressione una battaglia: non solo contro la sofferenza ma anche contro lo slancio apparentemente inarrestabile del trattamento medico». La scelta dell’hospice non accelera il processo del morire, anzi, come dimostrano alcuni studi «Si vive più a lungo solo quando si smette di cercare di vivere più a lungo».

È più difficile parlare chiaramente al paziente della prognosi infausta, dirgli la verità. Non siamo preparati culturalmente e spesso non lo è neppure lui. È più facile continuare a infondere speranza, a illuderlo con la possibilità di nuove terapie. «I medici appaiono particolarmente attenti a non frustrare le aspettative dei malati. Hanno molta più paura di peccare per pessimismo che per ottimismo». Per questo è fondamentale la Pianificazione delle cure in cui insieme alla persona, il medico, l’equipe, comincia un percorso di cura che non sarà finalizzato alla guarigione, alla cura del sintomo della malattia (cure attive), ma all’alleggerimento della sofferenza creata dalla malattia (cure palliative), ai fini di una migliore qualità di vita della persona stessa e dei familiari. Un processo che richiede tempo e che si avvale della comunicazione come strumento base, per ascoltare, fornire indicazioni e conoscenze, accogliere e stabilire insieme alla persona e ai familiari il piano di cura.

«Le persone gravemente ammalate hanno altre preoccupazioni oltre al semplice prolungamento della loro vita […] vogliono evitare di soffrire, stare a più stretto contatto con familiari e amici, mantenere la lucidità mentale, non essere di peso agli altri e riuscire a dare un senso di completezza alla propria esistenza. Il nostro sistema di assistenza sanitaria tecnologica si è dimostrato clamorosamente incapace di soddisfare queste esigenze». La tecnologia purtroppo può andare avanti nel mantenere vitali gli organi, superando la soglia della volontà e dignità della persona e questo è ciò che dobbiamo assolutamente non permettere.

Conversazioni difficili. Le conversazioni difficili sono quelle che scavano dentro l’intimità della persona, sono quelle che portano a scelte sensate, a prese di coscienza e decisione, sono le conversazioni che permettono alla persona di ricevere le giuste informazioni sulla propria condizione di salute, di metabolizzarla con l’aiuto dell’interlocutore, nel rispetto della propria libertà e dignità.

Siamo passati dalla relazione “paternalistica” del passato (in cui il medico sapeva cosa era bene per il paziente e decideva) a una relazione di tipo “informativo” in cui al paziente vengono forniti dati e cifre (il medico è il tecnico esperto, il paziente il cliente e sta a lui la decisione). Ezekile e Linda Emanuel, due studiosi di etica, hanno ravvisato «un terzo tipo di relazione che hanno definito “Interpretativa” in cui il ruolo del dottore è aiutare i pazienti a stabilire ciò che vogliono […] Gli esperti l’hanno chiamato processo decisionale condiviso».

Atul Gawande spiega l’efficacia di questo terzo tipo di relazione raccontandoci l’esperienza personale con il fine vita del padre, affetto da una forma tumorale cervicale.

La vita ci impone spesso cambiamenti repentini che dobbiamo fare propri, ridefinendo noi stessi, ovvero riadattandoci, creando nuove identità al fine di ricollocarsi nella vita con uno scopo, una ragione. «È questo che si intende per avere autonomia: può succedere di non poter controllare le circostanze della vita, ma riuscire a essere l’autore della propria vita significa poter controllare quel che si fa con le circostanze che ci vengono date».

Le conversazioni difficili sono quelle che scoprono la pentola con dentro i fantasmi, le pene, le angosce più intime, quelle legate alla malattia infausta e alle conseguenze terribili che portano dolore e atroci sofferenze. Rendere possibile, creare l’opportunità di una conversazione difficile può anche allungare la vita oltre a renderla migliore.

Coraggio.  «Il coraggio è la forza di fronte alla conoscenza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare». Il coraggio durante la malattia o la vecchiaia è voler sapere la verità su ciò che si teme o si spera, e il coraggio di affrontare la realtà della mortalità. Ma, dice Atul Gawande «la vera sfida è decidere se a dover prevalere sono le proprie paure o le proprie speranze».

 Studi sul dolore dimostrano che è il picco-fine del dolore e non la durata del dolore a esprimere l’intensità di sofferenza data dalla memoria. «Per gli esseri umani la vita ha un senso perché è una storia. Una storia ha un senso d’insieme, e la sua traiettoria è determinata da momenti significativi, che sono quelli in cui succede qualcosa […] questo funzionamento è profondamente influenzato da come le cose vanno a finire […] e nelle storie il finale conta»

Il coraggio potrebbe essere l’equilibrio tra il controllo e l’impotenza.

«La vita assistita è molto più difficile della morte assistita, ma ha anche potenzialità straordinariamente più grandi».

E concludo con questa bellissima frase:

«La società tecnologica ha dimenticato quello che gli studiosi chiamano il ruolo del morente” e quanta importanza esso abbia per le persone che vedono approssimarsi al fine. Le persone vogliono condividere i ricordi, trasmettere saggezze e oggetti personali, definire le relazioni, fare pace con Dio e assicurarsi che chi resta non abbia problemi. Vogliono concludere la loro storia a modo loro. e se questo è vero, il modo in cui, per ottusità e incuria, stiamo negando alle persone la possibilità di ricoprirlo, dovrebbe essere per noi motivo di eterna vergogna».

E infine:

«Essere mortale significa anche sforzarsi di sopportare i vincoli della nostra biologia, ovvero i limiti imposti da geni, cellule, carne e ossa».

“ESSERE MORTALE-Come scegliere la propria vita fino in fondo” di Atul Gawande (Einaudi 2014)