«Perché la vita non è
un conto o una figura matematica, ma un prodigio»
Già in questa frase così incisiva, si può ben intuire il valore de “La cura” di Hermann Hesse, scritta nel 1925, successiva di pochi anni a “Siddartha”, in cui l’autore esplora, sebbene in maniera assai diversa, le tematiche a lui care.
“La cura”, romanzo breve ma di un’intensità straordinaria, può considerarsi anche una sorta di diario - appunti di un soggiorno presso Baden in una lussuosa stazione termale, che lo scrittore cinquantenne si concesse per le cure di una sciatalgia - per la scrittura intima, riflessiva, introspettiva, che come un flusso di coscienza si sviluppa e si mantiene costante in tutta la narrazione, con un sottotesto che ci rivela l’intento dell’autore, di non lasciare il manoscritto chiuso in un cassetto, ma destinarlo a un lettore, ai suoi lettori, per la chiarezza nell’esporre, spiegare, analizzare i pensieri che sgorgano impetuosi dalla sua mente vivace e curiosa.
Un percorso di cura, volto al benessere del corpo, della mente e
dello spirito, occasione per riflettere e approfondire attraverso gli aspetti del
quotidiano, il suo “sentire”, i moti dell’ anima irrequieta e smaniosa, alla
ricerca continua delle verità. Hermann Hesse è un chirurgo del corpo e
dell’anima, seziona, sviscera, esamina ogni sentimento ed emozione per capire e
per capirsi. Ecco allora le analisi accurate sulla sua apatia mattutina, sull’insonnia
con la quale convive da anni, sulla sua indole solitaria, sulla trappola del
piacere scaturito dal cibo e dal gioco, sulle asserzioni del cinematografo e
della musica frivola, sul consumismo imperante che schiavizza l’umanità
inventandosi futili necessità … su una foglia secca entrata al volo dalla
finestra «di cui respiro lo straordinario
memento della caducità, che ci fa rabbrividire ma senza il quale non ci sarebbe
nulla di bello».
E qui si riallaccia la sua visione
dualistica dell’uomo stesso, il suo essere buono e cattivo, virtuoso e
vizioso, ordinato e caotico, assennato e folle,… nel continuo oscillare tra
materialismo e idealismo, perché non può esistere niente di assoluto e
perfetto, «che un uomo, per tutta la
vita, possa venerare sempre lo spirito disprezzare sempre la natura, essere
sempre rivoluzionario e mai conservatore o viceversa, mi sembra, sì, una gran
prova di virtù, di carattere e di fermezza, ma mi sembra anche, e non meno, una
cosa esiziale, folle e ripugnante, come se uno volesse sempre solo mangiare o
dormire».
Un dualismo che non può esistere ed esprimersi senza la coscienza
dell’ unità, come riconciliazione,
ritorno, redenzione: «Noi non possiamo
credere alla fine nel senso di distruzione ma solo nel senso di metamorfosi […]Nessun’altra
idea mi è più sacra di quella dell’unità, l’idea che l’intero cosmo è una
divina unità e che tutto il dolore, tutto il male consistono solo nel fatto che
noi, singoli, non ci sentiamo più come parti inscindibili del Tutto, che l’io
dà troppo importanza a se stesso».
Hesse indirizza il suo“occhio cosmico” alla ricerca di
quell’unicità che nasce dalla molteplicità della realtà, «sotto il cui sguardo non c’è più nulla di piccolo, di sciocco, di
brutto, di malvagio, ma tutto è santo e venerabile». E questa realtà non è
altro che la Natura stessa, che ci salva dall’artificio e dall’illusione. Niente
di più vicino anche al mio sentire.
L’ovvio diviene straordinario, in un continuo dialogo con se stesso, sulla nostra ineluttabile transitorietà: «È meraviglioso come la bellezza e la morte, il piacere e la caducità si esigano e si condizionino a vicenda!».
Anche il dolore, questa esperienza invisibile, multifattoriale, non quantificabile, quasi impossibile da descrivere, da dimostrare, acquista per lui un valore diverso se contrapposto al piacere, e che sembra addirittura alleggerirsi se condiviso con gli altri.
La cura è perciò non solo finalizzata al miglioramento fisico e
mentale, ma soprattutto alla consapevolezza che la malattia deve avere un posto
marginale nella vita di una persona.
«Il paziente Hesse, grazie a
Dio, è morto e non ci riguarda più. Al suo posto c’è di nuovo un Hesse del
tutto diverso: anche questo con la sciatica, ma ora la possiede anziché esserne
posseduto».
La malattia non si combatte ma la si vive, facendosela compagna di
viaggio e non protagonista assoluta di vita. «Io abbandono la malattia a se stessa, non sono mica al mondo per farle
la corte tutto il santo giorno».
Perseguire la salute totale quando gli anni avanzano e gli
acciacchi si sommano è un utopia, e Hesse lo dice chiaramente «Preferiamo soltanto guarire a metà, ma
vivere in cambio in modo un po’ più piacevole e divertente, noi non siamo
giovinetti che pretendono l’assoluto da se stessi e dagli altri, ma persone
anziane, profondamente implicate nei condizionamenti dell’esistenza e perciò
abituate a lasciare un po’ correre. No, non vogliamo essere perfettamente
guariti, non vogliamo vivere in eterno» Un pensiero sorprendentemente
attuale, considerando che è datato un secolo.
Una lettura che continua a risuonare anche a libro chiuso, che
vede il segreto di tutta la felicità racchiuso nell’ equilibrio dell’amore « possibilità di amare senza restare in
debito ora in questo, ora in quello, un amore di se stessi che non ruba niente
a nessuno, un amore per gli altri che però non diminuisce né violenta il nostro
io!».
Un libro pieno di pillole di saggezza - che non ho potuto fare a
meno di citarle di nuovo e commentarle, perdonatemi - un’ottima “cura” per
coloro che hanno voglia di interrogarsi e di riflettere su ciò che veramente
conta.