Dopo La vegetariana,
sapevo che sarei andata incontro a una lettura non facile, ma non avrei mai
immaginato di ritrovarmi un testo così articolato, da leggere un po’ alla
volta, a piccoli sorsi come una bevanda troppo calda che rischia di bruciarti
la gola. Sì, perché ho trovato L’ora di
greco un libro assai complesso, almeno nella struttura anche se si deve
forse a questa peculiarità parte del merito e della bellezza.
A differenza del libro precedente (dal quale non posso separarmi)
che aveva una forma più definita e chiara – perché diviso in tre parti, di cui
ciascuna descriveva il punto di vista di un personaggio – qui la struttura invece
appare stravolta, perché l’autrice sembra avanzare più per sensazioni che per
logica, creando un puzzle di immagini, suoni, profumi, odori e sensazioni
tattili legate alle vicende, che il lettore stesso deve essere abile a
ricomporre, per seguire la trama delle storie in una Seoul indistinta.
Lo stile è caratteristico e audace. L’autrice si destreggia
con maestria passando velocemente dalla terza alla prima persona, per infine
inserire anche la seconda persona (nei monologhi del professore con l’amico
Joachim Gründel
e con la sorella Ran) mantenendo però sempre fermi i punti di vista dei
protagonisti.
Due sono i personaggi principali, semplicemente la “donna”e l’“uomo”,
due esseri umani senza l’ importanza del nome – nonostante la loro forte
individualità – due esistenze simili che incrociano i loro destini segnati dalle
loro specifiche mancanze: la vista per lui, la parola per lei.
E nell’ aula – dove lui, il professore, insegna greco mentre
lei segue le sue lezioni – tra le strade di Seoul, nell’appartamento senza luce
e vuoto di lei, si muovono le loro storie, frammentate dai ricordi di un
passato, ora dell’uno ora dell’altra, che ricompongono lentamente il quadro
complesso delle loro esistenze.
Ognuno di loro porta con sé il peso del proprio dramma, che
la scrittrice sa svelarci con maestria, riproponendo quelli che sono i temi a
lei più cari: la famiglia – i
rapporti fraterni, coniugali, filiali – l’amore,
la solitudine e l’impossibilità di
entrare in relazione con l’altro, la diversità
o meglio l’unicità, la malattia, la
fragilità…
Nei personaggi di Han Kang è profondamente radicato “il male di esistere”, come un sintomo che
necessita di una cura da ricercare per essere gestito e placato; oppure si va
oltre, dove c’è una completa separazione tra il corpo e lo spirito, fino al
paradosso di una completa fusione senza più un confine: «A volte, più che una persona, ha l’impressione di essere una sostanza
di qualche tipo, un solido o un liquido in movimento. Se sta mangiando del riso
caldo, le sembra di essere riso caldo. Se si sta lavando la faccia con acqua
fredda, le sembra di essere acqua fredda. Allo stesso tempo, sa benissimo di
non essere né riso, né acqua, bensì una materia resistente, spietata, che si
rifiuta di mescolarsi con qualunque altra forma di esistenza».
Han Kang sa regalare al lettore (se la sa cogliere) una
chiave di lettura nuova, spalancando la porta su un mondo dove le angosce, le
paure, le sofferenze diventano immagini, suoni, profumi, trasformando
l’emozione in materia e la materia stessa in emozione. Una prosa che in molti
tratti si fa poesia.
A testimonianza può bastare questo passaggio nella
caratterizzazione della “donna”: «Da
quando ha perso l’uso della parola, a volte ha l’impressione che le sue
inspirazioni ed espirazioni siano un po’ come il linguaggio. Intaccano il
silenzio con altrettanta audacia della voce». Oppure nel parlare del suo
mutismo: «Non era un problema di corde
vocali o di capacità polmonare. Semplicemente non le piaceva appropriarsi dello
spazio» dove si legge tutta la sua ostinazione a non volersi relazionare
col mondo; e ancora «Ognuno occupa un
certo spazio fisico che corrisponde esattamente al volume del proprio corpo, ma
la voce si propaga molto oltre. Lei non voleva espandere la propria presenza».
Interessante la fusione dei sensi, lo sguardo che si sostituisce
alla parola e nel caso dell’uomo, la parola che si sostituisce là dove gli
occhi non possono più comunicare. E sarà proprio questa combinazione a creare lo
spiraglio di luce nel dramma delle loro vite, una possibile riconciliazione col
mondo. Un poetico lieto fine (che nel precedente libro mancava) che apre il
cuore alla speranza.
“L’ora di greco di Han Kang” ( Adelphi 2023)