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18 aprile 2024

OSCAR E LA DAMA IN ROSA di Eric - Emmanuel Schmitt

 

«La vita è uno strano regalo»

Perché è tanto difficile relazionarsi in maniera empatica con un bambino di soli dieci anni, affetto da una forma di leucemia che non risponde alle terapie, e che a breve lascerà il suo posto letto a un altro piccolo paziente con la speranza di una diagnosi migliore? È per il fatto, forse, che troviamo innaturale, ingiusta e violenta una tale condanna sulla testa di un innocente? È davvero così impossibile parlare e rispondere con sincerità a domande che desiderano risposte autentiche, anche se dolorose, dettate da un’incredibile e straordinaria autoconsapevolezza?

Per Nonna Rosa non lo è, anzi, le viene proprio spontaneo affrontare il problema di petto, come faceva un tempo, quando era una lottatrice di catch ed era soprannominata la Strangolatrice del Languedoc. È per questo che Oscar la preferisce agli altri adulti (medici, infermieri e gli stessi genitori) che lo fanno sentire inadeguato, frustrato e deluso per non rispondere bene alla terapia, per non riuscire a guarire nonostante i loro sforzi e tentativi. Eppure «La malattia è come la morte. È un fatto. Non è una punizione».

Gli adulti eludono le sue domande, non sorridono, non giocano, fingono, sempre nascosti dal velo della serietà, che gli restituisce solo pena e tristezza.

«Ma perché non mi dicono semplicemente che morirò?» si chiede Oscar. È davvero incredibile la lucidità di questo  ragazzino, che come un adulto sa porsi grandi domande e darsi anche grandi risposte: «Se dici morire in un ospedale, nessuno sente. Puoi star sicuro che ci sarà un vuoto d’aria e che si parlerà d’altro».

Sì, non è facile parlare della propria morte con una persona adulta, figuriamoci con un bambino! Ma se sappiamo metterci a fianco della persona e la si sa ascoltare, ecco che avviene il prodigio ed escono fuori immense verità.

Oscar è intelligente, sente che la morte gli è vicina. Disprezza le persone che lo allontanano dai suoi pensieri, che gli negano una realtà evidente e ineluttabile. Il fatto di essere in ospedale con una malattia incurabile ne è la conferma: «Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire» e la frase di Nonna Rosa pur nella sua durezza, lo sostiene: «Dimentichiamo che la vita è fragile, friabile, effimera. Facciamo tutti finta di essere immortali».

Ma la dama in rosa non si limita solo a sostenerlo nella triste scoperta di verità infauste, gli fa dono di una strategia che gli permette di continuare a vivere con gioia, curiosità e sorpresa. Gli propone un gioco: «A partire da oggi, osserverai ogni giorno come se ciascuno contasse per dieci anni» in modo che Oscar possa vivere ogni fase della vita, le turbolenze e le gelosie dell’adolescenza, l’innamoramento, il matrimonio, la maturità, l’abbandono e la vecchiaia, concentrando il suo tempo, dandogli valore non in termine quantitativo ma di qualità.

Nel fine vita, la spiritualità, che può coniugarsi nella fede, religione o semplicemente nella speranza, assume un posto di rilievo assoluto. Per questo Nonna Rosa esorta Oscar a tenere un diario, o meglio a scrivere lettere a Dio «per sentirti meno solo». 

«Bisogna distinguere due pene, Oscar, la sofferenza fisica e la sofferenza morale. La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si sceglie» è così che gli apre le porte a quella visione spirituale in cui sottolinea in maniera metaforica l’importanza della scelta: «All’idea di morire, non sei obbligato ad avere male. Non sai che cos’è. Dipende dunque da te». Parole così semplici che anche un bambino può capire ma tanto difficili per la maggior parte delle persone che non vogliono capire e affrontare l’argomento del fine vita.

Ma cosa è che ci fa più paura? L’ignoto o la perdita delle persone che amiamo?

Ci risponde proprio Oscar prima di compiere “i suoi cento anni”: «Bisogna sempre conservare la speranza».

E visto che morire è inevitabile per tutti, qual è il miglior modo per accettarlo? Ancora una volta è sempre lui a illuminarci.

«Quello che penso io , Nonna Rosa, è che l’unica soluzione per la vita sia vivere» o come invece Dio ci rivela in segreto: «Ogni giorno guarda il mondo come se fosse la prima volta».

Un piccolo libro con grandi verità, toccante, coinvolgente, commovente (lo ammetto, alla battuta finale ho avuto un groppo in gola e le lacrime), un modo semplice e diretto per parlare di un tema tabù, che evitiamo, esorcizziamo per allontanarlo dalla nostra vita, mentre come ci insegna Oscar, sarebbe proprio l’inclusione e la consapevolezza della propria morte a renderci più vivi, aperti e curiosi alla vita. 

“Oscar e la dama in rosa” di Eric-  Emmanuel Schmitt ( ed. Bur 2005)


21 marzo 2024

Di cosa è fatta la speranza di Emmanuel Exitu

 

Chi era Cecily Saunders donna poliedrica, risoluta, tenace, «altissima, quasi un metro e novanta» che sulle orme di Florence Nightingale contribuì a un cambiamento radicale nella storia dell’ assistenza e della cura?

Ce lo spiega molto bene l’autore, regista e sceneggiatore nel libro “Di cosa è fatta la speranza”, che ispirandosi alla vita di Cecily Saunders (1918 Barnet -2005 Londra), fondatrice delle cure palliative e dell’assistenza del fine vita, ci narra la sua straordinaria storia in forma romanzata. Il romanzo molto accurato nei dettagli, rappresenta un prezioso scrigno di pensieri, osservazioni, principi, riflessioni utili non solo a noi come professionisti ma anche a coloro che non operano nella Sanità, perché la salute è un diritto “di” e “per” tutti, un valore che ci riguarda e che sconfina da ogni gabbia strutturale. In questa lettura ripercorriamo le tappe della vita della protagonista, un’esistenza dedicata interamente ai malati, nello specifico al sollievo dal dolore, dalla sofferenza incoercibile che toglie ogni possibilità di speranza, anche quella di morire.

Cecily Saunders fin da ragazza capì che la sua missione era dedicarsi ai malati. Si laureò come infermiera con ottimi voti al Saint Thomas Hospital, ma dovette lasciare ben presto la corsia a causa di un grave mal di schiena che le impedì l’esercizio della professione, anche se di questa conservò sempre l’amore e i principi fondamentali: osservazione, ascolto, attenzione, empatia e compassione . Come le diceva Mrs Gatlin, sua insegnante: «Osservate. Salverete la vita a un sacco di gente. Ascoltate i pazienti, i loro corpi. Ricordatevi che siamo in prima linea con loro». Oppure la rimproverava per il suo maledetto perfezionismo «che la gente pensa sia una virtù, invece è un difetto[…]. I perfezionisti affogano nei dettagli e perdono di vista il quadro generale. Una brava infermiera non deve essere perfetta, deve esser devota al malato, non alla tecnica». E ancora:

«Fare l’infermiera secondo lo spirito di Florence Nightingale, la fondatrice di questa disciplina, non è una professione: è un destino: Non è un modo di fare: è un modo di essere». E mi piace aggiungere, per enfatizzarne anche l’aspetto creativo: «fare l’infermiera oggi non è più la sguattera dell’ospedale. Oggi ha il diritto di aspirare al rango di artista».

Nonostante le difficoltà Cecily riuscì comunque a mantenere il suo ruolo di aiuto agli altri, come assistente sociale, per infine divenire medico all’età di trentanove anni.

Cecily fu senz’altro una visionaria, una donna che, ferma nella propria convinzione e intuizione di poter fare la differenza aiutando in maniera concreta chi veniva abbandonato dalla medicina ufficiale (perché inguaribile), oltrepassò ogni limite per inseguire il suo sogno di amore, restituendo qualità, dignità e rispetto al morente.

Una donna coraggiosa, decisa a fare sempre il meglio nonostante il conformismo e le avversità «perché da nessuna parte è scritto che le cose debbano andare come sono sempre andate, e da nessuna parte è scritto che non si possa tentare qualcos’altro».

Una donna ostinata e caparbia «che non smette di cercare. E non arrendersi non è poco».

Perché la speranza occorre, sia per vivere che per morire; la speranza è sfaccettata, composta di tanti elementi, «è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere».

«La speranza è fatta di istanti che restano a lungo […]Troppo densi[…] e allora ti rendi conto che hai scoperto la sostanza stessa del tempo e quella sostanza non è il ticchettio delle lancette e non lo sarà mai più. La speranza è un posto dove si vive fino all’ultimo istante scoppiando d’angoscia e al tempo stesso d’amore, di dignità e tristezza e felicità e dolore e rabbia e gioia e tenerezza e paura e pace e tutto nello stesso momento[…] La speranza è un posto dove puoi morire scoppiando di vita. La speranza è una cosa che non si sa bene cos’è. L’unica cosa certa è che è scomoda e snervante, il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono tutti gli altri, che sono molto peggio».

Cecily è stata l’ ideatrice e fondatrice dell’hospice, non solo come struttura fisica, ma prima di tutto come concetto, relazione con le persone che non rispondono più alla cura attiva finalizzata alla guarigione e che necessitano di cure palliative, nel delicato e particolare tempo del fine vita.

Le cure palliative (dal termine latino pallium, mantello che protegge, riscalda) non sono cure che portano le persone a morire più velocemente, ma sono le cure personalizzate per la persona inguaribile, centrate sui suoi bisogni totali (fisici, sociali, psico - spirituali), al fine di garantire qualità, dignità e senso alla vita stessa, comprendendo anche il nucleo familiare e sociale della persona stessa.

«L’hospice», come diceva Cecily Saunders  «non è un posto dove si va  morire, ma dove si può vivere fino all’ultimo istante con dignità».

Ed è proprio il “dare un senso alla vita” l’ingrediente saliente del fine vita, perché solo dando un significato alla propria esistenza si può accettare e dare senso alla propria morte. E il senso è la spiritualità, la dimensione più sottile che va oltre ogni credo e fede, quella sensazione che ci porta verso l’alto, che ci fa crescere, meravigliare, sentire unici e parte di tutto, come dice Mrs Gatlin: «siamo nodi della stessa rete» e completa Cecily stessa: «Non siamo nodi della stessa rete: siamo lo stesso identico nodo».

La fede di Cecily «si riduce a questo, alla fiducia che le cose buone esistono. Attraverso fiumi di dolore e montagne di fatiche, ovvio, ma esistono. Tutto qua».

Sarà David Tasma, il suo primo amore, malato terminale che incontra nel suo percorso di assistente sociale, a innescare la scintilla per la costruzione dell’hospice St. Christopher nel 1967, donandole una parte della sua eredità: «Facci una finestra Voglio essere una finestra della tua casa»; e poi Antoni Michniewicz, anche lui suo paziente e amante, a dissipare ogni dubbio alla realizzazione del suo sogno, aiutata dal fratello e dai suoi collaboratori. Cecily avra anche un terzo amore, Marian Bohusz-Szyszko, anche lui polacco, che sposerà e ammalatosi di cancro, finirà i suoi giorni nello stesso hospice, assistito da lei.

Cecily osservando le sofferenze dei suoi pazienti, compì numerosi e accurati studi sugli effetti della morfina, alla ricerca della dose ottimale, quella che determina il migliore giovamento per la persona. «Dal dolore nessuno si salva, il dolore è capace di rastrellamenti capillari, il dolore trova tutti». I suoi studi lo dicono chiaramente: «Uno, il dolore costante va trattato in modo costante con dosi minime da modulare secondo l’esigenza. Due, il paziente può tornare autonomo, liberato dalla sofferenza riprende possesso della propria coscienza e della propria dignità, grazie alle relazioni che si riattivano con i suoi cari. Tre, è escluso il pericolo di dipendenza. Quando si presenta la necessità di aumentare la dose, non è mai a causa di assuefazione, ma è piuttosto l’estensione del tumore in altri distretti che determina l’incremento del dolore, che ovviamente deve essere trattato, aumentando di conseguenza le dosi, secondo lo stesso criterio».

Ma quello che conta davvero per il malato, oltre la sedazione del dolore, è la presenza, l’ascolto, «la parola come parte della cura», la vicinanza: «Con il “trattamento Saunders” viene una gran voglia di piangere e parlare, e con le parole e il pianto torna la dignità. Un’alluvione di dignità».

«Forse è questo il segreto di Cecily: l’hospice non è più un posto dove si va a morire, ma un posto dove si va a vivere fino all’ultimo istante con dignità. La morte è naturale solo quando si muore con qualcuno che si prende cura di noi. Morire da soli non è naturale, non dovrebbe esserlo. E prendersi cura degli altri non è una cosa che si fa: è un bisogno, un bisogno primario come mangiare e bere». Ecco il segreto di una buona morte e anche di una buona vita.

E per arrivare a questo «gli operatori sanitari devono offrire prima di tutto se stessi, e solo dopo la loro competenza. Cuore e mente. Sembra niente, eppure questo trasforma i pazienti. E gli operatori. Perché fa scoprire la ricchezza del donarsi a vicenda».

Un romanzo interessante, un omaggio alla grande innovatrice, un’ottima fonte per conoscere una delle più eccellenti menti del secolo scorso, capace di rompere gli schemi, di studiare e indossare il camice avvalendosi delle competenze di tutti i ruoli sanitari, per rendersi completa e offrire il suo aiuto incondizionato, incarnando la definizione di hospice stesso, luogo dove tutti gli operatori, figure professionali (infermiere, OSS, medico, psicologo, assistente sociale) lavorano insieme con amore, dedizione e sensibilità, per il bene comune che si chiama persona, nel rispetto della sua autodeterminazione e unicità. Rispetto in vita e ancor più nella morte. 

Di cosa è fatta la speranza  di Emmanuel Exitu (ed Bompiani 2023)