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18 aprile 2024

OSCAR E LA DAMA IN ROSA di Eric - Emmanuel Schmitt

 

«La vita è uno strano regalo»

Perché è tanto difficile relazionarsi in maniera empatica con un bambino di soli dieci anni, affetto da una forma di leucemia che non risponde alle terapie, e che a breve lascerà il suo posto letto a un altro piccolo paziente con la speranza di una diagnosi migliore? È per il fatto, forse, che troviamo innaturale, ingiusta e violenta una tale condanna sulla testa di un innocente? È davvero così impossibile parlare e rispondere con sincerità a domande che desiderano risposte autentiche, anche se dolorose, dettate da un’incredibile e straordinaria autoconsapevolezza?

Per Nonna Rosa non lo è, anzi, le viene proprio spontaneo affrontare il problema di petto, come faceva un tempo, quando era una lottatrice di catch ed era soprannominata la Strangolatrice del Languedoc. È per questo che Oscar la preferisce agli altri adulti (medici, infermieri e gli stessi genitori) che lo fanno sentire inadeguato, frustrato e deluso per non rispondere bene alla terapia, per non riuscire a guarire nonostante i loro sforzi e tentativi. Eppure «La malattia è come la morte. È un fatto. Non è una punizione».

Gli adulti eludono le sue domande, non sorridono, non giocano, fingono, sempre nascosti dal velo della serietà, che gli restituisce solo pena e tristezza.

«Ma perché non mi dicono semplicemente che morirò?» si chiede Oscar. È davvero incredibile la lucidità di questo  ragazzino, che come un adulto sa porsi grandi domande e darsi anche grandi risposte: «Se dici morire in un ospedale, nessuno sente. Puoi star sicuro che ci sarà un vuoto d’aria e che si parlerà d’altro».

Sì, non è facile parlare della propria morte con una persona adulta, figuriamoci con un bambino! Ma se sappiamo metterci a fianco della persona e la si sa ascoltare, ecco che avviene il prodigio ed escono fuori immense verità.

Oscar è intelligente, sente che la morte gli è vicina. Disprezza le persone che lo allontanano dai suoi pensieri, che gli negano una realtà evidente e ineluttabile. Il fatto di essere in ospedale con una malattia incurabile ne è la conferma: «Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire» e la frase di Nonna Rosa pur nella sua durezza, lo sostiene: «Dimentichiamo che la vita è fragile, friabile, effimera. Facciamo tutti finta di essere immortali».

Ma la dama in rosa non si limita solo a sostenerlo nella triste scoperta di verità infauste, gli fa dono di una strategia che gli permette di continuare a vivere con gioia, curiosità e sorpresa. Gli propone un gioco: «A partire da oggi, osserverai ogni giorno come se ciascuno contasse per dieci anni» in modo che Oscar possa vivere ogni fase della vita, le turbolenze e le gelosie dell’adolescenza, l’innamoramento, il matrimonio, la maturità, l’abbandono e la vecchiaia, concentrando il suo tempo, dandogli valore non in termine quantitativo ma di qualità.

Nel fine vita, la spiritualità, che può coniugarsi nella fede, religione o semplicemente nella speranza, assume un posto di rilievo assoluto. Per questo Nonna Rosa esorta Oscar a tenere un diario, o meglio a scrivere lettere a Dio «per sentirti meno solo». 

«Bisogna distinguere due pene, Oscar, la sofferenza fisica e la sofferenza morale. La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si sceglie» è così che gli apre le porte a quella visione spirituale in cui sottolinea in maniera metaforica l’importanza della scelta: «All’idea di morire, non sei obbligato ad avere male. Non sai che cos’è. Dipende dunque da te». Parole così semplici che anche un bambino può capire ma tanto difficili per la maggior parte delle persone che non vogliono capire e affrontare l’argomento del fine vita.

Ma cosa è che ci fa più paura? L’ignoto o la perdita delle persone che amiamo?

Ci risponde proprio Oscar prima di compiere “i suoi cento anni”: «Bisogna sempre conservare la speranza».

E visto che morire è inevitabile per tutti, qual è il miglior modo per accettarlo? Ancora una volta è sempre lui a illuminarci.

«Quello che penso io , Nonna Rosa, è che l’unica soluzione per la vita sia vivere» o come invece Dio ci rivela in segreto: «Ogni giorno guarda il mondo come se fosse la prima volta».

Un piccolo libro con grandi verità, toccante, coinvolgente, commovente (lo ammetto, alla battuta finale ho avuto un groppo in gola e le lacrime), un modo semplice e diretto per parlare di un tema tabù, che evitiamo, esorcizziamo per allontanarlo dalla nostra vita, mentre come ci insegna Oscar, sarebbe proprio l’inclusione e la consapevolezza della propria morte a renderci più vivi, aperti e curiosi alla vita. 

“Oscar e la dama in rosa” di Eric-  Emmanuel Schmitt ( ed. Bur 2005)


21 marzo 2024

Di cosa è fatta la speranza di Emmanuel Exitu

 

Chi era Cecily Saunders donna poliedrica, risoluta, tenace, «altissima, quasi un metro e novanta» che sulle orme di Florence Nightingale contribuì a un cambiamento radicale nella storia dell’ assistenza e della cura?

Ce lo spiega molto bene l’autore, regista e sceneggiatore nel libro “Di cosa è fatta la speranza”, che ispirandosi alla vita di Cecily Saunders (1918 Barnet -2005 Londra), fondatrice delle cure palliative e dell’assistenza del fine vita, ci narra la sua straordinaria storia in forma romanzata. Il romanzo molto accurato nei dettagli, rappresenta un prezioso scrigno di pensieri, osservazioni, principi, riflessioni utili non solo a noi come professionisti ma anche a coloro che non operano nella Sanità, perché la salute è un diritto “di” e “per” tutti, un valore che ci riguarda e che sconfina da ogni gabbia strutturale. In questa lettura ripercorriamo le tappe della vita della protagonista, un’esistenza dedicata interamente ai malati, nello specifico al sollievo dal dolore, dalla sofferenza incoercibile che toglie ogni possibilità di speranza, anche quella di morire.

Cecily Saunders fin da ragazza capì che la sua missione era dedicarsi ai malati. Si laureò come infermiera con ottimi voti al Saint Thomas Hospital, ma dovette lasciare ben presto la corsia a causa di un grave mal di schiena che le impedì l’esercizio della professione, anche se di questa conservò sempre l’amore e i principi fondamentali: osservazione, ascolto, attenzione, empatia e compassione . Come le diceva Mrs Gatlin, sua insegnante: «Osservate. Salverete la vita a un sacco di gente. Ascoltate i pazienti, i loro corpi. Ricordatevi che siamo in prima linea con loro». Oppure la rimproverava per il suo maledetto perfezionismo «che la gente pensa sia una virtù, invece è un difetto[…]. I perfezionisti affogano nei dettagli e perdono di vista il quadro generale. Una brava infermiera non deve essere perfetta, deve esser devota al malato, non alla tecnica». E ancora:

«Fare l’infermiera secondo lo spirito di Florence Nightingale, la fondatrice di questa disciplina, non è una professione: è un destino: Non è un modo di fare: è un modo di essere». E mi piace aggiungere, per enfatizzarne anche l’aspetto creativo: «fare l’infermiera oggi non è più la sguattera dell’ospedale. Oggi ha il diritto di aspirare al rango di artista».

Nonostante le difficoltà Cecily riuscì comunque a mantenere il suo ruolo di aiuto agli altri, come assistente sociale, per infine divenire medico all’età di trentanove anni.

Cecily fu senz’altro una visionaria, una donna che, ferma nella propria convinzione e intuizione di poter fare la differenza aiutando in maniera concreta chi veniva abbandonato dalla medicina ufficiale (perché inguaribile), oltrepassò ogni limite per inseguire il suo sogno di amore, restituendo qualità, dignità e rispetto al morente.

Una donna coraggiosa, decisa a fare sempre il meglio nonostante il conformismo e le avversità «perché da nessuna parte è scritto che le cose debbano andare come sono sempre andate, e da nessuna parte è scritto che non si possa tentare qualcos’altro».

Una donna ostinata e caparbia «che non smette di cercare. E non arrendersi non è poco».

Perché la speranza occorre, sia per vivere che per morire; la speranza è sfaccettata, composta di tanti elementi, «è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere».

«La speranza è fatta di istanti che restano a lungo […]Troppo densi[…] e allora ti rendi conto che hai scoperto la sostanza stessa del tempo e quella sostanza non è il ticchettio delle lancette e non lo sarà mai più. La speranza è un posto dove si vive fino all’ultimo istante scoppiando d’angoscia e al tempo stesso d’amore, di dignità e tristezza e felicità e dolore e rabbia e gioia e tenerezza e paura e pace e tutto nello stesso momento[…] La speranza è un posto dove puoi morire scoppiando di vita. La speranza è una cosa che non si sa bene cos’è. L’unica cosa certa è che è scomoda e snervante, il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono tutti gli altri, che sono molto peggio».

Cecily è stata l’ ideatrice e fondatrice dell’hospice, non solo come struttura fisica, ma prima di tutto come concetto, relazione con le persone che non rispondono più alla cura attiva finalizzata alla guarigione e che necessitano di cure palliative, nel delicato e particolare tempo del fine vita.

Le cure palliative (dal termine latino pallium, mantello che protegge, riscalda) non sono cure che portano le persone a morire più velocemente, ma sono le cure personalizzate per la persona inguaribile, centrate sui suoi bisogni totali (fisici, sociali, psico - spirituali), al fine di garantire qualità, dignità e senso alla vita stessa, comprendendo anche il nucleo familiare e sociale della persona stessa.

«L’hospice», come diceva Cecily Saunders  «non è un posto dove si va  morire, ma dove si può vivere fino all’ultimo istante con dignità».

Ed è proprio il “dare un senso alla vita” l’ingrediente saliente del fine vita, perché solo dando un significato alla propria esistenza si può accettare e dare senso alla propria morte. E il senso è la spiritualità, la dimensione più sottile che va oltre ogni credo e fede, quella sensazione che ci porta verso l’alto, che ci fa crescere, meravigliare, sentire unici e parte di tutto, come dice Mrs Gatlin: «siamo nodi della stessa rete» e completa Cecily stessa: «Non siamo nodi della stessa rete: siamo lo stesso identico nodo».

La fede di Cecily «si riduce a questo, alla fiducia che le cose buone esistono. Attraverso fiumi di dolore e montagne di fatiche, ovvio, ma esistono. Tutto qua».

Sarà David Tasma, il suo primo amore, malato terminale che incontra nel suo percorso di assistente sociale, a innescare la scintilla per la costruzione dell’hospice St. Christopher nel 1967, donandole una parte della sua eredità: «Facci una finestra Voglio essere una finestra della tua casa»; e poi Antoni Michniewicz, anche lui suo paziente e amante, a dissipare ogni dubbio alla realizzazione del suo sogno, aiutata dal fratello e dai suoi collaboratori. Cecily avra anche un terzo amore, Marian Bohusz-Szyszko, anche lui polacco, che sposerà e ammalatosi di cancro, finirà i suoi giorni nello stesso hospice, assistito da lei.

Cecily osservando le sofferenze dei suoi pazienti, compì numerosi e accurati studi sugli effetti della morfina, alla ricerca della dose ottimale, quella che determina il migliore giovamento per la persona. «Dal dolore nessuno si salva, il dolore è capace di rastrellamenti capillari, il dolore trova tutti». I suoi studi lo dicono chiaramente: «Uno, il dolore costante va trattato in modo costante con dosi minime da modulare secondo l’esigenza. Due, il paziente può tornare autonomo, liberato dalla sofferenza riprende possesso della propria coscienza e della propria dignità, grazie alle relazioni che si riattivano con i suoi cari. Tre, è escluso il pericolo di dipendenza. Quando si presenta la necessità di aumentare la dose, non è mai a causa di assuefazione, ma è piuttosto l’estensione del tumore in altri distretti che determina l’incremento del dolore, che ovviamente deve essere trattato, aumentando di conseguenza le dosi, secondo lo stesso criterio».

Ma quello che conta davvero per il malato, oltre la sedazione del dolore, è la presenza, l’ascolto, «la parola come parte della cura», la vicinanza: «Con il “trattamento Saunders” viene una gran voglia di piangere e parlare, e con le parole e il pianto torna la dignità. Un’alluvione di dignità».

«Forse è questo il segreto di Cecily: l’hospice non è più un posto dove si va a morire, ma un posto dove si va a vivere fino all’ultimo istante con dignità. La morte è naturale solo quando si muore con qualcuno che si prende cura di noi. Morire da soli non è naturale, non dovrebbe esserlo. E prendersi cura degli altri non è una cosa che si fa: è un bisogno, un bisogno primario come mangiare e bere». Ecco il segreto di una buona morte e anche di una buona vita.

E per arrivare a questo «gli operatori sanitari devono offrire prima di tutto se stessi, e solo dopo la loro competenza. Cuore e mente. Sembra niente, eppure questo trasforma i pazienti. E gli operatori. Perché fa scoprire la ricchezza del donarsi a vicenda».

Un romanzo interessante, un omaggio alla grande innovatrice, un’ottima fonte per conoscere una delle più eccellenti menti del secolo scorso, capace di rompere gli schemi, di studiare e indossare il camice avvalendosi delle competenze di tutti i ruoli sanitari, per rendersi completa e offrire il suo aiuto incondizionato, incarnando la definizione di hospice stesso, luogo dove tutti gli operatori, figure professionali (infermiere, OSS, medico, psicologo, assistente sociale) lavorano insieme con amore, dedizione e sensibilità, per il bene comune che si chiama persona, nel rispetto della sua autodeterminazione e unicità. Rispetto in vita e ancor più nella morte. 

Di cosa è fatta la speranza  di Emmanuel Exitu (ed Bompiani 2023)


28 febbraio 2024

Credere, Disobbedire, Combattere - Come liberarci dalle proibizioni per migliorare la nostra vita di Marco Cappato

 

“Ritengo un mio diritto inalienabile poter scegliere se, come, quando” Corrado Augias

Un saggio molto interessante e in linea con i miei attuali studi “Credere, Disobbedire, Combattere”, una lettura che ripercorrendo il periodo socio politico culturale dagli anni Cinquanta in poi, ci porta a soffermarci, riflettere, ponderare alcuni aspetti o meglio norme che hanno caratterizzato, influenzato e tuttora rappresentano la nostra realtà politica e sociale. Al di là dell’ideologia partitica radicale, ciò che ho apprezzato e ritenuto molto valido è l’approccio umano, globale e non discriminatorio alla persona nella sua molteplicità e differenziazione, nel rispetto del proprio e altrui diritto.

Tanti gli argomenti trattati da Marco Cappato – parlamentare europeo, radicale, promotore di svariate azioni di protesta civile – con un linguaggio preciso, competente e colto. Si va dall’eutanasia e suicidio assistito, alla libertà sessuale, dalla legalizzazione delle droghe a quella della libertà di informazione su Internet, dalla legge sull’ aborto alla legalizzazione della ricerca e utilizzo delle cellule staminali a favore di malattie neurovegetative, Alzheimer, SLA, ecc…, dalla manipolazione genetica a fini diagnostici e terapeutici a quella sugli OGM in campo alimentare.

Quello che mi preme sottolineare e valorizzare della lettura, a parte le tematiche che aprono capitoli assai ampi e complessi è, come dicevo, proprio l’atteggiamento, la sensibilità di fondo, la postura, il modo di porsi verso la vita nei suoi aspetti più critici – come per es, la capacità di disobbedire se lo si ritiene giusto, la scelta di decidere la propria vita e la propria morte, l’atteggiamento di non violenza, ecc… – ovvero permettere all’individuo di autodeterminarsi, nel rispetto della sua individualità, dei suoi valori, desideri, credo e dell’altro individuo.

Ecco le storie e le scelte di Welby, del padre di Eluana Englaro, di Fabiano Antoniani, riportate dall’autore con umanità e commozione. Il punto chiave è proprio questo: dare la possibilità di decidere della propria vita, anche quando siamo intrappolati in un corpo che non riconosciamo più (e la tecnologia, l’evoluzione della medicina in questo si sono rivelati armi a doppio taglio), «in nome dell’affermazione del diritto all’ autodeterminazione, alla libertà fondamentale di scegliere per sé stessi, il proprio corpo e la propria malattia anche nella fase finale della vita in nome dell’effettiva attuazione degli articoli 3,13 e 32 della Costituzione».

Non c’è solo l’eutanasia come soluzione alle sofferenze del fine vita; le cure palliative sono oggi la risposta alternativa alle cure attive, la risposta giusta e ragionevole, per migliorare la qualità e dignità della persona nel fine vita. « Le persone morenti sono tra le più bisognose di aiuto e di ascolto. Un aiuto intelligente, un ascolto difficile, per affrontare la paura e la solitudine, per comprendere e lenire il dolore, ma anche per fermarsi quando la persona non vuole più andare avanti». O come dice l’editoriale “The Economist” dell’aprile del 2017: «Conversazioni aperte, oneste con il morente dovrebbero far parte di una medicina moderna tanto quanto la somministrazione di farmaci. Una morte migliore significa una vita migliore, fino alla fine».

E oggi esiste a tutelarci, la Legge 219/2017 che sancisce le “Norme in materia di consenso informato e di Disposizioni anticipate di  trattamento”, purtroppo poco divulgata perciò poco conosciuta anche da coloro che dovrebbero metterla in atto proprio attraverso la cura e l’assistenza sanitaria.

Illuminante questo passaggio in materia di democrazia. Cosa si può fare quando in un sistema corrotto ci si scontra contro muri invalicabili? «Restiamo noi» restare sé stessi, continuare a portare avanti il proprio ideale, il proprio sentire, la propria ragione (e ribadisco sempre nel rispetto dell’altro) al di là della maggioranza e della convenienza, è davvero ciò che fa la differenza e che può determinare il cambiamento, più del clamore di tante rivoluzioni. Per dirla in altre parole, è solo una goccia nel mare, senza la quale il mare però sarebbe diverso. Io ci credo, davvero.Ma per attuarlo dobbiamo prima conoscere. «La conoscenza è riconoscenza di qualcosa che è già in noi, e la rivoluzione interiore è un movimento in dolce continuità».

Quindi concludo, come una lista della spesa, con le citazioni più significative, che sento mie perché appunto le ri-conosco.

«Disobbedire civilmente non significa “solo ribellarsi”. Significa assumersi la responsabilità delle proprie azioni, sperimentare alternative, creare conoscenza».

«Cercare di comprendere e di convincere il (pre)potente, invece di sopraffarlo con maggiore violenza, è l’elemento fondamentale per l’efficacia della nonviolenza stessa, perché la violenza è proprio il terreno sul quale chi comanda è a suo agio».

«Disobbedienza civile è sperimentazione di un modo nuovo di fare le cose [...] Succede quando il vecchio modo di fare le cose non è più al passo con nuove sensibilità e consapevolezze, o più semplicemente non funziona più. Per valutarlo, niente è più utile dei dati di fatto, cioè proprio del sapere scientifico».

Quindi, disobbediamo civilmente e aggiungo io, ragionevolmente.

“Credere, Disobbedire, Combattere - Come liberarci dalle proibizioni per migliorare la nostra vita” (ed. Rizzoli 2017) di Marco Cappato


29 gennaio 2024

ESSERE MORTALE Come scegliere la propria vita fino in fondo di Atul Gawande

 

«Per gli esseri umani la vita ha un senso perché è una storia […] E nelle storie il finale conta».

La vita di un essere umano è la biografia della grande biblioteca dell’Umanità, ognuno ha la sua storia, dettata dalle proprie origini, dalle vicende che l’hanno determinata sulla base delle proprie  scelte (o non scelte) desideri, volontà… e ogni capitolo ha il suo valore, non per ultimo quello del fine vita, momento conclusivo e proprio per questo, di straordinaria importanza. Perché sminuirlo e non considerarlo in tutta la sua valenza e rilevanza?

Atul Gawande, medico chirurgo statunitense, ci porta a riflettere su questo momento fondamentale della vita, che dobbiamo rendere interessante e significativo (per chi se ne va ma anche per chi resta) e non demonizzarlo come invece accade.

Molte le tematiche affrontate che provo a riassumere nei capitoli dedicati.

Indipendenza. Indipendenza è una parola che spesso troviamo contrapposta al problema della “vecchiaia”, fase della vita di un individuo in cui si assiste a un decadimento fisico e cognitivo più o meno lento. Lo sviluppo tecnologico, scientifico, informatico e medico ha determinato un progresso tale da portare la popolazione a vivere più a lungo, a invecchiare, condizione che non sussisteva nei secoli passati quando l’età media era intorno ai cinquant’anni. Ovviamente con l’aumento dell’età sono aumentate le patologie croniche che la medicina controlla con la terapie, ma che possono creare disabilità e disagi tali da minare spesso l’indipendenza delle persone. Questa è la grande piaga del nostro secolo, la cura e l’assistenza di un’ ampia fascia di popolazione che non è più autosufficiente e ha bisogno di assistenza e cura continua spesso da parte di personale competente. Con la scomparsa della famiglia patriarcale, l’anziano è diventato sempre più una questione sociale, di indirizzo medico assistenziale e sempre meno familiare. I figli stessi sono già in età avanzata nel gestire il proprio genitore, non vivono con lui, e quando questi perde la propria autonomia, il problema emerge improvviso e devastante. Oggi le soluzioni (almeno nella nostra realtà italo-europee) sono le badanti o istituzioni quali RSA, case di riposo, istituti che permettono la gestione quotidiana di una persona non più autosufficiente da parte di personale qualificato. 

Tutto si disfa. Atul Gawande ci mostra la vita di un individuo come una traiettoria sulla linea delle ascisse, che la medicina e la sanità pubblica contemporanea hanno cambiato radicalmente, come dicevo innanzi. Nei traumi, malattie a esito infausto (come un infarto cardiaco, emorragia cerebrale massiva,ecc…) la traiettoria ha un andamento costante e soddisfacente per qualità della vita fino all’improvvisa caduta determinata dalla morte. Grazie alla Medicina e Chirurgia, la traiettoria può essere modulata variando così a seconda delle patologie. Nelle malattie tumorali l’andamento è costante e soddisfacente fino a un declino più o meno lento nella fase finale della vita. Nella malattie croniche invece si assiste a un andamento costantemente in discesa con cadute improvvise (crisi e scompensi ) subito gestiti dalla medicina che riportano la persona a un livello sempre inferiore rispetto a quello prima dell’evento scatenante. Nell’invecchiamento fisiologico invece la traiettoria è una linea che scende in maniera graduale verso il basso, fino all’esito finale. L’autore ci fa notare che vivere così a lungo come viviamo oggi rappresenta un fenomeno assai innaturale, in quanto la morte di vecchiaia in passato era cosa rara. Perché si invecchia allora? Sembra che la genetica sia solo un frammento nella spiegazione del quesito. Sembriamo progettati per funzionare a tutti i costi, e ce lo dimostra il fatto che abbiamo due occhi, due reni, due orecchie, due braccia… nel caso uno dei due venga a mancare. Illuminante questa considerazione pur così semplice, nel giustificare il dualismo del nostro corpo.

Ci sono alcune specializzazioni più attraenti per la carriera di un medico (la chirurgia plastica, la radiologia, per es…) rispetto ad altre come la geriatria (e io aggiungo le cure palliative) che deprivano di una qualità importante della professione ovvero la possibilità di garantire la speranza di vita a lungo termine. Molti medici lavorano poco volentieri con gli anziani. Ovvio, mi viene da pensare, non è un settore della medicina che dà soddisfazione e speranza, dal momento che dovremmo affrontare problemi sconvenienti come l’accettazione dell’ inevitabile declino del corpo e quello del fine vita, perché come asserisce A.G «il sogno di tutti è vincere il tempo, l’ingrato compito del geriatra è farci accettare che non ne siamo capaci».

Il problema fondamentale nella presa in carico dell’anziano è che non si può prendere in considerazione solo ed esclusivamente le patologie croniche (l’insufficienza renale, cardiaca, respiratori il diabete, ecc…) ma tutta la persona nella sua interezza e globalità, in una visione individuale  e soggettiva (ciò che è bene per quella persona), familiare e sociale. I medici non geriatri spesso non riescono a fare questa considerazione, forse per cultura, per mancanza di strumenti e di risorse, per abitudine… indirizzandosi più sulla cura del sintomo e cercando la soluzione per quello. E da qui nascono tutti i problemi.

Dipendenza. Non è la morte che le persone molte anziane mi dicono di temere. È quel che la precede: perdere l’udito, la memoria, gli amici più cari, le  abitudini di vita».

Negli Stati Uniti negli anni Cinquanta le case di carità per l’assistenza agli anziani indigenti e malati chiusero determinando un grosso problema sanitario e sociale. Ovviamente il tutto non poteva risolversi da parte dell’ospedale, luogo destinato alla cura di eventi acuti e non alla gestione delle patologie croniche. Cominciò così a delinearsi, una nuova concezione di luogo di assistenza per la persona anziana con patologie croniche: la moderna casa di riposo, nursing home nata più dalla necessità di liberare posti letto dall’ospedale che per risolvere i problemi legati alla terza età. Le nursing homes fiorirono come alberi in primavera arrivando a un numero di tredicimila nel 1970 - documenta l’autore - col supporto anche di Medicaid, il sistema di previdenza sociale americano. L’evoluzione c’è stata anche sulla base di iniziative private che hanno cercato di ricreare case comunitarie in cui l’anziano potesse giovarsi dell’assistenza necessaria e al contempo vivere la parte conclusiva della propria vita sentendosi a casa propria.

Il problema di un luogo di cura e assistenza nella terza età non riguarda solo la realtà statunitense, ma anche la nostra. Le case di riposo purtroppo rimangono spesso istituzioni non centrate sulla persona ma su problematiche di carattere sociale, gestionale, pratico, l’alternativa quando non ci sono altre soluzioni.

Assistenza. Cos’è la vecchiaia? Una serie di definizioni interessanti ce le fornisce l’autore avvalendosi di alcune teorie «Secondo alcuni è un mutamento che riflette la saggezza acquisita con una lunga esperienza di vita. Altri ritengono che si tratti del risultato cognitivo di cambiamenti dei tessuti cerebrali legati all’età. Altri ancora sostengono che il cambiamento di comportamento sia imposto agli anziani e non rifletta ciò che nel profondo del cuore essi vogliono veramente. I vecchi restringono le loro mire perché le limitazioni imposte dal declino fisico e cognitivo non consentono loro di perseguire gli obiettivi di un tempo, oppure perché il mondo glielo impedisce per l’unica ragione che sono vecchi. A quel punto invece di lottare si adattano, o per dirla in modo più triste si arrendono». E l’arrendevolezza aggiungo io coincide purtroppo con la perdita dell’autosufficienza nel paziente fragile (oppure è questa che la determina) , che non può più farsi le proprie ragioni perché dipende da qualcun altro. E questa è la tomba della persona, alienata nei propri desideri. Ma quali sono i desideri dell’anziano fragile? È una domanda che dobbiamo sempre porci. Studi dimostrano che le persone che risiedono nelle RSA come desiderio primario esprimono la condizione di sentirsi a casa. Perché come dice A.G «La casa è l’unico posto dove le proprie priorità regnano sovrane. A casa tua, decidi tu come spendere il tuo tempo, come ripartire il tuo spazio, come gestire i tuoi beni personali». Mentre purtroppo le case di assistenza non mettono al centro i bisogni e i desideri della persona (alzarsi alla propria ora, mangiare quando si ha fame, guardare alla tv ciò che si preferisce, circondarsi di persone significative …) in quanto tutto ruota attorno a una organizzazione standard che possa nella maniera più redditizia ottimizzare l’assistenza, garantire sicurezza e soddisfazione dei bisogni primari appunto.

Interessante la carrellata di esperienze innovative di case comunità che l’autore ci racconta, con l’obiettivo di realizzare proprio questa possibilità. Esperienze che hanno più o meno funzionato, anche se «non esistono metodi validi per valutare il successo di una struttura residenziale nell’aiutare i residenti a vivere. Mentre in materia di salute e sicurezza, invece, disponiamo di criteri molto precisi».E aggiunge in battuta finale: «è cosi che vanno le cose […] i nostri vecchi non si ritrovano che con questo: un’esistenza istituzionale, sotto controllo e sotto tutela, una risposta medica a problemi medicalmente irrisolvibili, una vita pensata per essere sicura, ma priva di interesse».

Una vita migliore. Riportandoci l’esperienza di Bill Thomas, medico e direttore di una casa di riposo, riferisce quelle che «chiamava le “tre piaghe” della vita in casa di riposo: la noia, la solitudine, l’impotenza». Perciò introdusse cani, gatti, uccellini, un giardino con piante di cui i residenti potessero prendersi cura, offrendo loro una ragione di vita.

Quale dovrebbe essere l’ obiettivo delle residenze sanitarie assistite, delle case per anziani, di riposo o comunque le vogliamo chiamare? Aiutare le persone autosufficienti e non autosufficienti, nella soddisfazione dei bisogni primari, preservando dignità e valore della vita. Cosa occorre? Luoghi ridimensionati, più intimi, dove esista la privacy, pur garantendo protezione e sicurezza. Non mancano nella narrazione molti esempi di esperienze americane in cui sono stati raggiunti risultati simili: l’autonomia, la sicurezza nel rispetto della propria libertà di azione, la dignità, l’orgoglio di vivere in coerenza con le proprie ideologie. Perché è questo che l’anziano vuole, e che vorremo anche noi quando lo saremo, «continuare a scrivere la nostra storia […] mantenere la libertà di plasmare la nostra vita in modo coerente con la nostra personalità e con ciò in cui crediamo».

«La lotta dell’essere mortale è la lotta per mantenere l’integrità della propria vita: è la battaglia per evitare di finire così degradati, prostrati, o sottomessi da non aver più un legame con ciò che siamo stati o con ciò che vogliamo essere».

Lasciare andare. «Dobbiamo porre un freno agli imperativi di tipo prettamente medico e resistere al nostro bisogno di armeggiare, riparare, controllare». Una frase forte che in poche parole dice tutto. Non è facile in una cultura in cui dobbiamo sempre vincere, fare i conti con la morte che rappresenta la sconfitta. Ecco perché è più facile agire, accanirsi, che lasciare andare e far sì che la vita segua il corso naturale degli eventi. Siamo impreparati, ignoranti, non conosciamo le modalità di accompagnamento alla morte. In passato esistevano manuali popolari, come la versione medievale sull’ “ars moriendi” pubblicato in latino dove «la gente credeva che la morte dovesse essere affrontata stoicamente, senza paura né autocommiserazione, e senza altra speranza se non quella riposta nella misericordia di Dio». Oggi esiste «L’hospice, che ha tentato di proporre un nuovo ideale di modo di morire. Non tutti hanno accettato i suoi rituali, ma coloro che lo hanno fatto stanno contribuendo alla composizione negoziata di un’“ars moriendi” della nostra era. In questo negoziato, tuttavia, trova anche espressione una battaglia: non solo contro la sofferenza ma anche contro lo slancio apparentemente inarrestabile del trattamento medico». La scelta dell’hospice non accelera il processo del morire, anzi, come dimostrano alcuni studi «Si vive più a lungo solo quando si smette di cercare di vivere più a lungo».

È più difficile parlare chiaramente al paziente della prognosi infausta, dirgli la verità. Non siamo preparati culturalmente e spesso non lo è neppure lui. È più facile continuare a infondere speranza, a illuderlo con la possibilità di nuove terapie. «I medici appaiono particolarmente attenti a non frustrare le aspettative dei malati. Hanno molta più paura di peccare per pessimismo che per ottimismo». Per questo è fondamentale la Pianificazione delle cure in cui insieme alla persona, il medico, l’equipe, comincia un percorso di cura che non sarà finalizzato alla guarigione, alla cura del sintomo della malattia (cure attive), ma all’alleggerimento della sofferenza creata dalla malattia (cure palliative), ai fini di una migliore qualità di vita della persona stessa e dei familiari. Un processo che richiede tempo e che si avvale della comunicazione come strumento base, per ascoltare, fornire indicazioni e conoscenze, accogliere e stabilire insieme alla persona e ai familiari il piano di cura.

«Le persone gravemente ammalate hanno altre preoccupazioni oltre al semplice prolungamento della loro vita […] vogliono evitare di soffrire, stare a più stretto contatto con familiari e amici, mantenere la lucidità mentale, non essere di peso agli altri e riuscire a dare un senso di completezza alla propria esistenza. Il nostro sistema di assistenza sanitaria tecnologica si è dimostrato clamorosamente incapace di soddisfare queste esigenze». La tecnologia purtroppo può andare avanti nel mantenere vitali gli organi, superando la soglia della volontà e dignità della persona e questo è ciò che dobbiamo assolutamente non permettere.

Conversazioni difficili. Le conversazioni difficili sono quelle che scavano dentro l’intimità della persona, sono quelle che portano a scelte sensate, a prese di coscienza e decisione, sono le conversazioni che permettono alla persona di ricevere le giuste informazioni sulla propria condizione di salute, di metabolizzarla con l’aiuto dell’interlocutore, nel rispetto della propria libertà e dignità.

Siamo passati dalla relazione “paternalistica” del passato (in cui il medico sapeva cosa era bene per il paziente e decideva) a una relazione di tipo “informativo” in cui al paziente vengono forniti dati e cifre (il medico è il tecnico esperto, il paziente il cliente e sta a lui la decisione). Ezekile e Linda Emanuel, due studiosi di etica, hanno ravvisato «un terzo tipo di relazione che hanno definito “Interpretativa” in cui il ruolo del dottore è aiutare i pazienti a stabilire ciò che vogliono […] Gli esperti l’hanno chiamato processo decisionale condiviso».

Atul Gawande spiega l’efficacia di questo terzo tipo di relazione raccontandoci l’esperienza personale con il fine vita del padre, affetto da una forma tumorale cervicale.

La vita ci impone spesso cambiamenti repentini che dobbiamo fare propri, ridefinendo noi stessi, ovvero riadattandoci, creando nuove identità al fine di ricollocarsi nella vita con uno scopo, una ragione. «È questo che si intende per avere autonomia: può succedere di non poter controllare le circostanze della vita, ma riuscire a essere l’autore della propria vita significa poter controllare quel che si fa con le circostanze che ci vengono date».

Le conversazioni difficili sono quelle che scoprono la pentola con dentro i fantasmi, le pene, le angosce più intime, quelle legate alla malattia infausta e alle conseguenze terribili che portano dolore e atroci sofferenze. Rendere possibile, creare l’opportunità di una conversazione difficile può anche allungare la vita oltre a renderla migliore.

Coraggio.  «Il coraggio è la forza di fronte alla conoscenza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare». Il coraggio durante la malattia o la vecchiaia è voler sapere la verità su ciò che si teme o si spera, e il coraggio di affrontare la realtà della mortalità. Ma, dice Atul Gawande «la vera sfida è decidere se a dover prevalere sono le proprie paure o le proprie speranze».

 Studi sul dolore dimostrano che è il picco-fine del dolore e non la durata del dolore a esprimere l’intensità di sofferenza data dalla memoria. «Per gli esseri umani la vita ha un senso perché è una storia. Una storia ha un senso d’insieme, e la sua traiettoria è determinata da momenti significativi, che sono quelli in cui succede qualcosa […] questo funzionamento è profondamente influenzato da come le cose vanno a finire […] e nelle storie il finale conta»

Il coraggio potrebbe essere l’equilibrio tra il controllo e l’impotenza.

«La vita assistita è molto più difficile della morte assistita, ma ha anche potenzialità straordinariamente più grandi».

E concludo con questa bellissima frase:

«La società tecnologica ha dimenticato quello che gli studiosi chiamano il ruolo del morente” e quanta importanza esso abbia per le persone che vedono approssimarsi al fine. Le persone vogliono condividere i ricordi, trasmettere saggezze e oggetti personali, definire le relazioni, fare pace con Dio e assicurarsi che chi resta non abbia problemi. Vogliono concludere la loro storia a modo loro. e se questo è vero, il modo in cui, per ottusità e incuria, stiamo negando alle persone la possibilità di ricoprirlo, dovrebbe essere per noi motivo di eterna vergogna».

E infine:

«Essere mortale significa anche sforzarsi di sopportare i vincoli della nostra biologia, ovvero i limiti imposti da geni, cellule, carne e ossa».

“ESSERE MORTALE-Come scegliere la propria vita fino in fondo” di Atul Gawande (Einaudi 2014)

08 gennaio 2024

LA SOLITUDINE DEL MORENTE di Norbert Elias

 


Norbert Elias è un sociologo tedesco di origine ebraica (1897-1990) che in queste poche pagine condensa il proprio pensiero sul vivere la morte, l’evento finale che più terrorizza l’essere umano, inserito nel contesto sociale attuale (riferito al 1982, anno di pubblicazione) e attraverso i secoli, avvalendosi anche delle teorie di altri sociologi e filosofi (quali Aries, Freud, Weber, ecc…). Scritto all’età di novanta anni, rispecchia la visione della morte dell’autore con serenità e accoglienza.

Molte le citazioni da rilevare e commentare, troppe per riportarle tutte – che comunque provo a estrapolare perché degne di nota e riflessione – fondamentali per capire come la morte sia un argomento tabù agli occhi del mondo odierno.

Le modalità – dice Elias – di affrontare la morte sono molteplici. Si può mitologizzarla (e questo è tipico dell’antichità – ma anche dei nostri giorni  – in cui si ipotizzava una vita nell’aldilà in cui tutto aveva un seguito); si può allontanarla, credendo e sentendosi immortali, ciò che avviene più frequentemente ai nostri tempi; possiamo guardarla dritta in faccia, comprenderla, riconoscerla come una fase inevitabile della vita e affrontarla oggettivamente per quello che è.

Nella nostra società contemporanea, ciò che ci riguarda non è solo il problema del morire, ma il fatto che la questione è spesso legata all’invecchiamento della popolazione che a sua volta si lega alla cronicità delle patologie.

Elias sostiene che «è necessario che la morte sia demitizzata il più possibile [] l’umanità è una comunità di mortali e gli uomini nel loro bisogno possono aspettarsi aiuto solo da altri uomini [] la morte è un problema che riguarda i vivi; i morti non hanno problemi».

Interessante ciò che afferma sulla coscienza della morte negli esseri viventi: «Tra gli esseri che muoiono, gli uomini sono le creature per le quali la morte costituisce un problema», infatti gli animali non hanno paura e angoscia della morte a differenza degli uomini. «Non è la morte ma la coscienza a costituire un problema per gli uomini». Questa è una considerazione davvero interessante.

L’approccio alla morte cambia nei secoli e nelle diverse società. In passato l’uomo aveva un’aspettativa di vita inferiore (a quarant’anni era già vecchio). Oggi un uomo a settant’anni può essere ancora attivo e in forze. L’età biologica e anagrafica non sempre coincidono e questo determina anche un atteggiamento verso il fine vita più ottimistico e lungimirante, allontanando sempre di più il momento dell’evento nefasto. Da ciò ne deriva anche un eccessivo attaccamento alla vita, e una tendenza a rimuovere il pensiero della morte sia a livello individuale che a livello collettivo, perché turba il benessere a cui aspiriamo. La morte così viene scacciata dal nostro pensiero, relegata in uno spazio a sé, separato dal contesto comunitario, lo stesso in cui si viene a trovare invece la persona morente.

Un tempo la morte era vissuta in ambito familiare – da qui il nome di morte addomesticata – che insieme alla nascita, rappresentavano eventi comunitari, mentre oggi vengono vissuti in maniera più privata, dice Elias. Oggi «obbedendo all’oscura sensazione che i bambini possano esserne danneggiati, nascondiamo loro gli eventi naturali della vita, che dovranno in seguito inevitabilmente conoscere e capire» ma «sarebbe salutare che essi familiarizzassero con l’evento naturale della morte», come accadeva un tempo. Oggi si prova imbarazzo di fronte al morente, perché non siamo preparati culturalmente, allontanandone in ogni occasione l’argomento. E quando gli uomini sono costretti al capezzale dei moribondi «non sono più in grado di confortarli con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza». È di primaria importanza invece la vicinanza alla persona morente, il suo aspetto emotivo, la sensazione di sentirsi ancora amata unita alla consapevolezza di rappresentare un valore per i propri cari. Ciò che manca, aggiungo io, è proprio l’abitudine a stare accanto alle persone che soffrono, che muoiono. Disagio che si protrae anche dopo la morte della persona cara, nel delegare a personale specializzato la preparazione della salma. Anche il cimitero, la città dei morti, è una sorta di isola, un luogo circoscritto, distanziato dal resto del contesto civile caotico e vitale, dove invece il silenzio, la solennità e sacralità  confermano ancora questa separazione.

Così «per quanto riguarda la morte, la tendenza all’occultamento, al suo isolamento, in una sfera speciale, non è certo inferiore ma anzi superiore rispetto al secolo scorso». Ciò che fa paura è che «non è la morte a ispirare terrore, ma la rappresentazione anticipata della morte». E questo lo traduco come la consapevolezza e la coscienza della possibilità e probabilità imminente del morire, da cui deriva la paura.

Tenendo conto dell’aumento della durata della vita «bisogna tenere presente la rappresentazione della morte come momento conclusivo di un processo naturale che si è allungato grazie ai progressi della medicina e dell’igiene». Per questo l’uomo, abbagliato anche da questa chimera, cerca di allontanarla il più possibile.

Altra caratteristica che determina un particolare atteggiamento verso la morte è legata al fatto che viviamo in società e culture pacifiste e che la probabilità di morire ammazzati, per guerre e battaglie è pressoché rara. Diversa è quindi la concezione in paesi dove c’è guerra e la morte è sempre imminente e presente. Oggi, aggiungerei, nelle nostre realtà europee e pacifiste, le paure sono altre e diverse: gli incidenti stradali e legati ai trasporti, le sciagure atmosferiche e le catastrofi climatiche, omicidi e più ancora i femminicidi che negli ultimi anni raggiungono cifre impressionanti.

Elias afferma che l’immagine della morte che domina nella coscienza di un uomo è strettamente legata all’immagine di sé e di uomo che prevale nella società in cui egli vive». Siamo di fronte a una visione individualistica del morire nel contesto sociale, che apre la questione della solitudine del morente. Ciò «rimanda a un complesso di significati in reciproca correlazione; può riferirsi alla consapevolezza del fatto che l’esperienza della morte non può essere condivisa con nessuno; può esprimere il sentimento che con la morte sparirà per sempre il piccolo mondo legato alla propria persona con tutte le sue memorie uniche, con tutti i suoi sentimenti, esperienze, conoscenze e sogni noti unicamente a colui che sta morendo. Può riferirsi anche alla sensazione d’essere abbandonati nella morte da tutte le persone cui si è affezionati [] Il motivo della morte in solitudine ricorre assai più frequentemente in epoca moderna che in passato».

La solitudine del morente dice Elias è legata anche a ciò che abbiamo vissuto e ciò che siamo stati nella vita, ovvero «la relazione che sussiste tra il modo in cui si vive e quello in cui si muore».

«Il modo in cui si muore dipende in non poca misura anche dalle possibilità che un individuo ha avuto di porsi, e raggiungere, delle mete durante la sua vita. Dipende da quanto una persona, in punto di morte, sente di avere trascorso una vita piena e sensata, o vuota o senza senso». In altre parole, se il morente è appagato della vita che ha vissuto, se sente che la sua vita è compiuta e ha avuto un senso, il morire stesso è più facile.

«Quando il morente sente che non riveste più alcuna importanza per le persone che lo circondano, allora è realmente solo».

Bellissimo il finale di cui sottolineo alcune parole chiave : «fine tranquilla e pacifica», «la sensazione dei morenti di non essere d’ingombro», «parlare con franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero». E infine per concludere: «L’etica dell’”homo clausus”, dell’uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita». E ci sarebbe ancora tanto da aggiungere a queste parole che parlano da sole, ma sufficienti a trarne una grande messaggio.

“La solitudine del morente” di Norbert Elias ( Il Mulino 1982)