Visualizzazione post con etichetta introspezione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta introspezione. Mostra tutti i post

27 aprile 2024

LE CAMPANE DI BICÊTRE di George Simenon

 

Come può sentirsi un uomo all’età di cinquantaquattro anni, direttore di un importante giornale parigino, nel pieno della sua attività lavorativa, sociale e affettiva, che all’improvviso si ritrova in un letto di ospedale, in un corpo che non risponde più ai comandi, costretto a una dipendenza fino allora sconosciuta, in balia di una schiera di persone che pensano, decidono e agiscono in vece sua, convinti di conoscere la sua volontà?

Ce lo spiega molto bene George Simenon in questo suo romanzo datato 1963, in cui ancora una volta ci delizia con la sua narrativa accattivante e coinvolgente, capace di sviscerare e captare il moto anche più sottile e recondito dell’animo umano, questa volta nell’autoanalisi di un uomo malato.

Renè Maugras, persona influente, giornalista affermato a livello nazionale, durante la cena con il gruppo di amici abituali (anch’essi personaggi di spessore nell’entourage parigino) viene colpito da un ictus nella toilette del ristorante. Si risveglierà in seguito in clinica, constatando l’ inevitabile realtà che non è più come prima, che non può muoversi, parlare, interagire, attaccato a una flebo di glucosio che lo alimenta al posto del suo apparato digerente. La sua mente capisce tutto e capisce anche molto bene che gli altri parlano per lui, si sostituiscono a lui, alle sue parole, pensieri, sentimenti e perfino emozioni. Chi sono per arrogarsi tale diritto? Come mai sono così sicuri di sapere quello che lui sta provando? Lo conoscono davvero tanto bene? Questi e altri interrogativi popolano il romanzo, che si muove alla continua ricerca di una spiegazione, di un senso, di una o molteplici realtà che ruotano attorno alla vita di quest’uomo.

Ecco allora che dalla forzata pausa di inattività fisica nella sua camera di degenza, germoglia un’intensa attività mentale ed emotiva, che porta Maugras a catturare anche il più piccolo dettaglio, a soffermarsi su ogni singola azione compiuta dagli altri, a prestare attenzione a quel microcosmo in cui è costretto a vivere (e che in fondo non gli dispiace), che nella sua limitatezza nasconde verità mai viste o immaginate.

Nel letto d’ospedale il suo ruolo di direttore, la sua autorità e autorevolezza, pur essendogli ancora riconosciute, cambiano tonalità, espressione, dovendosi riadattare alla nuova condizione: « (i medici) si rivolgono a lui come a un essere umano […] è anche vero che, contemporaneamente, lo trattano come un oggetto». Si perché la malattia lo ha catapultato in un’altra dimensione adesso, «lui ha superato una barriera invisibile e adesso si trova in un altro universo», un universo in cui non si sente più un soggetto con autonomia operativa e decisionale, ma un essere la cui sopravvivenza adesso dipende da altri, dai medici che si occupano della guarigione, dalle infermiere che lo vigilano e assistono nei suoi bisogni, notte e giorno.

Interessante è il suo pensiero da emiplegico, antitetico al precedente di persona sana, che poi è ciò che fa cadere in errore tutti coloro che gli stanno attorno, «che vogliono pensare al posto suo» mentre «Come potrebbe spiegar loro che lo disturbano, che lui è rassegnato, che non ha bisogno d’incoraggiamenti, che quello che gli succede doveva succedere, e che lo accetta, anzi gli dà sollievo …». Per questo anche i tentativi dell’infermiera, la signorina Blanche, di distrarlo dalla presunta angoscia non lo interessano. È soltanto una forma di inganno che lui non gradisce.

In questo romanzo, sebbene datato, emerge forte l’aspetto del rapporto medico - paziente, e quanto spesso sia difficile la componente relazionale della cura, il mettersi a fianco della persona in ascolto, per capire ciò che davvero sente, prova, vuole e questa interessante domanda retorica ne esprime appieno il senso: «Per certi medici il sogno non sarebbe la malattia senza il malato?».

«Medici e specialisti hanno una visione ristretta del problema», per questo non vedono la realtà nella totalità, non si sforzano di capire la volontà del paziente, e proprio come un oggetto, lo escludono dai loro sguardi come se quello che sta accadendo in lui non lo riguardasse.

La malattia interrompe un cammino idealizzato, cambia le regole del gioco, con l’annuncio di una diagnosi «si diventa un malato che non vedrà mai più la vita sotto la stessa luce».

Ma la malattia per Renè è anche occasione di riflessione, la maniera di rallentare, di fare chiarezza, di interessarsi agli altri «di cui sente il bisogno di raschiare via la superficie, convinto, se ci riesce, di arrivare a vedere più chiaro in se stesso».

Ecco allora l’analisi del rapporto con la moglie Lina, alla ricerca continua di sicurezze e serenità che solo l’alcool sembra concederle momentaneamente; con la figlia disabile, l’unica che sa affrontarlo da pari, capace forse di capirlo meglio di tutti gli altri; con gli amici più intimi con i quali adesso disprezza la compagnia; con il professor Besson, l’amico medico che vuole ricacciarlo in fretta nel mondo di prima; col suo collaboratore, così imbarazzato quando viene a trovarlo, da parlare ininterrottamente, per non lasciare spazi vuoti al suo silenzio.

Tutti lo spronano a collaborare, perché è forte e il ritorno alla salute di un tempo dipende da lui. Ma è davvero così scontato e ovvio che un uomo malato anche se curabile, voglia guarire in fretta? Ciò che gli altri pensano e credono giusto per lui  è verità universale e soprattutto coincide sempre con ciò che è bene per la persona? Ancora una volta volontà, desideri, tempistiche, aspettative non sono quelli del malato ma del sistema che vi gira intorno.

Un taccuino, sul quale annota ogni giorno non senza difficoltà anche solo una parola, gli sarà di aiuto in questa fase di ricerca di comprensione.

Un libro indimenticabile che metto in cima alla lista delle scritture dell’autore, forse perché parla del mio mondo professionale, della malattia, della cura e assistenza, del non facile percorso di recupero della salute, il tutto permeato da un’intensa narrativa introspettiva, capace di sciogliere nodi per permettere la ripresa dell’imprevedibile  e incredibile viaggio chiamato Vita.

Un’opportunità per tutti i lettori - grazie al personaggio di Renè divertente e stimolante che riesce nella tragicità a strapparci sempre un sorriso o una risata -, di immedesimarsi in una situazione di infermità invalidante, di avvicinarci alla malattia senza disperazione ma con lucidità, come un cambiamento (fisico, mentale, spirituale) e sicuramente come possibilità di crescita e di evoluzione.

Le campane di Bicêtre” di George Simenon ( Adelphi Edizioni 2009)

02 marzo 2024

LA MITE di Fëdor Dostoevskij

 


“La mite” fa parte delle prime opere dell’autore russo, che come ci racconta la critica, si ispirava spesso a fatti di cronaca per poi romanzarli con fantasia, riflessioni e approfondimenti. I suicidi fra le giovani donne erano assai frequenti nella Russia di fine ottocento, e pare che la storia descritta abbia avuto matrice da un fatto realmente accaduto.

Il romanzo breve di Fëdor Dostoevskij è un lungo monologo di un uomo – senza nome  – profondamente solo, stremato, deluso, umiliato dalla società degli uomini, che caduto in miseria riesce a rialzarsi, grazie a un’eredità ricevuta. Deciso a far soldi con un banco del pegno, incontrerà nel proprio negozio una fanciulla di appena sedici anni – anche lei senza nome – «esile, una biondina di media statura», in cerca di lavoro come governante.

«Compresi immediatamente che lei era buona e mite. Le persone buone e miti non resistono a lungo e, pur non aprendosi mai del tutto, è come se non fossero in grado di sottrarsi alla conversazione: rispondono quasi a monosillabi, ma rispondono, e più si va avanti, più parlano; l’unica è che non siate voi a desistere, se vi preme parlare con loro». Dapprima indifferente e arrogante verso di lei, si invaghirà, fino a farle la dichiarazione e sposarla.

La mite è una donna semplice, pensierosa, enigmatica, mansueta sì, ma intelligente.

«Del suo amore io allora ero sicuro[… ]mi amava, o meglio, per essere più precisi, desiderava amarmi». Nonostante la volontà di trovare un equilibrio, un’armonia di rapporto, la coppia non riuscirà mai a trovare un punto d’incontro, anzi per orgoglio e ostinazione di lui soprattutto, le loro strade si allontaneranno sempre più.

«Come in silenzio risponde l’uomo, Io poi sono maestro del parlar tacendo, tutta la mia vita l’ho trascorsa parlando in silenzio e sempre in silenzio sono passato, solo con me stesso, attraverso autentiche tragedie». Un silenzio determinante a creare un sempre maggior distacco, sfiducia, gelosia, disprezzo, incomprensione, sentimenti che l’autore sa descrivere in maniera magistrale.

«Ma il mio odio non potè mai maturare e consolidare nella mia anima. Io stesso d’altro canto sentivo che in qualche modo si trattava soltanto di un gioco. Neppure allora, benché io avessi sciolto il matrimonio comprando il letto e il paravento, né allora né mai, mai potei vedere in lei una colpevole».

Convinto di essere lui a condurre le regole del gioco, sarà screditato, ritrovandosi ai piedi di lei a supplicare quell’amore che non ha mai voluto manifestare.

La “mite” a dispetto del nome, si rivelerà una donna animata da una forza incredibile, ribelle, indipendente e audace: nel far la civettuola con il finanziere, quando impugna la rivoltella puntandola alla tempia del consorte, quando si fa silenziosa .... L’indifferenza, la paura di quello sguardo di «severa meraviglia», la porteranno infine ad ammalarsi fino a compiere il tragico atto. 

Già dall’inizio sappiamo che la donna  è morta, la vediamo distesa sul tavolo, composta con le braccia conserte e le mani che stringono l’icona della Madonnina  con la quale si è buttata dalla finestra, ma anche a conoscenza dell’epilogo, rimaniamo incollati alla pagina con sempre rinnovato stupore e sorpresa.

Concentrato su di sé l’uomo, per dissolvere ogni dubbio, cerca continue certezze, giustificazioni alla continua ricerca di un appiglio qualsiasi a sua discolpa, un soliloquio finalizzato solo a salvare sé stesso, a uscire indenne da un immaginario processo.

Una capacità di introspezione unica, una sensibilità che sa penetrare nell’animo umano per sviscerarne ogni aspetto, attraverso un linguaggio incomparabile, vero, emozionale.

Il messaggio è un urlo, un grido alla società, agli uomini: Amatevi, l’amore è la sola medicina efficace per sconfiggere il male della solitudine. 

Una storia, ahimè, così tremendamente moderna.

La mite di Fëdor Dostoevskij (Feltrinelli 1997 )