Visualizzazione post con etichetta morte. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta morte. Mostra tutti i post

03 febbraio 2024

STELLA MARIS di Cormac McCarthy

 

STELLA MARIS di Cormac McCarthy

«Se sei abbastanza sano di mente da sapere che sei pazzo non sei così pazzo come se pensassi di essere sano di mente».

Non è una lettura certo facile Stella Maris di Cormac McCarthy (che leggo per la prima volta incuriosita dalla storia accattivante e dalle recensioni) definito da molti un thriller esistenziale. Ultima opera dell’autore da poco scomparso, Stella Maris costituisce il prequel de Il passeggero, anche se le due storie  rimangono separate e indipendenti.

Come dicevo è stata una lettura impegnativa e ho avuto più volte la tentazione di abbandonarla soprattutto nei passaggi dove il linguaggio diventava troppo tecnicistico e di non facile comprensione per chi come me non è “addetta ai lavori”e inesperta di matematica, fisica e filosofia. Facile bloccarsi su nomi sconosciuti, su enunciati, teorie e speculazioni di cui non conoscevo neppure l’esistenza. Però mi sono fatta coraggio e ricercando e approfondendo la terminologia ignota, sono riuscita a comprendere meglio e proseguire. Inoltre mi son detta: «Non capisce neppure Michael Cohen con cui Alicia si interfaccia più volte lo psicanalista lo ribadisce dunque posso permettermelo anch’io».

Alicia Western è una ragazza di vent’anni, esperta di matematica, fisica e filosofia (indagando ho scoperto che McCarthy stesso si appassionò a questi studi preferendoli alla letteratura), intelligentissima, suona il violino in maniera eccellente, con una diagnosi dall’età di dodici anni di schizofrenia, con manie suicide, tracce di autismo e anoressia. Nelle sue allucinazioni incontra personaggi «intrattenitori» o «famigli» come li definisce il dottor Cohen, dalle forme più strane: Talidomide Kid è uno di loro, un nano che al posto delle mani possiede ali e dialoga con lei non solo a parole. Sicuramente un caso interessante per il dottor Cohen, che l’accoglie nella struttura psichiatrica Stella Maris (nella quale era già stata internata due volte) e intraprende con lei un nuovo percorso terapeutico. Sarà un’impresa anche per lui accompagnarla in questa avventura, perché Alicia ha davvero una mente potente, acuta e arguta, poliedrica, analitica e universale, che afferma tutto e l’istante dopo lo nega, con una strabiliante cultura e proprietà di linguaggio unite alla capacità manipolatrice con cui riesce bene a deviare il percorso che il terapeuta cerca di tracciare con lei. «Lei pensa che a volte non ascolto. Penso che ascolta. Non son sicura di che cosa sente» già in questo botta e risposta si capisce già molto del suo carattere. Oppure «Sopporto male la gente che vuole aggiustarmi».

Alicia è un personaggio memorabile, con la sua storia di bimba difficile e mente geniale perciò isolata dal resto del mondo; per il rapporto conflittuale con la madre (morta quando era piccola) e il padre troppo indaffarato in questioni mondiali; per l’amore incestuoso col fratello Bobby maggiore di lei sette anni (protagonista de Il passeggero); per la relazione con la nonna, l’unica persona che la cresce e si preoccupa di lei finchè Alicia non se ne andrà in giro per il mondo. Sullo sfondo della storia si muove la Storia, quella legata al Progetto Manhattan, con la realizzazione delle prime bombe atomiche in cui il padre di Alicia, come fisico aveva preso parte. Tutto ciò lo apprendiamo attraverso il dialogo tra la ragazza e il dottor Cohen in cui emerge anche tutto il pessimismo «La mia ipotesi è che si possa essere felici fino a un certo punto. Mentre il dolore non sembra avere fondo», il suo vissuto emotivo e il tormento dell’anima, nelle lunghe riflessioni su sé stessa in relazione al mondo, combattuta e pervasa dal dubbio, dall’incertezza della realtà dell’esistere.

Proprio questi passaggi, in cui si avverte tutta la tensione e vivacità del suo mondo interiore, sono quelli che più mi hanno ancorato al libro. Come quando parla della malattia mentale: «La malattia mentale è una malattia […] è una malattia associata a un organo che per la conoscenza che ne abbiamo potrebbe anche appartenere ai marziani. È probabile che il comportamento deviante sia un mantra. Nasconde più di quanto svela. Fra i tanti problemi che il terapeuta deve affrontare c’è che il paziente potrebbe desiderare di non essere curato». C’è in questa frase, che sembrerebbe dello psichiatra ma che invece è di Alicia, un’ iniziale e interessante tematica che affronta il problema etico delle scelte di cura e il diritto del paziente alla sua autodeterminazione nel rispetto della sua volontà e libertà.

Ma anche il tema della morte è affrontato dalla protagonista in maniera molto lucida e attendibile: «Contemplare l’idea della morte dovrebbe avere un certo valore filosofico. Addirittura palliativo. Banale dirlo, ma il modo migliore per morire bene è vivere bene».

E ancora: «Non penso che ci siano modi per prepararsi alla morte. Bisogna inventarsene uno. Non c’è nessun vantaggio evolutivo nell’essere bravi a morire. Per trasmetterlo a chi? La cosa con cui stai facendo i conti – il tempo – non è malleabile. Salvo per il fatto che più lo covi meno ne hai». Pillole isolate davvero piene di saggezza.

Il ritmo è serrato, di un’intensità mantenuta ed esasperante, tanto da richiedere pause per una sigaretta o una tazza di tè,.che lo stesso terapeuta propone e che Alicia accetta volentieri.

Dal punto di vista stilistico è davvero notevole. L’autore riesce a condurre un intero romanzo - che si articola per circa duecento pagine - senza l’ausilio di nessun altra forma narrativa se non quella del dialogo, come già altri scrittori avevano fatto prima di lui ( mi viene in mente il coetaneo Philip Roth nel romanzo “Inganno”). Non è una scelta facile, sia per lo scrittore, che deve caratterizzare i personaggi proprio su ciò che fa dir loro, dal quale deve trasparire tutto il non verbale, la tonalità della voce, l’ atteggiamento, la gestualità, l’espressione facciale, la mimica, la postura che per il lettore il quale attraverso l’alternanza del dialogo (non sempre simmetrica) deve capire chi sta parlando ed entrare nel personaggio giusto, “immaginando” tutto il resto, i segnali che lo identificano, ricostruendo ogni elemento che l’autore non dice ma che esiste, (le dimensioni della stanza, le pareti bianche adornate da quadri o poster, l’illuminazione artificiale o naturale di una finestra, gli abiti di Alicia e del dottor Cohen, il bollitore del tè in un angolo). Una strategia davvero interessante.

Concludo ritenendolo un libro difficile ma d’effetto, per la capacità dell’autore di trascinare e coinvolgere anche noi lettori nel vortice di questa lucida follia, dove genialità e pazzia sembrano andare a braccetto separate da una sottile e fragile linea. Insieme allo psichiatra ci perdiamo nelle lunghe disquisizioni di Alicia, ci incantiamo, sprofondiamo con lei e ritorniamo in superficie, grazie anche, e per fortuna, alla semplicità di un gesto, come quello di una carezza, o tenersi la mano «perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa».

“Stella Maris” di Cormac McCarthy (Einaudi 2022)


29 gennaio 2024

ESSERE MORTALE Come scegliere la propria vita fino in fondo di Atul Gawande

 

«Per gli esseri umani la vita ha un senso perché è una storia […] E nelle storie il finale conta».

La vita di un essere umano è la biografia della grande biblioteca dell’Umanità, ognuno ha la sua storia, dettata dalle proprie origini, dalle vicende che l’hanno determinata sulla base delle proprie  scelte (o non scelte) desideri, volontà… e ogni capitolo ha il suo valore, non per ultimo quello del fine vita, momento conclusivo e proprio per questo, di straordinaria importanza. Perché sminuirlo e non considerarlo in tutta la sua valenza e rilevanza?

Atul Gawande, medico chirurgo statunitense, ci porta a riflettere su questo momento fondamentale della vita, che dobbiamo rendere interessante e significativo (per chi se ne va ma anche per chi resta) e non demonizzarlo come invece accade.

Molte le tematiche affrontate che provo a riassumere nei capitoli dedicati.

Indipendenza. Indipendenza è una parola che spesso troviamo contrapposta al problema della “vecchiaia”, fase della vita di un individuo in cui si assiste a un decadimento fisico e cognitivo più o meno lento. Lo sviluppo tecnologico, scientifico, informatico e medico ha determinato un progresso tale da portare la popolazione a vivere più a lungo, a invecchiare, condizione che non sussisteva nei secoli passati quando l’età media era intorno ai cinquant’anni. Ovviamente con l’aumento dell’età sono aumentate le patologie croniche che la medicina controlla con la terapie, ma che possono creare disabilità e disagi tali da minare spesso l’indipendenza delle persone. Questa è la grande piaga del nostro secolo, la cura e l’assistenza di un’ ampia fascia di popolazione che non è più autosufficiente e ha bisogno di assistenza e cura continua spesso da parte di personale competente. Con la scomparsa della famiglia patriarcale, l’anziano è diventato sempre più una questione sociale, di indirizzo medico assistenziale e sempre meno familiare. I figli stessi sono già in età avanzata nel gestire il proprio genitore, non vivono con lui, e quando questi perde la propria autonomia, il problema emerge improvviso e devastante. Oggi le soluzioni (almeno nella nostra realtà italo-europee) sono le badanti o istituzioni quali RSA, case di riposo, istituti che permettono la gestione quotidiana di una persona non più autosufficiente da parte di personale qualificato. 

Tutto si disfa. Atul Gawande ci mostra la vita di un individuo come una traiettoria sulla linea delle ascisse, che la medicina e la sanità pubblica contemporanea hanno cambiato radicalmente, come dicevo innanzi. Nei traumi, malattie a esito infausto (come un infarto cardiaco, emorragia cerebrale massiva,ecc…) la traiettoria ha un andamento costante e soddisfacente per qualità della vita fino all’improvvisa caduta determinata dalla morte. Grazie alla Medicina e Chirurgia, la traiettoria può essere modulata variando così a seconda delle patologie. Nelle malattie tumorali l’andamento è costante e soddisfacente fino a un declino più o meno lento nella fase finale della vita. Nella malattie croniche invece si assiste a un andamento costantemente in discesa con cadute improvvise (crisi e scompensi ) subito gestiti dalla medicina che riportano la persona a un livello sempre inferiore rispetto a quello prima dell’evento scatenante. Nell’invecchiamento fisiologico invece la traiettoria è una linea che scende in maniera graduale verso il basso, fino all’esito finale. L’autore ci fa notare che vivere così a lungo come viviamo oggi rappresenta un fenomeno assai innaturale, in quanto la morte di vecchiaia in passato era cosa rara. Perché si invecchia allora? Sembra che la genetica sia solo un frammento nella spiegazione del quesito. Sembriamo progettati per funzionare a tutti i costi, e ce lo dimostra il fatto che abbiamo due occhi, due reni, due orecchie, due braccia… nel caso uno dei due venga a mancare. Illuminante questa considerazione pur così semplice, nel giustificare il dualismo del nostro corpo.

Ci sono alcune specializzazioni più attraenti per la carriera di un medico (la chirurgia plastica, la radiologia, per es…) rispetto ad altre come la geriatria (e io aggiungo le cure palliative) che deprivano di una qualità importante della professione ovvero la possibilità di garantire la speranza di vita a lungo termine. Molti medici lavorano poco volentieri con gli anziani. Ovvio, mi viene da pensare, non è un settore della medicina che dà soddisfazione e speranza, dal momento che dovremmo affrontare problemi sconvenienti come l’accettazione dell’ inevitabile declino del corpo e quello del fine vita, perché come asserisce A.G «il sogno di tutti è vincere il tempo, l’ingrato compito del geriatra è farci accettare che non ne siamo capaci».

Il problema fondamentale nella presa in carico dell’anziano è che non si può prendere in considerazione solo ed esclusivamente le patologie croniche (l’insufficienza renale, cardiaca, respiratori il diabete, ecc…) ma tutta la persona nella sua interezza e globalità, in una visione individuale  e soggettiva (ciò che è bene per quella persona), familiare e sociale. I medici non geriatri spesso non riescono a fare questa considerazione, forse per cultura, per mancanza di strumenti e di risorse, per abitudine… indirizzandosi più sulla cura del sintomo e cercando la soluzione per quello. E da qui nascono tutti i problemi.

Dipendenza. Non è la morte che le persone molte anziane mi dicono di temere. È quel che la precede: perdere l’udito, la memoria, gli amici più cari, le  abitudini di vita».

Negli Stati Uniti negli anni Cinquanta le case di carità per l’assistenza agli anziani indigenti e malati chiusero determinando un grosso problema sanitario e sociale. Ovviamente il tutto non poteva risolversi da parte dell’ospedale, luogo destinato alla cura di eventi acuti e non alla gestione delle patologie croniche. Cominciò così a delinearsi, una nuova concezione di luogo di assistenza per la persona anziana con patologie croniche: la moderna casa di riposo, nursing home nata più dalla necessità di liberare posti letto dall’ospedale che per risolvere i problemi legati alla terza età. Le nursing homes fiorirono come alberi in primavera arrivando a un numero di tredicimila nel 1970 - documenta l’autore - col supporto anche di Medicaid, il sistema di previdenza sociale americano. L’evoluzione c’è stata anche sulla base di iniziative private che hanno cercato di ricreare case comunitarie in cui l’anziano potesse giovarsi dell’assistenza necessaria e al contempo vivere la parte conclusiva della propria vita sentendosi a casa propria.

Il problema di un luogo di cura e assistenza nella terza età non riguarda solo la realtà statunitense, ma anche la nostra. Le case di riposo purtroppo rimangono spesso istituzioni non centrate sulla persona ma su problematiche di carattere sociale, gestionale, pratico, l’alternativa quando non ci sono altre soluzioni.

Assistenza. Cos’è la vecchiaia? Una serie di definizioni interessanti ce le fornisce l’autore avvalendosi di alcune teorie «Secondo alcuni è un mutamento che riflette la saggezza acquisita con una lunga esperienza di vita. Altri ritengono che si tratti del risultato cognitivo di cambiamenti dei tessuti cerebrali legati all’età. Altri ancora sostengono che il cambiamento di comportamento sia imposto agli anziani e non rifletta ciò che nel profondo del cuore essi vogliono veramente. I vecchi restringono le loro mire perché le limitazioni imposte dal declino fisico e cognitivo non consentono loro di perseguire gli obiettivi di un tempo, oppure perché il mondo glielo impedisce per l’unica ragione che sono vecchi. A quel punto invece di lottare si adattano, o per dirla in modo più triste si arrendono». E l’arrendevolezza aggiungo io coincide purtroppo con la perdita dell’autosufficienza nel paziente fragile (oppure è questa che la determina) , che non può più farsi le proprie ragioni perché dipende da qualcun altro. E questa è la tomba della persona, alienata nei propri desideri. Ma quali sono i desideri dell’anziano fragile? È una domanda che dobbiamo sempre porci. Studi dimostrano che le persone che risiedono nelle RSA come desiderio primario esprimono la condizione di sentirsi a casa. Perché come dice A.G «La casa è l’unico posto dove le proprie priorità regnano sovrane. A casa tua, decidi tu come spendere il tuo tempo, come ripartire il tuo spazio, come gestire i tuoi beni personali». Mentre purtroppo le case di assistenza non mettono al centro i bisogni e i desideri della persona (alzarsi alla propria ora, mangiare quando si ha fame, guardare alla tv ciò che si preferisce, circondarsi di persone significative …) in quanto tutto ruota attorno a una organizzazione standard che possa nella maniera più redditizia ottimizzare l’assistenza, garantire sicurezza e soddisfazione dei bisogni primari appunto.

Interessante la carrellata di esperienze innovative di case comunità che l’autore ci racconta, con l’obiettivo di realizzare proprio questa possibilità. Esperienze che hanno più o meno funzionato, anche se «non esistono metodi validi per valutare il successo di una struttura residenziale nell’aiutare i residenti a vivere. Mentre in materia di salute e sicurezza, invece, disponiamo di criteri molto precisi».E aggiunge in battuta finale: «è cosi che vanno le cose […] i nostri vecchi non si ritrovano che con questo: un’esistenza istituzionale, sotto controllo e sotto tutela, una risposta medica a problemi medicalmente irrisolvibili, una vita pensata per essere sicura, ma priva di interesse».

Una vita migliore. Riportandoci l’esperienza di Bill Thomas, medico e direttore di una casa di riposo, riferisce quelle che «chiamava le “tre piaghe” della vita in casa di riposo: la noia, la solitudine, l’impotenza». Perciò introdusse cani, gatti, uccellini, un giardino con piante di cui i residenti potessero prendersi cura, offrendo loro una ragione di vita.

Quale dovrebbe essere l’ obiettivo delle residenze sanitarie assistite, delle case per anziani, di riposo o comunque le vogliamo chiamare? Aiutare le persone autosufficienti e non autosufficienti, nella soddisfazione dei bisogni primari, preservando dignità e valore della vita. Cosa occorre? Luoghi ridimensionati, più intimi, dove esista la privacy, pur garantendo protezione e sicurezza. Non mancano nella narrazione molti esempi di esperienze americane in cui sono stati raggiunti risultati simili: l’autonomia, la sicurezza nel rispetto della propria libertà di azione, la dignità, l’orgoglio di vivere in coerenza con le proprie ideologie. Perché è questo che l’anziano vuole, e che vorremo anche noi quando lo saremo, «continuare a scrivere la nostra storia […] mantenere la libertà di plasmare la nostra vita in modo coerente con la nostra personalità e con ciò in cui crediamo».

«La lotta dell’essere mortale è la lotta per mantenere l’integrità della propria vita: è la battaglia per evitare di finire così degradati, prostrati, o sottomessi da non aver più un legame con ciò che siamo stati o con ciò che vogliamo essere».

Lasciare andare. «Dobbiamo porre un freno agli imperativi di tipo prettamente medico e resistere al nostro bisogno di armeggiare, riparare, controllare». Una frase forte che in poche parole dice tutto. Non è facile in una cultura in cui dobbiamo sempre vincere, fare i conti con la morte che rappresenta la sconfitta. Ecco perché è più facile agire, accanirsi, che lasciare andare e far sì che la vita segua il corso naturale degli eventi. Siamo impreparati, ignoranti, non conosciamo le modalità di accompagnamento alla morte. In passato esistevano manuali popolari, come la versione medievale sull’ “ars moriendi” pubblicato in latino dove «la gente credeva che la morte dovesse essere affrontata stoicamente, senza paura né autocommiserazione, e senza altra speranza se non quella riposta nella misericordia di Dio». Oggi esiste «L’hospice, che ha tentato di proporre un nuovo ideale di modo di morire. Non tutti hanno accettato i suoi rituali, ma coloro che lo hanno fatto stanno contribuendo alla composizione negoziata di un’“ars moriendi” della nostra era. In questo negoziato, tuttavia, trova anche espressione una battaglia: non solo contro la sofferenza ma anche contro lo slancio apparentemente inarrestabile del trattamento medico». La scelta dell’hospice non accelera il processo del morire, anzi, come dimostrano alcuni studi «Si vive più a lungo solo quando si smette di cercare di vivere più a lungo».

È più difficile parlare chiaramente al paziente della prognosi infausta, dirgli la verità. Non siamo preparati culturalmente e spesso non lo è neppure lui. È più facile continuare a infondere speranza, a illuderlo con la possibilità di nuove terapie. «I medici appaiono particolarmente attenti a non frustrare le aspettative dei malati. Hanno molta più paura di peccare per pessimismo che per ottimismo». Per questo è fondamentale la Pianificazione delle cure in cui insieme alla persona, il medico, l’equipe, comincia un percorso di cura che non sarà finalizzato alla guarigione, alla cura del sintomo della malattia (cure attive), ma all’alleggerimento della sofferenza creata dalla malattia (cure palliative), ai fini di una migliore qualità di vita della persona stessa e dei familiari. Un processo che richiede tempo e che si avvale della comunicazione come strumento base, per ascoltare, fornire indicazioni e conoscenze, accogliere e stabilire insieme alla persona e ai familiari il piano di cura.

«Le persone gravemente ammalate hanno altre preoccupazioni oltre al semplice prolungamento della loro vita […] vogliono evitare di soffrire, stare a più stretto contatto con familiari e amici, mantenere la lucidità mentale, non essere di peso agli altri e riuscire a dare un senso di completezza alla propria esistenza. Il nostro sistema di assistenza sanitaria tecnologica si è dimostrato clamorosamente incapace di soddisfare queste esigenze». La tecnologia purtroppo può andare avanti nel mantenere vitali gli organi, superando la soglia della volontà e dignità della persona e questo è ciò che dobbiamo assolutamente non permettere.

Conversazioni difficili. Le conversazioni difficili sono quelle che scavano dentro l’intimità della persona, sono quelle che portano a scelte sensate, a prese di coscienza e decisione, sono le conversazioni che permettono alla persona di ricevere le giuste informazioni sulla propria condizione di salute, di metabolizzarla con l’aiuto dell’interlocutore, nel rispetto della propria libertà e dignità.

Siamo passati dalla relazione “paternalistica” del passato (in cui il medico sapeva cosa era bene per il paziente e decideva) a una relazione di tipo “informativo” in cui al paziente vengono forniti dati e cifre (il medico è il tecnico esperto, il paziente il cliente e sta a lui la decisione). Ezekile e Linda Emanuel, due studiosi di etica, hanno ravvisato «un terzo tipo di relazione che hanno definito “Interpretativa” in cui il ruolo del dottore è aiutare i pazienti a stabilire ciò che vogliono […] Gli esperti l’hanno chiamato processo decisionale condiviso».

Atul Gawande spiega l’efficacia di questo terzo tipo di relazione raccontandoci l’esperienza personale con il fine vita del padre, affetto da una forma tumorale cervicale.

La vita ci impone spesso cambiamenti repentini che dobbiamo fare propri, ridefinendo noi stessi, ovvero riadattandoci, creando nuove identità al fine di ricollocarsi nella vita con uno scopo, una ragione. «È questo che si intende per avere autonomia: può succedere di non poter controllare le circostanze della vita, ma riuscire a essere l’autore della propria vita significa poter controllare quel che si fa con le circostanze che ci vengono date».

Le conversazioni difficili sono quelle che scoprono la pentola con dentro i fantasmi, le pene, le angosce più intime, quelle legate alla malattia infausta e alle conseguenze terribili che portano dolore e atroci sofferenze. Rendere possibile, creare l’opportunità di una conversazione difficile può anche allungare la vita oltre a renderla migliore.

Coraggio.  «Il coraggio è la forza di fronte alla conoscenza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare». Il coraggio durante la malattia o la vecchiaia è voler sapere la verità su ciò che si teme o si spera, e il coraggio di affrontare la realtà della mortalità. Ma, dice Atul Gawande «la vera sfida è decidere se a dover prevalere sono le proprie paure o le proprie speranze».

 Studi sul dolore dimostrano che è il picco-fine del dolore e non la durata del dolore a esprimere l’intensità di sofferenza data dalla memoria. «Per gli esseri umani la vita ha un senso perché è una storia. Una storia ha un senso d’insieme, e la sua traiettoria è determinata da momenti significativi, che sono quelli in cui succede qualcosa […] questo funzionamento è profondamente influenzato da come le cose vanno a finire […] e nelle storie il finale conta»

Il coraggio potrebbe essere l’equilibrio tra il controllo e l’impotenza.

«La vita assistita è molto più difficile della morte assistita, ma ha anche potenzialità straordinariamente più grandi».

E concludo con questa bellissima frase:

«La società tecnologica ha dimenticato quello che gli studiosi chiamano il ruolo del morente” e quanta importanza esso abbia per le persone che vedono approssimarsi al fine. Le persone vogliono condividere i ricordi, trasmettere saggezze e oggetti personali, definire le relazioni, fare pace con Dio e assicurarsi che chi resta non abbia problemi. Vogliono concludere la loro storia a modo loro. e se questo è vero, il modo in cui, per ottusità e incuria, stiamo negando alle persone la possibilità di ricoprirlo, dovrebbe essere per noi motivo di eterna vergogna».

E infine:

«Essere mortale significa anche sforzarsi di sopportare i vincoli della nostra biologia, ovvero i limiti imposti da geni, cellule, carne e ossa».

“ESSERE MORTALE-Come scegliere la propria vita fino in fondo” di Atul Gawande (Einaudi 2014)

08 gennaio 2024

LA SOLITUDINE DEL MORENTE di Norbert Elias

 


Norbert Elias è un sociologo tedesco di origine ebraica (1897-1990) che in queste poche pagine condensa il proprio pensiero sul vivere la morte, l’evento finale che più terrorizza l’essere umano, inserito nel contesto sociale attuale (riferito al 1982, anno di pubblicazione) e attraverso i secoli, avvalendosi anche delle teorie di altri sociologi e filosofi (quali Aries, Freud, Weber, ecc…). Scritto all’età di novanta anni, rispecchia la visione della morte dell’autore con serenità e accoglienza.

Molte le citazioni da rilevare e commentare, troppe per riportarle tutte – che comunque provo a estrapolare perché degne di nota e riflessione – fondamentali per capire come la morte sia un argomento tabù agli occhi del mondo odierno.

Le modalità – dice Elias – di affrontare la morte sono molteplici. Si può mitologizzarla (e questo è tipico dell’antichità – ma anche dei nostri giorni  – in cui si ipotizzava una vita nell’aldilà in cui tutto aveva un seguito); si può allontanarla, credendo e sentendosi immortali, ciò che avviene più frequentemente ai nostri tempi; possiamo guardarla dritta in faccia, comprenderla, riconoscerla come una fase inevitabile della vita e affrontarla oggettivamente per quello che è.

Nella nostra società contemporanea, ciò che ci riguarda non è solo il problema del morire, ma il fatto che la questione è spesso legata all’invecchiamento della popolazione che a sua volta si lega alla cronicità delle patologie.

Elias sostiene che «è necessario che la morte sia demitizzata il più possibile [] l’umanità è una comunità di mortali e gli uomini nel loro bisogno possono aspettarsi aiuto solo da altri uomini [] la morte è un problema che riguarda i vivi; i morti non hanno problemi».

Interessante ciò che afferma sulla coscienza della morte negli esseri viventi: «Tra gli esseri che muoiono, gli uomini sono le creature per le quali la morte costituisce un problema», infatti gli animali non hanno paura e angoscia della morte a differenza degli uomini. «Non è la morte ma la coscienza a costituire un problema per gli uomini». Questa è una considerazione davvero interessante.

L’approccio alla morte cambia nei secoli e nelle diverse società. In passato l’uomo aveva un’aspettativa di vita inferiore (a quarant’anni era già vecchio). Oggi un uomo a settant’anni può essere ancora attivo e in forze. L’età biologica e anagrafica non sempre coincidono e questo determina anche un atteggiamento verso il fine vita più ottimistico e lungimirante, allontanando sempre di più il momento dell’evento nefasto. Da ciò ne deriva anche un eccessivo attaccamento alla vita, e una tendenza a rimuovere il pensiero della morte sia a livello individuale che a livello collettivo, perché turba il benessere a cui aspiriamo. La morte così viene scacciata dal nostro pensiero, relegata in uno spazio a sé, separato dal contesto comunitario, lo stesso in cui si viene a trovare invece la persona morente.

Un tempo la morte era vissuta in ambito familiare – da qui il nome di morte addomesticata – che insieme alla nascita, rappresentavano eventi comunitari, mentre oggi vengono vissuti in maniera più privata, dice Elias. Oggi «obbedendo all’oscura sensazione che i bambini possano esserne danneggiati, nascondiamo loro gli eventi naturali della vita, che dovranno in seguito inevitabilmente conoscere e capire» ma «sarebbe salutare che essi familiarizzassero con l’evento naturale della morte», come accadeva un tempo. Oggi si prova imbarazzo di fronte al morente, perché non siamo preparati culturalmente, allontanandone in ogni occasione l’argomento. E quando gli uomini sono costretti al capezzale dei moribondi «non sono più in grado di confortarli con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza». È di primaria importanza invece la vicinanza alla persona morente, il suo aspetto emotivo, la sensazione di sentirsi ancora amata unita alla consapevolezza di rappresentare un valore per i propri cari. Ciò che manca, aggiungo io, è proprio l’abitudine a stare accanto alle persone che soffrono, che muoiono. Disagio che si protrae anche dopo la morte della persona cara, nel delegare a personale specializzato la preparazione della salma. Anche il cimitero, la città dei morti, è una sorta di isola, un luogo circoscritto, distanziato dal resto del contesto civile caotico e vitale, dove invece il silenzio, la solennità e sacralità  confermano ancora questa separazione.

Così «per quanto riguarda la morte, la tendenza all’occultamento, al suo isolamento, in una sfera speciale, non è certo inferiore ma anzi superiore rispetto al secolo scorso». Ciò che fa paura è che «non è la morte a ispirare terrore, ma la rappresentazione anticipata della morte». E questo lo traduco come la consapevolezza e la coscienza della possibilità e probabilità imminente del morire, da cui deriva la paura.

Tenendo conto dell’aumento della durata della vita «bisogna tenere presente la rappresentazione della morte come momento conclusivo di un processo naturale che si è allungato grazie ai progressi della medicina e dell’igiene». Per questo l’uomo, abbagliato anche da questa chimera, cerca di allontanarla il più possibile.

Altra caratteristica che determina un particolare atteggiamento verso la morte è legata al fatto che viviamo in società e culture pacifiste e che la probabilità di morire ammazzati, per guerre e battaglie è pressoché rara. Diversa è quindi la concezione in paesi dove c’è guerra e la morte è sempre imminente e presente. Oggi, aggiungerei, nelle nostre realtà europee e pacifiste, le paure sono altre e diverse: gli incidenti stradali e legati ai trasporti, le sciagure atmosferiche e le catastrofi climatiche, omicidi e più ancora i femminicidi che negli ultimi anni raggiungono cifre impressionanti.

Elias afferma che l’immagine della morte che domina nella coscienza di un uomo è strettamente legata all’immagine di sé e di uomo che prevale nella società in cui egli vive». Siamo di fronte a una visione individualistica del morire nel contesto sociale, che apre la questione della solitudine del morente. Ciò «rimanda a un complesso di significati in reciproca correlazione; può riferirsi alla consapevolezza del fatto che l’esperienza della morte non può essere condivisa con nessuno; può esprimere il sentimento che con la morte sparirà per sempre il piccolo mondo legato alla propria persona con tutte le sue memorie uniche, con tutti i suoi sentimenti, esperienze, conoscenze e sogni noti unicamente a colui che sta morendo. Può riferirsi anche alla sensazione d’essere abbandonati nella morte da tutte le persone cui si è affezionati [] Il motivo della morte in solitudine ricorre assai più frequentemente in epoca moderna che in passato».

La solitudine del morente dice Elias è legata anche a ciò che abbiamo vissuto e ciò che siamo stati nella vita, ovvero «la relazione che sussiste tra il modo in cui si vive e quello in cui si muore».

«Il modo in cui si muore dipende in non poca misura anche dalle possibilità che un individuo ha avuto di porsi, e raggiungere, delle mete durante la sua vita. Dipende da quanto una persona, in punto di morte, sente di avere trascorso una vita piena e sensata, o vuota o senza senso». In altre parole, se il morente è appagato della vita che ha vissuto, se sente che la sua vita è compiuta e ha avuto un senso, il morire stesso è più facile.

«Quando il morente sente che non riveste più alcuna importanza per le persone che lo circondano, allora è realmente solo».

Bellissimo il finale di cui sottolineo alcune parole chiave : «fine tranquilla e pacifica», «la sensazione dei morenti di non essere d’ingombro», «parlare con franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero». E infine per concludere: «L’etica dell’”homo clausus”, dell’uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita». E ci sarebbe ancora tanto da aggiungere a queste parole che parlano da sole, ma sufficienti a trarne una grande messaggio.

“La solitudine del morente” di Norbert Elias ( Il Mulino 1982)

28 dicembre 2021

CAMBIARE L'ACQUA AI FIORI di Valerie Perrin

 



Seconda opera di Valerie Perrin, che ha pubblicato proprio quest’ anno il terzo romanzo intitolato appunto “Tre”.

Questo libro è davvero delizioso. Non ci si può non affezionare a Violette, donna all’apparenza grigia e spenta, ma che nasconde sotto il cappotto scuro che indossa, i colori dell’estate. Porto l’estate sotto l’inverno dice di sé stessa. Ricorda molto la portinaia dell’Eleganza del riccio di Muriel Barbery, che sotto l’apparenza scialba della donna comune, cela cultura, conoscenza e saggezza.

Violette è una guardiana di un cimitero in un paesino della Borgogna. Orfana, non ha mai conosciuto l’affetto sincero di una madre e di un padre, ma solo quello senza calore,  di famiglie affidatarie. Si innamora di Philippe, uomo bello più che amorevole, che diverrà suo marito e padre della figlia Leonine.

La storia è un susseguirsi continuo di fatti,  accadimenti che si affiancano alla vicenda principale creando storie parallele complesse e dettagliate che incalzano e impediscono al lettore di distrarsi; salti temporali, flashback che l’autrice sa abilmente destreggiare, ora nel rievocare un periodo antecedente, ora balzando nel futuro per far ritorno con maestria nel presente. Anche i luoghi cambiano in continuazione, ma è impossibile perdersi, grazie alle capacità tecniche, descrittive, precise e comprensibili della scrittrice che sa muoversi nel tempo e  nello spazio con abilità e chiarezza. Non mancano colpi di scena, personaggi capaci di cambiare il corso degli eventi, dando il via a una cascata di nuove e imprevedibili situazioni. Forse tante sottotrame poteva anche risparmiarsele –  la storia di Irene Fayolle e di Gabriel, le vite parallele di personaggi come G.Magnan, Fontanel ecc..,  i rapporti con la famiglia Pelletier… - a parer mio le figure di Violette, Philippe, Leonine, Sasha, Celia, Julien sarebbero bastate a creare quella magia che pervade in tutto il libro e che lo rendono un piccolo capolavoro.  

Potrebbe sembrare di primo acchito, un romanzo triste in quanto è la Morte a  dominare la scena, in realtà c’è molta più Vita di quanto si creda, come se fosse proprio la morte a stimolare la vita, ad accenderla.

 

Amore, passione, amicizia, solidarietà attraversano il romanzo, insieme al dolore, alla sofferenza, alla solitudine, al ricordo, alla perdita

Una storia che parla di rinascita, un inno alla vita in ogni sua forma, soprattutto in quella della semplicità. Cadere e sapere rialzarsi, saper riconoscere le proprie debolezze, assecondarle e una volta maturate, riuscire a trascenderle, tornare a cambiare l’acqua ai fiori, ritrovare la luce nel buio della disperazione perché il buio non è mai totale, alla fine del cammino c’è sempre una finestra aperta, andare avanti grazie all’amore, all’affetto e alla cura: amore per il giovane che Violette scopre al di là del bancone del bar, ma anche per quel poliziotto che porta le ceneri della madre da seppellire nel cimitero; affetto per quell’uomo più vecchio di lei che le insegna a prendersi cura di sé stessa e per quella donna, la prima amica della sua vita alla quale ha offerto un letto per trascorrere la notte; cura nel far crescere le piantine dell’orto e nell’occuparsi delle tombe con i suoi morti, ognuno con la propria storia. È l’amore, la passione e la cura che impediscono all’uomo di morire davvero e di vivere per l’eternità.

Un libro appassionante, coinvolgente, divertente e intrigante, ricco di tutti i giusti ingredienti per un film di sicuro successo.

 

A.C.

Cambiare l’acqua ai fiori di Valerie Perrin (ed. e/o)