17 dicembre 2023

LA TRAIETTORIA DELLA MOSCA di Mirko Tondi

 

La narrativa di Mirko Tondi, scrittore del panorama contemporaneo, non delude mai, è sempre una garanzia, per la sue capacità narrative, stilistiche, tecniche che toccano tematiche estremamente attuali, come – nello specifico – il bullismo, le difficoltà adolescenziali e sociali, le dipendenze, la violenza, la camorra…

Anche se è difficile classificare la sua scrittura in un genere, questo libro – se proprio vogliamo inserirlo in una categoria – lo si può definire noir, perché esiste un caso “oscuro”, grottesco, che conduce la storia e impegna il lettore nella sua rivelazione.

Il protagonista (non è citato il nome) è un insegnante di sostegno che lavora in una classe maschile di “ragazzi problematici” e che tra le tante complessità si trova coinvolto nella scomparsa di un alunno, Riccio, verso il quale riconosce una particolare affezione. Contrariamente alla sua razionalità e al buon senso, allontanandosi anche dagli affetti familiari, si trova immischiato in un’avventura più grande di lui, dove tornare indietro è pressoché impossibile. Ecco allora che la trama si dipana, in maniera magistrale creando rapidi colpi di scena e momenti di suspence che incitano il lettore a proseguire senza sosta, seguendo la traiettoria man mano tracciata dall’autore che come una mosca si ferma ora su un dettaglio  ora su un altro, richiamandolo continuamente alla concentrazione per non tralasciare ogni minimo indizio. Il professore non interroga gli alunni ma interroga costantemente se stesso non tanto alla ricerca di una verità specifica ma di una verità più grande, universale, quella che ci riguarda tutti, alimentata dal dubbio, dall’incertezza: «C’è da chiedersi su quali imprevedibili strade operi il destino che tanto invochiamo, sempre ammesso che di destino si tratti; o forse siamo noi che ogni tanto giochiamo a sfidare la vita, per provare a rimescolare le carte e sentire il brivido del rischio […] C’è questo filo rosso che unisce il passato al presente, e verrebbe da pensare ancora al caso, al destino o a Dio, non so bene, comunque qualche entità al di sopra di me che ha programmato tutto per farmi essere qui in questo momento».

Una letteratura che non si ferma mai all’apparenza, ma che scava, dubita, si interroga su motivazioni e soluzioni, penetrando nell’animo dei personaggi (grazie anche alle sue competenze professionali) restituendoceli a tutto spessore, analizzati nei pregi e difetti, vizi e virtù, bontà e malvagità, nella loro interezza umana collocata in un contesto realistico.

Mirko Tondi sa “governare” bene la trama, impartire la giusta cadenza alle battute narrative, dialogiche, descrittive e riflessive, sempre alla ricerca della parola perfetta, quella e soltanto quella, e il risultato è evidente. Nello stile dell’autore è anche il ricco panorama culturale che non esita a suggerire riferimenti letterari, cinematografici, musicali che valorizzano ulteriormente il testo, creando stimoli ulteriori per il lettore curioso e ricettivo.

Consigliato, sempre una garanzia. 

“La traiettoria della mosca” di Mirko Tondi ( ed.Il filo rosso)


12 dicembre 2023

FRANCESCO ANTONINI La vita e le intuizioni di un geriatra di Giovanna Ferretti

 

Un saggio, questo libriccino dell’autrice Giovanna Ferretti, segretaria per molti anni  di Francesco Antonini illustre professore, docente alla Cattedra di Gerontologia e Geriatria – la prima al mondo  – istituita presso l’Ateneo forentino nel 1962. Qui il Professore tenne per molti anni lezioni informali, che spaziavano dalla Medicina, alla riabilitazione e cinematografia sull’età avanzata, dalle cure palliative  al fine vita, un insegnamento dalla visione empirica, totalizzante che poneva l’attenzione sull’anziano in ogni suo aspetto, emotivo, psicologico, affettivo, culturale, sociale e non solo sulla malattia.  Molti dei suoi allievi (coi quali aveva rapporti che andavano oltre le mura universitarie), lo ricordano ancora con affetto, stima e orgoglio, consapevoli di aver avuto in lui un’ottima guida, un vero Maestro.

Così lo ricorda Pietro Valdina (medico-geriatra): «Antonini non è stato soltanto un grande clinico medico, ma un innovatore, un educatore, un trascinatore, un vulcano pieno di idee, una figura carismatica ricca di fascino personale, di cultura, vivacità e di creatività, che ha saputo interpretare molto prima e molto meglio degli altri la filosofia della vecchiaia».

Curiosità, passione, grinta, preparazione culturale, libertà di pensiero, acuto senso di osservazione e di ascolto erano le caratteristiche dell’uomo, oltre all’attitudine critica e all’intuizione, che unite alla profonda sincerità e convinzione che le animava, hanno creato e reso possibile un modo diverso e innovativo  di pensare all’invecchiamento. Un uomo dalla  solida cultura umanistica oltre che medica. Estroverso, gran parlatore, dalle uscite a effetto. “Era un ideatore, che una volta avviata un’iniziativa affidava il compito ad altri nel portarla avanti” dice ancora Niccolò Marchionni(suo allievo).  Un uomo in cui vita privata e professionale non conoscevano separazioni.

Merito di Antonini la felice intuizione del valore della funzione rispetto al valore della struttura nel considerare l’età dell’invecchiamento, focalizzando la cura non sul ripristino morfologico di ciò che la patologia o l’usura del tempo ha danneggiato, ma garantendo la funzione anche se ciò può comportare adattamenti non usuali. Passare dalla cura della patologia alla cura della persona assicurando una qualità di vita dignitosa, rispettabile, accettabile.

«Non più individui da gestire, percepiti spesso come un peso in quanto esclusi dalla produzione, ma persone alle quali si devono assicurare adeguati supporti perché possano continuare a mantenere per quanto possibile la “libertà”, intendendo con questo il mantenimento della propria autonomia, che sola può consentire libertà di pensiero e di movimento, riducendo solo a casi estremi l’istituzionalizzazione».

La cura e l’assistenza dell’anziano centrati non solo sulla patologia, ma anche sugli altri aspetti psico - sociali (affettività, solidarietà, vicinanza), in ambienti aperti ai familiari, in un atmosfera cordiale, calda di fiducia e rispetto reciproci, dove la riabilitazione  (dopo l’evento acuto) ha un ruolo basilare. Ed è proprio Antonini il pionere al quale si riconduce la nascita della Scuola Speciale per Terapisti della Riabilitazione nel 1969. Così come l’istituzione dell’Unità di Cura Intensiva Geriatrica, al Ponte Nuovo, dove già dal 1967 si svolgeva attività di geriatria internistica; e ancora la realizzazione dei “Fraticini”, una struttura ospedaliera sulle colline fiorentine, dove il Professore dette un importante contributo riguardo alla riabilitazione (non potendo svolgere il ruolo di Direttore per l’incompatibilità con l’incarico universitario). Dobbiamo ancora ringraziarlo per l’ampio impegno e dedizione nella realizzazione delle prime Unità Coronariche Mobili, collaborando insieme ad altri professionisti di livello internazionale. È sempre con lui che ha inizio nel 1983 l’Università dell’Età Libera a Firenze, dove il Comune istituisce corsi di studio aperti a tutti, anche agli anziani.

Voglio concludere con una sua bellissima frase sulla speranza, un sentimento che sembra un ossimoro legato alla terza età, sulla discriminazione: «Credere nel domani crea speranza, la speranza crea valori: come bellezza, bontà, ricerca della perfezione, amore… sei libero perché ti piace la vita, la vita ha valore perché tu le dai valore…Il più bel dono che un giovane può fare a una persona anziana è considerarla della sua stessa specie… Si parla tanto di razzismo, ma il primo razzismo che si deve sconfiggere è quello dell’età».

“Francesco Antonini – La vita e le intuizioni di un geriatra”di Giovanna Ferretti ( ed.Polistampa 2014)


05 dicembre 2023

LA SCUOLA PIU’ BELLA CHE C’E’ di Francesco Niccolini, L.D’Elia, S.Gesualdi

 

Anche se ha la semplicità di un libro per ragazzi “La scuola più bella che c’è” è davvero una lettura rivitalizzante per rivivere il ricordo di un sacerdote originale, caparbio, appassionato, scomodo, umile, ribelle (e quanti altri aggettivi potremmo aggiungere) quale Don Lorenzo Milani Comparetti.

Da Firenze, sua città natia, lo si segue a Milano, poi di nuovo a Firenze dove prende la maturità classica per dedicarsi all’arte e alla pittura. Entrerà in Seminario, ma per il suo carattere schietto, indomabile, una volta prete sarà allontanato. Prima a San Donato di Calenzano, poi a Barbiana, paese sperduto tra le montagne del Mugello. Lì prenderà forma il suo pensiero innovativo e democratico: «Bisogna offrire a tutte quelle persone gli strumenti perché possano sentirsi uomini e donne, prima ancora che fedeli». La Chiesa sbaglia, va quindi rifondata. La conoscenza è il mezzo per ottenere il cambiamento. La parola e il pensiero le armi per fare la rivoluzione e trovare il proprio posto nel mondo. Nasce con lui «una scuola nuova, quella che negli alunni non vede teste da riempire, ma esseri umani con i quali fare un pezzo di strada insieme». Barbiana è proprio questo luogo, dove «studiare funziona: si possono cambiare le cose, dare voce a chi non ne ha, dove le rivoluzioni si chiamano amore e conoscenza. Amore senza condizioni». Una scuola che forma adulti nuovi, autentici, coscienti, capaci di pensare e agire nel rispetto dell’altro, pronti a fare un passo indietro se occorre, in aiuto di chi è più svantaggiato e bisognoso.

Una vita governata dall’amore, quello vero incondizionato, dedicata agli altri, sfortunatamente troppo breve.

«Chi sa volare non deve buttare via le ali per solidarietà con chi non lo sa fare. Deve insegnare agli altri cosa è il volo».

“La scuola più bella che c’è” di Francesco Niccolini ( ed Mondadori 2023)

03 dicembre 2023

CON CURA - Diario di un medico deciso a fare meglio



L’importanza del cambiamento

Una lettura illuminante, un testo che tutti – medici, chirurghi, studenti in medicina, operatori sanitari che come me si occupano di assistenza – dovrebbero leggere e analizzare per acquisire non solo conoscenza, ma una maggiore consapevolezza e coscienza sulla realtà della cura.

È proprio l’umiltà, la trasparenza dell’autore nel suo mostrarsi senza timori, riconoscendo i propri limiti e quelli della scienza, il desiderio di non arrendersi mai in un’ottica di miglioramento continuo, nonché la sua volontà a trovare risposte, che cattura e ancora al testo.

Approfondire, sezionando ogni capitolo sarebbe interessante, perché tanti sono i momenti di riflessione, ma ne verrebbe fuori una lunga e troppo ampia argomentazione che in questo spazio non è richiesta. Voglio solo lanciare sassolini nel fiume, le cui onde possono arrivare a toccare qualche sponda.

È un saggio, ma anche un diario dove si riportano storie e fatti realmente accaduti; è anche una raccolta di articoli dove si elencano cifre, dati e rapporti ma lo si può leggere anche come un romanzo, in cui non manca la biografia del chirurgo con le certezze e i dubbi, successi e fallimenti nel grande viaggio della cura dell’altro.

È un libro che porta inevitabilmente a meditare sulla nostra attività di operatori sanitari, a rimettere in discussione il nostro modo di essere e di lavorare e a riconsolidarci in maniera nuova, adottando strategie di crescita personale e collettiva.

Così Atul Gawande ci elenca tre importanti requisiti per il successo in medicina.

Ecco allora che la scrupolosità diviene una virtù basilare, in «quanto necessità di prestare sufficiente attenzione ai dettagli per evitare errori e superare gli ostacoli».

Fare la cosa giusta non è questione di poco conto, se la si estende anche all’assistenza, nel momento in cui il paziente più che ostinazione e accanimento terapeutico ha maggiore necessità di cure palliative e di supporto umano. In tal senso l’autore si interroga «su come facciamo a capire quando bisogna continuare a lottare per un malato e quando bisogna smettere».

E poi c’è l’ingegnosità, un termine che trovo entusiasmante, che definisce il “saper pensare” in modo nuovo sulla base delle proprie conoscenze, competenze e responsabilità.

Una lettura che apre la mente a chi è disposto al cambiamento, che ci trasforma in devianti positivi alla continua ricerca del meglio per il meglio e di conseguenza apporta beneficio a chi si relaziona con noi, a chi curiamo, assistiamo.

Concludo con i cinque consigli della postfazione, che non posso fare a meno di menzionare, tanto sono chiari, incisivi, determinanti:

1) Fate una domanda fuori copione: uscire ogni tanto (e quando la condizione lo permette) dal copione, dal proprio ruolo professionale, chiedendo magari al paziente qualcosa che va al di là della sua patologia può arricchire la cura e anche noi stessi. Il paziente non è solo la “sua malattia”.

2) Non lamentatevi: potrei scrivere anch’io un saggio sulle lamentele nei luoghi di lavoro ma non voglio  aggiungere altro altrimenti mi lamento.

3)Trovate qualcosa da contare: (questo non fa per me) dati, cifre e numeri a testimonianza della qualità della cura.

4) Scrivete qualcosa:(invita la lepre a correre) la scrittura «consente di ritornare su un problema e di riflettere».

E infine:

5) Cambiate: «le scelte di un medico sono necessariamente imperfette, ma cambiano la vita delle persone. Per questa ragione, a volte, sembra più prudente attenersi a prassi consolidate, a ciò che fanno tutti, limitarsi a essere una delle tante rotelle in camice bianco di una grossa macchina. Invece no, un medico non deve farlo, non dovrebbe farlo nessuno che si assuma rischi e responsabilità nella società».

E concludo davvero aggiungendo anch’io un piccolo consiglio, già compreso in parte nelle citate virtù: cerchiamo di usare sempre anche un pizzico di creatività, che non toglie ma aggiunge benessere e valore.

Con cura Diario di un medico deciso a fare meglio” di Atul Gawande  (2007 Einaudi)

27 novembre 2023

PALOMAR di Italo Calvino



Rileggere Italo Calvino dopo anni, è sempre una gioia, è come ritornare dopo un viaggio e riconoscere gli stessi oggetti, odori, sapori, musiche che sembravano sepolti nella soffitta della mente ma che  sono sempre lì, vivi, nitidi e reali.

Fin dalle prime pagine ho ritrovato quel luogo familiare e conosciuto, sebbene questa opera di Calvino (fra le opere ultime dell’autore) sia molto distante e diversa da Il sentiero dei nidi di ragno o dalla trilogia de I nostri antenati, solo per fare alcuni esempi.

Palomar, lo si può considerare un romanzo di racconti, per la suddivisione in tanti piccoli capitoli compiuti che Calvino catalogò in tre sezioni suddivise a sua volta in sottosezioni definite 1): come esperienze visive; 2): come esperienze legate al linguaggio, al suo significato, ai simboli; 3): come esperienze filosofiche, speculative, meditative.

Mi sono interrogata sul significato del titolo “Palomar” e la prefazione dell’autore ci dice molto. Palomar che in spagnolo significa Colombaia (a parte l’amore del protagonista per i volatili) non ha alcuna connessione con il testo mentre, come lui stesso dice, è ispirato all’Osservatorio californiano del Monte Palomar, il cui telescopio punta il suo occhio «verso l’alto, il fuori, i multiformi aspetti dell’Universo». È un occhio attento, curioso, soggettivo e oggettivo, insaziabile, rapace, bramoso, critico, lungimirante, chirurgico, …arrendevole.

Ma chi è Palomar, quest’ uomo non più giovane, coniugato, perfettamente integrato, dall’animo silenzioso, taciturno, riflessivo, che si interroga continuamente sui fenomeni del mondo, alla ricerca delle mille risposte possibili? Palomar è l’uomo colto nella sua solitudine, nella sua unicità, attore e spettatore della vita stessa che lo attraversa e lo travolge: spetta a lui azione e capacità di improvvisare, adattandosi agli eventi, subendoli o accogliendoli nella loro universalità. Palomar è l’autore stesso, i suoi pensieri, le domande, il suo forte desiderio di andare oltre il visibile per esplorare nuove e più profonde verità.  Palomar siamo noi, sono io lettrice, che mi identifico nel suo pensiero, nelle sue stesse domande, dubbi, che osservo l’onda e per quanto anch’io mi sforzi, non ne trovo l’origine; che immersa nel riflesso del sole nel mare capisco che «ognuno ha il suo riflesso, che solo per lui ha quella direzione e si sposta con lui»; che ascolto e amo il canto degli uccelli senza riconoscerli e avverto questa mia «ignoranza come una colpa»; che nell’infinità del prato riesco a distinguere le erbe a una ad una, «nelle loro particolarità e differenze. E non solamente vederle: pensarle»; che osservo la luna nel pomeriggio, sbiadita e indefinita, «nel momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interesse, dato che la sua esistenza è ancora in forse»; che nelle notti estive osservo il cielo e penso che« il firmamento è qualcosa che sta lassù, che si vede che c’è, ma da cui non si può ricavare nessuna idea di dimensioni o di distanza»; che cerco «di pensare il mondo com’è visto dai volatili»; che nella calca frenetica e nervosa dei supermercati vedo «un’avidità senza gioia né gioventù»; che amante dei formaggi, mi soffermo più del dovuto nello scomparto dedicato come fosse un museo, apprezzandone le forme, la consistenza, i futuri sapori, la nomenclatura; che nell’osservare il mondo animale scopro che «c’è il mondo di prima dell’uomo, o di dopo, a dimostrare che il mondo dell’uomo non è eterno e non è l’unico»; che anche senza essere stata in Messico e aver visitato le rovine di Tula, condivido appieno «la continuità della vita e della morte[…];  la vita è vita e porta con sé la morte e la morte che è morte perché senza morte non c’è vita»; che penso quanto sarebbe fruttuoso «mordersi la lingua tre volte prima di parlare» lasciando spazio al silenzio, essere più onesti con chi ha meno esperienza, riconoscendo «che non abbiamo niente da insegnare» e che «la conoscenza del prossimo passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso». Mi son lasciata andare, prendere dalle storie, ricche di queste pillole di saggezza, come se fossero cioccolatini di cui sono golosa.

Concludo con la frase di Calvino che definisce e sintetizza così il suo protagonista: «Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato».

Palomar Italo Calvino (Mondadori 1994)


17 novembre 2023

LA CANZONE DI ACHILLE di Madeline Miller

 


Anche stavolta non ho usufruito del terzo diritto di Pennac, ovvero interrompere la lettura, solo perché è più forte della mia ragione non concludere ciò che ho iniziato e mutilare la narrazione lasciandola appesa a un filo come un lenzuolo che nessuno avrà mai cura di ritirare.

Così con grande sforzo ho continuato, fino in fondo.

Da ciò si evince subito come ho accolto “La canzone di Achille”, un romanzo epico che non parla solo del mito greco, della guerra di Troia e delle gesta eroiche dei greci e troiani, ma anche della storia dell’uomo, delle relazioni umane, dei desideri, emozioni, sentimenti, passioni che animano l’umanità fin dalle sue origini.

Il libro focalizza la narrazione sulla storia romantica tra i due adolescenti, Achille e Patroclo che scoprono giovanissimi un’attrazione reciproca singolare e profonda. Un’omosessualità palese e accettata, piena di rispetto, comprensione, passione, assai più moderna di tante odierne realtà. L’autrice esprime molto bene queste peculiarità, ma non riesce, secondo me, a cogliere gli aspetti più intimi e psicologici della relazione, rimanendo sulla superficie della trama dei fatti e delle azioni che si susseguono con una certa lentezza e ripetitività. Insomma nonostante la bravura, le competenze e conoscenze della scrittrice in materia (indiscusse, sulle quali non entro in merito), non sono riuscita a farmi coinvolgere, a lasciarmi trasportare con piacere e senso di pienezza.

Sì, mi dispiace ripeterlo, ma il libro non scorre, l’andamento è piuttosto piatto, lineare per non dire noioso (ci sono intere pagine in cui succede davvero poco) a parte il finale in cui il ritmo accelera improvvisamente e si fa più incalzante; dettagliate e competenti sono le descrizioni ; la qualità della scrittura non è poi così attrattiva e accattivante da sopperire a queste mancanze.

Molto suggestiva la storia d’amore tra i due giovani, forti, robusti, bellissimi, ma poi? Sì è vero c’è l’Iliade, la guerra di Troia, divinità, semidei e mortali, ottima opportunità per un ripasso della mitologia greca o come modo alternativo per studiarla, ma tutto il resto?

Insomma non l’ho trovata una valida ragione per consacrarlo come molti hanno fatto a un cult letterario fra i giovani e i non, e mi scuso se anch’io non approfondisco ulteriormente le mie riflessioni proprio per tutto ciò che ho espresso e mi è mancato.

Che dire? Provate a leggerlo, magari a voi non risulterà così ostico, pareggiando così la mia opinione sottostimante.

 

"La canzone di Achille"di Madeline Miller (Marsilio 2022)

08 ottobre 2023

QUANDO LE MONTAGNE CANTANO di Nguyễn Phan Quế Mai

 

Quando c’è una guerra le persone sono solo foglie che cadono a migliaia, a milioni, a causa dell’imperversare della tempesta”.

Non poteva mancare tra le mie letture questo successo dell’autrice vietnamita Nguyễn Phan Quế Mai, romanzo di esordio in cui si respira tutta l’atmosfera di un Vietnam che riflette una storia di poteri contesi, prevaricazioni e soprusi con a fianco, per fortuna, tutta la bellezza di una natura superba ma benevola e la generosità di un popolo determinato, in cui prevale il potere dell’amore e della solidarietà.

Una saga familiare che vede protagoniste e voci narranti, la nonna Dieu Lan e la nipote Huong, che si alternano nella narrazione, in un arco temporale che va dall'inizio Novecento ai giorni nostri, attraverso la dominazione dei francesi prima, dei giapponesi e del regime comunista dopo.

Dieu Lan racconta alla giovane nipote le origini della loro famiglia di proprietari terrieri, perseguitati dal regime comunista e costretti a scappare a seguito della riforma agraria perché accusati di tirannia e sfruttamento. Si snodano nella narrazione gli anni della sua giovinezza, la perdita dei genitori, la fuga dalla casa natia con i propri figli e il loro abbandono durante il lungo cammino, infine il ritorno. Una guerra, sebbene diversa, è presente anche nel racconto di Huong, che insieme alla nonna continua la fuga dai bombardamenti americani che distruggono la loro abitazione.

Una storia forte, cruda, vera che ci rivela tutta la malvagità di cui l’uomo sa essere capace. Una storia però che anche attraverso il dolore e la sofferenza sa farci capire l’importanza della speranza, e di quanto gli ideali di amore in ogni sua forma, solidarietà, amicizia, conoscenza, rispetto per chi è vivo e per chi invece non c’è più, siano gli unici che davvero contano per una rinascita e ragione di vita.

Un romanzo di denuncia senza riserve, dall’impronta neutrale e non vittimistica, riscattata dalla forza della giustizia e del coraggio. Sebbene la scrittura sia ancora acerba è senza dubbio una lettura che arriva diretta al cuore, che ci fa commuovere, disperare, inquietare, riflettere.

Basta soffermarsi sull’importanza del silenzio soprattutto durante la guerra, quando anche le montagne sembrano cantare al cinguettio dei son ca:  “Il canto di un son ca arriva fino al cielo e gli spiriti dei defunti ritornano sulla terra sulle ali del loro canto”.

“ Se le persone avessero cominciato a leggere e a scoprire le culture degli altri popoli, non ci sarebbero state più guerre”.

Questo può bastare a illuminarci sulla necessità della conoscenza, motivo in più per leggere questo libro.

A.C.

“Quando le montagne cantano” di Nguyễn Phan Quế Mai ( ed.Nord 2021)


18 settembre 2023

MI LIMITAVO AD AMARE TE di Rosella Postorino

 

 “Cosa facevo io mentre durava la Storia? Mi limitavo ad amare solo te”, con questa frase del poeta bosniaco Izet Sarajlic, veniamo introdotti nel romanzo di Rosella Postorino, secondo classificato al Premio Strega 2023.

Bosnia-Erzegovina, 1992. Con la dissoluzione dell’Jugoslavia, si sta consumando una guerra civile tra l’esercito serbo e quello bosniaco, una guerra che ha distrutto intere città e ucciso centomila uomini, donne e bambini. Omar e Senadin, Nada e Ivo, Danilo e Jagoda, tre coppie di fratelli, sono i protagonisti di questa storia corale. Dopo un breve soggiorno nell’orfanotrofio di Sarajevo, vengono fatti salire su un pullman diretto in Italia – eccetto i fratelli maggiori, destinati a combattere in patria –  e affidati alle cure di un istituto religioso. Da quel momento in poi li seguiremo fino all’età matura, quando una volta adulti si rincontreranno, uniti indissolubilmente dallo stesso dolore di esiliati contro la propria volontà.

L’opera è un inno all’amore – per la propria terra, la propria madre, i propri fratelli –  all’amicizia, alla fraternità, solidarietà, unici e autentici valori che possono radicarci alla vita e a darle nutrimento, anche quando tutto sembra perduto. L’ amore è capace di questo grande miracolo: tirare fuori la forza, il coraggio, la speranza per andare avanti sempre e non soccombere. Altresì è una denuncia alla guerra, l’azione più orribile, assurda, stupida che l’uomo ottenebrato dal miraggio del potere può innescare e perpetrare.

Nonostante le tematiche assolutamente illuminanti e interessanti di questa ultima lettura dell’autrice, di cui conoscevo già “Le assaggiatrici”, il libro in tutta sincerità, non è riuscito ad appassionarmi, a catturarmi ed entusiasmarmi, come spesso (quasi sempre) accade di fronte a una buona scrittura.

Non ne voglio certo sminuire il pregio, ma solo esprimere il mio parere e gradimento, mia consuetudine al termine di ogni lettura. L’ argomento storico è forte, importante – la guerra in Bosnia-Erzegovina –, e ahimè attuale (anche se le forze in gioco non sono le stesse), la documentazione accurata e competente, la scrittura di alta qualità, la trama articolata e complessa, i personaggi numerosi (forse anche troppi) ma ben strutturati e caratterizzati, il linguaggio e lo stile ricercato ed esperto. Ma nonostante tutte le carte in regola, (aggiungo la mia personale congiunzione avversativa), non sono riuscita a farmi coinvolgere, a trarre piacevolezza dalla narrazione che spesso ho trovato ostica tanto da dovere ritornare più volte a rileggere le righe precedenti per capire chi stava parlando, chi fosse il soggetto della frase, passaggi che una buona narrazione non dovrebbe prevedere (considero una delle migliori qualità in uno scrittore la sua capacità di chiarezza e semplicità nell’esprimere grandi concetti). Non escludo che il problema sia personale, ma non posso fare a meno di dichiararlo. Questa difficoltà ovviamente si è riversata anche sul coinvolgimento e sull’interesse per la storia stessa, precludendo l’empatia e simpatia dei personaggi, che sicuramente avrebbero meritato più considerazione.

L’incipit è tuttavia bellissimo, dal punto di vista del ragazzino, Omar, che credi di seguire per tutto il libro ma poi ti ritrovi come lettore deviato in altri punti di osservazione, troppi, che invece di creare movimento e varietà, distraggono, complicano, appesantiscono.

Ho apprezzato nello stile dell’autrice, l’uso consueto e competente del discorso indiretto, affiancato a quello diretto, che sa gestire con maestria, anche se questa tecnica, usata in modo così frequente complica un po’ e appesantisce la narrazione. Quello che invece ho meno gradito è stato quel susseguirsi di frasi lunghe senza punteggiatura (questione di stile, senza dubbio), e quel continuo cambio del punto di vista motivo frequente del mio calo di attenzione. Un’altra strategia stilistica che non ho gradito, è stata l’inserimento degli intermezzi in corsivo, simbolo di una voce in sottofondo, non identificabile facilmente (almeno per me), dal significato molto astratto e generalizzato (a volte parla la madre di Ivo, a volte è un narratore ideale che osserva e descrive la situazione del paese in guerra, …), insomma un espediente poco edificabile e greve ai fini della trama stessa.

L’opera è senz’altro meritevole (non sarebbe arrivata a un simile traguardo) ma non ha incontrato il mio gusto o forse che dire, l’ho semplicemente letta in un momento sbagliato, poco propizio, accogliente . Non me ne voglia l’autrice, alla quale sicuramente non arriveranno mai le mie considerazioni.

A.C.

“Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino ( ed Feltrinelli 2023)


23 agosto 2023

LA TERAPIA DEL BAR di Paolo Ciampi

 



«Siete qui e tanto vi basti, questo è il vostro posto. Cercate il profondo alla superficie. Rilassatevi, deponete ansie e smanie, prendetevi il vostro tempo: non c’è bisogno di una crociera o di una spa, con relativo salasso per il vostro conto. Questa cura è alla portata di tutti. Sfogatevi con i vostri silenzi e le vostre chiacchiere. Siate voi stessi oppure siate quello che millantate di essere, che è un altro modo di essere voi stessi».

Il bar come cura, un luogo che come una buona medicina sa alleviare le sofferenze, alleggerire e placare gli animi tormentati, soddisfare la sete e la fame del viandante, accogliere senza pretese sia chi cerca la solitudine e chi invece la compagnia; il bar cuore di ogni paese, del divertimento e del gioco (che nostalgia i flipper di un tempo), cassa di risonanza di chiacchiere, pensieri liberi, accordi o disaccordi, risate o lamenti, discussioni per affermare idee e ideali, per raccontare sogni, aspirazioni, e speranze; il bar approdo, dimora e rifugio di anime erranti, in cerca di una tregua, di una zona franca dove recuperare e ritrovarsi.

Un viaggio nella varietà dei bar di tutto il mondo (bar di paese, lounge bar, pub, caffè, enoteche, bar di passaggio o bar dove sedersi, bistrot, case del popolo, ecc..), che l’autore ha conosciuto e frequentato e che ci mostra con sottile minuzia, descrivendone le peculiarità, curiosità, a volte stravaganze dove la figura del barista «la certezza cartesiana nell’universo caotico multiforme [] se il bar è teatro – e lo è – è lui, senza ombra di dubbio, l’attore protagonista».

Un cammino nell’etica del bar e di chi lo abita arricchito da riferimenti, collegamenti e citazioni letterarie, cinematografiche, musicali che diviene un divertente e accurato vagabondare nell’universo dei caffè somministrati in cento maniere diverse, delle bibite calde e fredde, degli alcolici e superalcolici, degli aperitivi così tanto di moda e dai nomi impronunciabili, ma anche degli spuntini consumati in fretta, dei cornetti caldi e profumati all’alba di un nuovo giorno.

Non manca la spiegazione etimologica della parola bar (anzi più di una) di cui personalmente preferisco quella dell’acronimo, ma che non svelerò per non togliervi il piacere di scoprirlo da soli.

Un libro di nemmeno cento pagine, rinfrescante come una birra alla spina, pratico, tascabile, una lettura piacevole e stimolante, ottimo rimedio se somministrata e letta in questa calda e afosa estate.

16 agosto 2023

TI HO VISTA IERI di Patrizia Laquidara

 

«I segreti di famiglia sono sassi che ti porti dentro le tasche e che non sai di avere, ma sono anche sassolini lungo il bosco che, come il profumo dei gelsomini, ti fanno ritornare a casa».

L’importanza delle nostre origini, anche quelle più remote che come radici ci ancorano, ci sostengono e ci fortificano nel bene e nel male, fondamenta imprescindibili per la nostra crescita e personalità.

Anni Settanta, boom economico e tecnologico, periodo di significativa trasformazione generazionale, motivo di sogni e speranza di tanti italiani.

Patrizia Laquidara si racconta attraverso il suo sguardo di bambina, catturando il lettore con la sua empatia e simpatia, ripercorrendo la storia della sua famiglia (materna e paterna) «sia per sentito dire che per esperienza», in un inebriante e articolato viaggio dalla Sicilia al Veneto, regalandoci un’esperienza unica, immersiva nella tradizione popolare dell’epoca. Un incantevole viaggio nel  tempo, dalla nascita – attraverso un’infanzia documentata con dettagliata minuziosità – fino all’adolescenza, momento in cui ogni bambina subisce una trasformazione, e diventa «nuova, ammirata da lontano dai bambini stupiti e un po’ impauriti di ieri».

Una bambina audace, forte, curiosa, che si tuffa nella vita con coraggio e determinazione, sostenuta sempre dalle radici di una famiglia salda e onesta. Una bambina che sperimenta, non si accontenta di ciò che gli altri le dicono – anche se ne tiene conto – alla ricerca della propria verità e unicità, quella che nessuno potrà svelarle ma che deve trovare da sola. Una personalità decisa che sa affrontare le avversità (lutti, perdite, abbandoni) con intelligenza e sensibilità, superando ed elaborando con destrezza il distacco dalla terra d’origine, l’emigrazione verso il Nord,« quel travaso e il passaggio sotto pelle delle cose e della vita, un aroma che non ritrovavo nel posto dove eravamo andati a finire».

Un panorama colorato e straordinario di uomini, donne, animali ma anche oggetti – che hanno tutti qualcosa da raccontare – ognuno con la propria voce, elementi indispensabili e unici nell’armonia e melodia del coro della vita.  

Impossibile non rimanere affascinati da Anna «il giunco che si piega al vento, che a forza di piegarsi era diventata saggia, dolce, mite, comprensiva e innamorata», soprannominata a Ciaccaligna e suo marito Pippo u Buggiu «la testa pazza»,[…], «Pippo e Anna un’opera d’arte inscindibile, sicuramente imperfetta ma pur sempre piena di vita e bellezza»; nonna Grazia e nonno Don Caitano, zia Mimma, andata via troppo presto, Fifì il cagnolino rimasto sulla banchina del molo; zia Ninauna divinità pagana fatta di rami e fiumi azzurri che le scorrevano fino a terra lasciando dietro di sé, lungo il marciapiede, pozzanghere e rivoli»; Angela, l’amica di gioco, «la scatenata, quella scaltra»; nonno Toni, nonna Agnese, e la bisnonna Teresa la Consigliera, «la matriarca gentile, capace di camminare sul crinale luminoso dell’esistenza»; e poi Guido, il signor Vanni, Lara, gli zingari,… insomma un’infinità di personaggi, impossibile da nominare e ricordare tutti.

Il punto di vista è quello di Patrizia stessa, che con le sue eccellenti capacità espressive riesce a regalarci una meravigliosa testimonianza non solo personale ma anche storica, culturale e sociale di un intero secolo. La voce narrante è quella dell’autrice bambina, l’impronta e lo stile si legano al suo linguaggio e pensiero, creando una narrativa davvero attraente, costruita da frasi a volte brevi, a volte articolate, parole a effetto, espressioni dialettali che creano suggestione e armonia per la musicalità dei suoni, in un fluire continuo, essenziale ed efficace.

Interessante anche la struttura del romanzo, diviso in cinque parti, a sua volta suddivise in brevi capitoli ognuno col proprio titolo, tanto da rappresentare storie a sé, ma strettamente collegate tra loro.

Un libro semplicemente delizioso, divorato con sano appetito, una lettura che mi ha sorprendentemente coinvolta  – anche per le innumerevoli condivisioni e coincidenze (anche mio padre era frigorista) – accompagnando le mie giornate con gioia, come previsto dall’autrice nella sua dedica. Un libro positivo, che mette buon umore, narrando dell’esistenza da vivere con giudizio e buonsenso perché «visto che ci sei, meglio giocare in maniera intelligente e scegliere, tra tutti, il gioco più bello e divertente per te».

Una scrittura che rimane sulla pelle anche dopo aver chiuso il libro, mantenendo viva la nostalgia positiva di un tempo passato, quando la gioia era nel cuore delle cose e non nella forma, quando bastava semplicemente esistere per essere felici, anche e nonostante le difficoltà.

A.C.

“Ti ho vista ieri” di Patrizia Laquidara ( Ed. Neri Pozzi  2023)


28 luglio 2023

BRANDELLI DI UNO SCRITTORE PRECARIO di Mirko Tondi

 

Brandelli di uno scrittore precario non è il solito manuale di scrittura (non dico niente di nuovo, c’è scritto anche sulla copertina) ma molto di più, un fondamentale compendio per una buona scrittura che concentra e raccoglie infinite indicazioni, strategie, istruzioni (diciamola così), nonché selezionate citazioni di grandi letterati con precisi riferimenti bibliografici, comprendendo anche una mini raccolta di racconti e una breve parentesi autobiografica dello scrittore e amico Mirko Tondi.

Al di là del mio giudizio di parte, sfido il parere di chiunque, scrittori affermati o emergenti, nel considerarlo un prezioso, accurato e valido contributo sull’arte dello scrivere, pari (o superiore) a tanti altri che ho sulla scrivania, Amata Scrittura di Dacia Maraini, Esercizi di stile di Raymond Queneau, Il mestiere di scrivere di Raymond Carver, On writing di Stephen King, Manuale di scrittura creativa di Cotroneo, solo per citarne alcuni.

Bellissime anche le illustrazioni annesse di Massimiliano Bertolotti, (apprezzabili già in copertina con la mano della scrittore che con la penna sembra scolpire la roccia della realtà portando in superficie storie), che conferiscono vivacità e dinamismo alla scrittura già vitale di Mirko. La scrittura è infatti un’arte, espressione massima di creatività, voce unica e irripetibile, ognuno con la propria.

Brandelli di uno scrittore precario ha la fluidità di un romanzo, per il tono colloquiale dell’autore che si rivolge al lettore come se fosse davanti a lui, seduto al tavolino di un bar o in un’aula scolastica, per discorrere di scrittura in una maniera davvero molto piacevole e rilassante. Niente nozioni, niente noiosi e inutili elenchi, solo citazioni letterarie, cinematografiche, musicali selezionate e pertinenti (con precisi riferimenti) che stimolano il lettore a ulteriore approfondimento e ricerca. Tanti i consigli di scrittura che, alla maniera di Carver, dovremmo appuntare come post it o scrivere semplicemente su una lavagnetta davanti al pc, per tenerli sempre ben in vista quando scriviamo.

Non vi presterò il mio libro, pieno di sottolineature (sono una lettrice che si permette la licenza di farlo, anche se per alcuni è dissacrante), rivelatrici, a detta anche dell’autore, di ottima qualità del testo. Sarebbe impossibile riportare e riflettere su ogni precetto, sono davvero tanti, perciò mi limiterò a riportarne solo alcuni.

«Cercare di scrivere tutti i giorni e arrivare in fondo» è forse il più importante consiglio da mettere in cima alla lista (confesso, lo condivido, ma lo seguo solo in parte).

Sono pienamente d’accordo sull’importanza della lettura per scrivere bene: «Se avete come obiettivo di scrivere qualcosa di valido dovete prima aver letto, se non parecchio almeno abbastanza […] La lettura, lo abbiamo detto, è il punto di partenza, su questo non c’è dubbio, per cui l’investimento è indispensabile».

Sullo stile Mirko ce la dice lunga: «Raggiungere un proprio stile, uno stile riconoscibile e possibilmente unico, una voce potente che emerga dal mucchio della mediocrità e dall’ordinarietà, è l’obiettivo più elevato in cui si possa sperare. Ma allo stesso tempo è forse il solo obiettivo da porci se vogliamo lasciare il segno».

Illuminante la riflessione sull’equilibrio tra tecnica e cuore: «Il pericolo della tecnica è che più che ce ne nutriamo, più rischiamo di relegare il cuore in un angolino credendo inconsciamente di poterlo soppiantare con il repertorio acquisito di trucchi da scrittore. Niente di più sbagliato. […] Pensiamo che la tecnica ci permetta di entrare più dentro alle cose e invece, qualche volta, quelle cose ci impedisce di sentirle».E ancora: «Le belle frasi e le belle parole possono essere tenute insieme solo dalle emozioni che si provano quando si pensano e si scrivono».

Altra lezione chiarificatrice riguarda il differente approccio tra racconto e romanzo:«Nel racconto si avanza per sottrazione, non soltanto per la scelta delle parole, ma anche per la circoscrizione delle tematiche e degli eventi da narrare; di solito, infatti, è meglio concentrarsi su un unico episodio[…]Il romanzo invece si muove nella direzione opposta, procedendo per accumulazione».

Troverete qui le teorie sull’architettura e struttura del romanzo, che Mirko illustra e spiega nel dettaglio: il Paradigma di Syd Field, “Il viaggio dell’eroe”Christopher Vogler, il metodo delle “5 W”, solo per citarne alcune.

I corsi di scrittura hanno proprio il grande valore di fornire conoscenze e strumenti necessari per scrivere bene, accelerando in tal modo il processo creativo che diversamente richiederebbe tempi più lunghi, avvalendosi anche del confronto con gli altri.

Osare, sperimentare, provare commettendo anche errori fa parte del gioco, «perché non aver osato costituisce a sua volta un fallimento, quello di non aver utilizzato la scrittura per esprimersi al massimo delle proprie intenzioni».

Non mancano infine lezioni dettagliate e approfondimenti sul metodo, sugli strumenti del mestiere, sull’organizzazione del tempo, sull’importanza della riscrittura, sull’editing, sui premi letterari (sapere riconoscere quelli che offrono opportunità), sulla editoria, pubblicazione e promozione. Ma sarebbe davvero troppo trascriverle tutte anche se meritevoli, perciò se davvero la scrittura è la vostra arte, attitudine e passione e volete approfittare di questa preziosa opportunità, non vi resta che leggerlo, sono sicura non ve ne pentirete.

A.C.

12 luglio 2023

AVANTI, PARLA di Lidia Ravera

 

«Quando siamo giovani pretendiamo l’amore, la giustizia, la conquista, la gioia, quando siamo vecchi basta la vita. Vivere».

Quale verità si nasconde dietro una donna quasi settantenne, che vive da sola in un bellissimo appartamento lungotevere, che non parla con nessuno o parla poco di sé e degli altri? Quale storia l’ha portata fin qui, quale pensieri, idee, tormenti si celano in quella testa dai lunghi capelli grigi fuori moda, tanto da essere soprannominata dai vicini Chiomavecchia?

Lo scopriremo poco a poco, procedendo nella lettura di questo meraviglioso libro di Lidia Ravera (il secondo dell’autrice dopo Age Pride), in cui ancora una volta si parla di terza età, di una fascia dell’esistenza in cui, pur tirando le somme, fare bilanci, prepararsi alla scena finale, si possono fare incontri inaspettati, possono accadere cose, imprevisti che rimetteranno in moto la giostra della vita, offrendo l’ opportunità di un altro giro, che non esclude piacere e divertimento.

A premere il pulsante d’avvio, sono Maria e Michele, i giovani vicini di casa, che Giovanna incontra mentre traslocano nel nuovo appartamento attiguo al suo, nell’afoso agosto romano popolato da poche anime. La sua vita solitaria subirà una brusca virata contagiata dall’entusiasmo, euforia, vitalità dei due giovani con a seguito i figli, un adolescente Malcom, impegnato in problemi sociali più grandi di lui e Malvina, deliziosa creatura di appena quattro anni, soggetto indiscutibile di ogni attenzione e cura.

Ma i nodi del passato non scioglibili perché «La memoria è un cane feroce, alla mia età devi tenerla alla catena», le scelte, il rimpianto «quel senso di vuoto nauseante, quella commozione senza sbocchi» le colpe, nonostante la ritrovata felicità, ritornano spesso in superficie, come a volere rivendicare la loro assoluta superiorità e verità su ogni nuovo sentimento ed emozione, che Giovanna tenta in tutti i modi di controllare. Qual è la colpa così mostruosa che si nasconde dietro questa donna alla quale non sembra concessa alcuna forma di amore e piacere? Ce lo continuiamo a chiedere per l’intera narrazione, e per non togliere il piacere della sorpresa, non voglio farne anch’io minimo accenno.

Tutta la tensione del lettore sta proprio qui, in questo complesso groviglio di pensieri, impressioni, idee, supposizioni, in cui la protagonista «una parassita emozionale» come si autodefinisce, sotto forma di diario, ci regala i suoi stati d’animo (e lo fa in modo diretto, sottovoce con l’intenzione di mantenerli segreti), in un flusso continuo, sincero e chiaro come acqua di montagna, alla ricerca perenne del suo posto nel mondo.

La narrazione si rivela affascinante, originale, dallo stile impeccabile, con l’uso appropriato e preciso di ogni singola parola, le descrizioni sorprendenti andando oltre la pura rappresentazione, la scrittura necessaria e consapevole sulla importanza e ineluttabilità della memoria.

«Quando si scrive per dimenticare si finisce per ricordare. Tutto. Ogni frase che si forma nella tua mente e si deposita sulla pagine colpisce la superficie del vuoto, quel laghetto artificiale che hai curato con tanta sapienza e preveggenza, ne smuove le acque, lo rende impraticabile» perché «Certe volte scrivere è come spalare fango, come scavare fosse. Una fatica fisica. Scrivi per liberarti, e finisci in un’altra prigione[] Ti dici che stai scrivendo per te, soltanto per te stessa. Ma sei sicura che sia così?[…] La scrittura è avida, golosa,incontenibile. Ti porta dove non vorresti andare».

Tanti i temi affrontati e sviscerati, la solitudine, la politica e le scelte ideologiche, l’amicizia, l’amore, la maternità, vissuta dalla protagonista come condizione di libero arbitrio unita alla profonda consapevolezza che determina la scelta, perché come dice lei stessa «ci vuole una presunzione fuori dall’ordinario per pensarsi madri».

Un libro che prende e che dà, coinvolge emotivamente (mi sono ritrovata in lacrime nel passaggio finale) attraverso una scrittura che si rinnova pagina dopo pagina, accogliente, invitante, stimolante, un libro che ti rimane addosso, anche quando l’hai chiuso, che ti esorta a riflettere, che ti invita con «Avanti, parla», a scrivere e aggiungere anche qualcosa di te.

A.C.

Avanti, parla di Lidia Ravera  (Giunti/Bompiani 2021)


05 luglio 2023

LA LUNA È TRAMONTATA di John Steinbeck

 



Quando un libro non conosce tempo, rimanendo sempre attuale e vero, nonostante gli anni che si porta appresso, non può essere che un capolavoro e anche se questo breve romanzo di John Steinbeck non è molto conosciuto, lo farei rientrare in questa categoria. Un libro che parla di guerra (lo vogliamo più attuale?), di un popolo che ne conquista un altro per interessi economici, di vincitori e vinti, di invasori e invasi, due opposti ma facce della stessa medaglia.

Seconda guerra mondiale. Una truppa dell’esercito tedesco capeggiata dal colonnello Lanser, invade e occupa un paese della Norvegia per appropriarsi del carbone che esporterà per proprio profitto. Lanser il colonnello a capo della spedizione e i suoi cinque ufficiali, Hunter, Bentick, Loft, Tonder, Prackle, si stabiliscono nella casa di Orden, sindaco del paese, primo cittadino e rappresentante dell’anima del suo popolo.

Quello che gli invasori chiedono al paese conquistato è lo sfruttamento del territorio con l’estrazione di carbone da parte dei minatori locali. Se rispetteranno le regole, non morirà nessuno. Non mancheranno però le ribellioni, morti ammazzati, coloro che in nome della libertà non possono e non vogliono farsi schiacciare da un potere prevaricatorio e ingiusto. Colpisce la semplicità, la rettitudine, la saggezza, il senso di giustizia del popolo invaso, che emerge e si evidenzia nella figura del sindaco stesso, Orden e del dottor Winter, amico e suo fidato consulente, di Annie la governante coraggiosa che non esita a gettare acqua bollente sugli oppressori quando tentano di entrare nella loro dimora, di Joseph che in modo reverenziale sa muoversi al meglio e nel momento più opportuno. Si apprezza la fermezza d’animo del giovane Morden, fucilato per aver colpito e poi ucciso in una lite l’ufficiale Loft, e la determinazione e il coraggio della moglie Molly, che approfittando dell’invaghimento del romantico Tonder nei suoi confronti, non esita a ucciderlo per farsi giustizia. Interessante in questo passo della narrazione, l’assenza della descrizione dell’omicidio, che si consuma nella sequenza successiva, dopo l’immagine della giovane che nasconde le forbici all’ingresso dell’ufficiale, senza che l’autore ce lo dica chiaramente. Una scelta stilistica che ho assai apprezzato, in quanto anch’io ritengo inutile e svantaggioso riproporre la violenza e ogni sua espressione, in quanto stimolante e corroborante per menti malvagie e perfide.Non manca, come ogni romanzo richiede, la zizzania nella bontà del grano, il traditore, il negoziante del paese Correll, che si vende agli invasori per interessi personali.

Quello che mi ha sorpreso in questa lettura  è, come ripeto, la mancanza (almeno palese) di vera violenza e scene, descrizioni, situazioni atroci e crudeli tipiche di un fenomeno così massacrante, mentre l’attenzione è focalizzata sull’uomo, sui sottili risvolti psicologici e interiori che questa condizione può generare.  Anche l’occupazione della casa del sindaco, dove vive con la moglie, e i due servitori, Joseph e Annie, avviene in forma molto diplomatica, senza prepotenza e tragicità, in modo quasi colloquiale, in cerca di compromessi e migliori soluzioni per evitare inutili barbarie e spargimenti di sangue. Significative e umane le parole del colonnello Lanser, volte a sottolineare la debolezza e il limite umano: «La guerra è tradimento e odio, pasticci di generali incompetenti, torture, assassinio, disgusto, stanchezza finché poi è finita e nulla è mutato, se non che c’è una nuova stanchezza, un nuovo odio».

La guerra non ha un senso, è solo una finzione, un miraggio di gloria e potere che può affascinare il prevaricatore, ma che risulta alla fine un’attività impraticabile e quindi inutile, «l’unico lavoro impossibile al mondo, l’unica cosa che non si può fare […] infrangere per sempre lo spirito dell’uomo».

La guerra è assurda, «gente contro altra gente, non un’idea contro un’altra idea», un entità stupida che stupisce: «La popolazione è confusa ora che vive in pace da tanto e tanto tempo che non crede più alla guerra, non sa più che cosa sia».

L’uomo anela a ideali positivi, governati dal sentimento, dalla bellezza, dalla libertà, dalla solidarietà, dalla  partecipazione e non da regole imposte dall’alto, da un potere costrittivo che pascola gli individui come pecore, per questo «gli uomini liberi non possono scatenare una guerra ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a combattere nella sconfitta. Gli uomini-gregge, seguaci di un capo, non possono farlo, ed ecco perché sono sempre gli uomini-gregge che vincono le battaglie e gli uomini liberi che vincono le guerre».

E sono proprio questi i quesiti che come luci si accendono al termine del libro. Chi sono vincitori e i perdenti, chi gli oppressi e i sottomessi? A che serve tanto rumore, tanto orrore, distruzione? Ha senso un cambiamento conquistato con violenza, sangue e morte? Sono sempre più convinta che nessuna guerra potrà mai togliere la libertà del proprio pensiero di giustizia.

Ho letto Furore da adolescente, Uomini e topi più volte e ogni volta rimango affascinata dalla narrazione così pulita, semplice vera e profonda dello scrittore americano che adoro, una narrazione che esalta il sentimento, l’emozione, il valore umano più che la successione di fatti e azioni, come nel caso specifico  ci si potrebbe aspettare parlando di guerra; mi incanto nelle sue descrizioni particolareggiate che cercano indizi precisi tra le pieghe dei volti, delle mani, sulle macchie degli abiti, per raccontarci di quel personaggio, per dirci cosa sente, prova, pensa; mi perdo nei dialoghi in cui sembra di averli davanti in carne e ossa gli interlocutori, percepisco il tono, il timbro, il volume della loro voce attraverso le parole, le frasi che si alternano. Riuscire a far questo e trasmetterlo al lettore non è  cosa da poco, per questo meritano davvero le opere del grande scrittore. Ringrazio Renato, compagno di letture e recensioni per avermelo fatto incontrare di nuovo.

A.C.

La luna è tramontata di John Steinbeck (Bompiani 2016)