08 gennaio 2024

LA SOLITUDINE DEL MORENTE di Norbert Elias

 


Norbert Elias è un sociologo tedesco di origine ebraica (1897-1990) che in queste poche pagine condensa il proprio pensiero sul vivere la morte, l’evento finale che più terrorizza l’essere umano, inserito nel contesto sociale attuale (riferito al 1982, anno di pubblicazione) e attraverso i secoli, avvalendosi anche delle teorie di altri sociologi e filosofi (quali Aries, Freud, Weber, ecc…). Scritto all’età di novanta anni, rispecchia la visione della morte dell’autore con serenità e accoglienza.

Molte le citazioni da rilevare e commentare, troppe per riportarle tutte – che comunque provo a estrapolare perché degne di nota e riflessione – fondamentali per capire come la morte sia un argomento tabù agli occhi del mondo odierno.

Le modalità – dice Elias – di affrontare la morte sono molteplici. Si può mitologizzarla (e questo è tipico dell’antichità – ma anche dei nostri giorni  – in cui si ipotizzava una vita nell’aldilà in cui tutto aveva un seguito); si può allontanarla, credendo e sentendosi immortali, ciò che avviene più frequentemente ai nostri tempi; possiamo guardarla dritta in faccia, comprenderla, riconoscerla come una fase inevitabile della vita e affrontarla oggettivamente per quello che è.

Nella nostra società contemporanea, ciò che ci riguarda non è solo il problema del morire, ma il fatto che la questione è spesso legata all’invecchiamento della popolazione che a sua volta si lega alla cronicità delle patologie.

Elias sostiene che «è necessario che la morte sia demitizzata il più possibile [] l’umanità è una comunità di mortali e gli uomini nel loro bisogno possono aspettarsi aiuto solo da altri uomini [] la morte è un problema che riguarda i vivi; i morti non hanno problemi».

Interessante ciò che afferma sulla coscienza della morte negli esseri viventi: «Tra gli esseri che muoiono, gli uomini sono le creature per le quali la morte costituisce un problema», infatti gli animali non hanno paura e angoscia della morte a differenza degli uomini. «Non è la morte ma la coscienza a costituire un problema per gli uomini». Questa è una considerazione davvero interessante.

L’approccio alla morte cambia nei secoli e nelle diverse società. In passato l’uomo aveva un’aspettativa di vita inferiore (a quarant’anni era già vecchio). Oggi un uomo a settant’anni può essere ancora attivo e in forze. L’età biologica e anagrafica non sempre coincidono e questo determina anche un atteggiamento verso il fine vita più ottimistico e lungimirante, allontanando sempre di più il momento dell’evento nefasto. Da ciò ne deriva anche un eccessivo attaccamento alla vita, e una tendenza a rimuovere il pensiero della morte sia a livello individuale che a livello collettivo, perché turba il benessere a cui aspiriamo. La morte così viene scacciata dal nostro pensiero, relegata in uno spazio a sé, separato dal contesto comunitario, lo stesso in cui si viene a trovare invece la persona morente.

Un tempo la morte era vissuta in ambito familiare – da qui il nome di morte addomesticata – che insieme alla nascita, rappresentavano eventi comunitari, mentre oggi vengono vissuti in maniera più privata, dice Elias. Oggi «obbedendo all’oscura sensazione che i bambini possano esserne danneggiati, nascondiamo loro gli eventi naturali della vita, che dovranno in seguito inevitabilmente conoscere e capire» ma «sarebbe salutare che essi familiarizzassero con l’evento naturale della morte», come accadeva un tempo. Oggi si prova imbarazzo di fronte al morente, perché non siamo preparati culturalmente, allontanandone in ogni occasione l’argomento. E quando gli uomini sono costretti al capezzale dei moribondi «non sono più in grado di confortarli con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza». È di primaria importanza invece la vicinanza alla persona morente, il suo aspetto emotivo, la sensazione di sentirsi ancora amata unita alla consapevolezza di rappresentare un valore per i propri cari. Ciò che manca, aggiungo io, è proprio l’abitudine a stare accanto alle persone che soffrono, che muoiono. Disagio che si protrae anche dopo la morte della persona cara, nel delegare a personale specializzato la preparazione della salma. Anche il cimitero, la città dei morti, è una sorta di isola, un luogo circoscritto, distanziato dal resto del contesto civile caotico e vitale, dove invece il silenzio, la solennità e sacralità  confermano ancora questa separazione.

Così «per quanto riguarda la morte, la tendenza all’occultamento, al suo isolamento, in una sfera speciale, non è certo inferiore ma anzi superiore rispetto al secolo scorso». Ciò che fa paura è che «non è la morte a ispirare terrore, ma la rappresentazione anticipata della morte». E questo lo traduco come la consapevolezza e la coscienza della possibilità e probabilità imminente del morire, da cui deriva la paura.

Tenendo conto dell’aumento della durata della vita «bisogna tenere presente la rappresentazione della morte come momento conclusivo di un processo naturale che si è allungato grazie ai progressi della medicina e dell’igiene». Per questo l’uomo, abbagliato anche da questa chimera, cerca di allontanarla il più possibile.

Altra caratteristica che determina un particolare atteggiamento verso la morte è legata al fatto che viviamo in società e culture pacifiste e che la probabilità di morire ammazzati, per guerre e battaglie è pressoché rara. Diversa è quindi la concezione in paesi dove c’è guerra e la morte è sempre imminente e presente. Oggi, aggiungerei, nelle nostre realtà europee e pacifiste, le paure sono altre e diverse: gli incidenti stradali e legati ai trasporti, le sciagure atmosferiche e le catastrofi climatiche, omicidi e più ancora i femminicidi che negli ultimi anni raggiungono cifre impressionanti.

Elias afferma che l’immagine della morte che domina nella coscienza di un uomo è strettamente legata all’immagine di sé e di uomo che prevale nella società in cui egli vive». Siamo di fronte a una visione individualistica del morire nel contesto sociale, che apre la questione della solitudine del morente. Ciò «rimanda a un complesso di significati in reciproca correlazione; può riferirsi alla consapevolezza del fatto che l’esperienza della morte non può essere condivisa con nessuno; può esprimere il sentimento che con la morte sparirà per sempre il piccolo mondo legato alla propria persona con tutte le sue memorie uniche, con tutti i suoi sentimenti, esperienze, conoscenze e sogni noti unicamente a colui che sta morendo. Può riferirsi anche alla sensazione d’essere abbandonati nella morte da tutte le persone cui si è affezionati [] Il motivo della morte in solitudine ricorre assai più frequentemente in epoca moderna che in passato».

La solitudine del morente dice Elias è legata anche a ciò che abbiamo vissuto e ciò che siamo stati nella vita, ovvero «la relazione che sussiste tra il modo in cui si vive e quello in cui si muore».

«Il modo in cui si muore dipende in non poca misura anche dalle possibilità che un individuo ha avuto di porsi, e raggiungere, delle mete durante la sua vita. Dipende da quanto una persona, in punto di morte, sente di avere trascorso una vita piena e sensata, o vuota o senza senso». In altre parole, se il morente è appagato della vita che ha vissuto, se sente che la sua vita è compiuta e ha avuto un senso, il morire stesso è più facile.

«Quando il morente sente che non riveste più alcuna importanza per le persone che lo circondano, allora è realmente solo».

Bellissimo il finale di cui sottolineo alcune parole chiave : «fine tranquilla e pacifica», «la sensazione dei morenti di non essere d’ingombro», «parlare con franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero». E infine per concludere: «L’etica dell’”homo clausus”, dell’uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita». E ci sarebbe ancora tanto da aggiungere a queste parole che parlano da sole, ma sufficienti a trarne una grande messaggio.

“La solitudine del morente” di Norbert Elias ( Il Mulino 1982)

05 gennaio 2024

LIMOUSINE di Paolo Orsini

 


Conosco Paolo Orsini da molti anni, ci unisce la passione per la scrittura e in più occasioni abbiamo collaborato alla realizzazione di progetti comuni, come le raccolte di racconti, a cura dell’Associazione Gruppo Scrittori Firenze, di cui facciamo parte.

Mi ha sempre colpito di Paolo l’impronta ironica del suo stile, quel tocco sottile e leggero (e non superficiale) nell’affrontare, trattare, discutere ogni argomento, restituendocelo nella sua rappresentazione più divertente ed enigmatica, portandoci però alla riflessione e all’approfondimento.

In questo suo primo romanzo Limousine, devo dire che sono rimasta sorpresa – piacevolmente si intende – nel trovarmi davanti a un’opera “seria”, più complessa, assai articolata che tocca tematiche attuali e molto interessanti.

Giovanni è un uomo sulla cinquantina, imprenditore, dal carattere forte e volitivo grazie al quale ha costruito un impero sostenuto dal denaro, dal successo e da una popolazione femminile di cui ama circondarsi. Una serie di eventi – che non svelerò assolutamente – cambiano all’improvviso l’andamento favorevole del gioco costringendolo a rimettere in discussione la propria vita, dove avranno una parte incisiva e decisiva i sentimenti (amicizia, amore, passione, dignità, rispetto…) e non più il calcolo e la fredda razionalità. Non voglio svelare oltre, che è veramente molto, perché in questo libro ciò che non mancano sono proprio le svolte e i continui colpi di scena. Nella prima parte l’autore ci fa vivere una vera e propria esperienza sensoriale a bordo dello yacht dell’amico Maurizio – col quale Giovanni si intrattiene per affari in compagnia di due splendide ragazze – sorseggiando drinks, gustando aperitivi e cene da gran gourmet, cullati piacevolmente dalle onde in rada, mentre una brezza leggera rinfresca le serate.

Nella seconda parte invece ci troviamo a New York su una Limousine bianca, attrezzata di ogni più sofisticata diavoleria, in cui una bellissima e glaciale donna, Penelope, accoglie il nostro protagonista sempre per una questione d’affari che si rivelerà però qualcosa di molto più intrigante.

Non aggiungo altro sulla trama, ma solo alcune considerazioni in merito allo stile che come ho già anticipato è molto sottile e leggero al contempo. Interessante la suddivisione in capitoli, intitolati col nome del soggetto che interagisce. Ciò permette all’autore di districarsi nella molteplicità e complessità delle personalità dei personaggi, partendo dal punto di vista di ciascuno di loro. Ottima strategia, che determina chiarezza e consente al lettore di penetrare nell’animo di ogni attore, di approfondire le caratteristiche di ciascuno senza difficoltà. Paolo Orsini sa deliziarci grazie alla sua capacità narrativa e immaginativa (lo scrittore afferma di non essere mai salito su uno yacht e su una Limousine, come Salgari non si era mai allontanato dall’Italia), e alla sua scrittura fluida e briosa, che si destreggia con conoscenza, abilità e competenza nella materia del mercato finanziario (ma non solo) aprendo le porte su un mondo poco conosciuto se non a pochi eletti – quello del lusso, del potere, delle escort – molto lontano dalla realtà borghese fiorentina dei suoi precedenti racconti.

Insomma un’ esperienza davvero unica e amabile, che consiglio ai lettori che vorranno divagare dalla realtà quotidiana, una storia che rimane stampata nella memoria come un film  contemporaneo di cui assaporiamo ogni momento senza mai annoiarci, dove non mancano le opportunità per riflettere su quali siano davvero i valori importanti della vita. Ringrazio Paolo Orsini per questa gradevole “divagazione” e resto in attesa del prossimo lavoro, in cui l’ho già visto all’opera.

“Limousine” di Paolo Orsini ( Youcanprint 2023)


29 dicembre 2023

LE PERSIANE VERDI di Georges Simenon

 


Era molto tempo che non leggevo un libro di Georges Simenon e rincontrarlo in questa lettura è stata ancora una volta  una sorprendente novità. Sì perché Simenon riesce sempre nella semplicità della trama e del linguaggio, a essere comunque straordinario, originale, unico.

Ėmile Maugin è un uomo che a cinquantanove anni si ritrova a fare un bilancio della propria vita. Nato da una famiglia povera, ma con la fortuna di avere in dote un corpo alto e robusto, cavalcando l’onda della sorte, grazie alla sua tenacia, passione e soprattutto talento – la recitazione – è riuscito a raggiungere la vetta della fama e del successo. Nonostante abbia ottenuto tutto ciò che un uomo possa desiderare, avverte un’insoddisfazione profonda, una mancanza, la sensazione di un inesistente e vero rapporto con tutto ciò che lo circonda e che continuamente mette in dubbio, deprezza, svilisce. Come uno specchio, tutte le persone attorno a lui, riflettono lo stesso disagio, pur amandolo e temendolo, riverenti alla sua fama e alla sua larga generosità. Anche la moglie, Alice – ultima dei due precedenti matrimoni – ventitrè anni e con una figlia a carico, lo ama e lo teme al tempo stesso, nutrendo una profonda tenerezza per quell’uomo perennemente tormentato di cui tollera ogni eccesso, compreso quello delle donne e dell’alcool, nel quale Ėmile cerca di annegare le voci ammonitrici della sua coscienza che lo sprona a trovare continue verità, soluzioni e assoluzioni. Simenon punta il riflettore su Maugin essere umano e non attore – uomo dal carattere burbero, cinico, un po’ schizofrenico, ma che sa conquistare il pubblico, compresi noi lettori, con i suoi improvvisi cambi di registro – scavando nel profondo del suo animo, rivelandoci pensieri, tormenti, riflessioni che lo portano a fare delle scelte radicali. Scelte maturate da una nuova consapevolezza – a cinquantanove anni, per la prima volta in vita mia, farò una cosa straordinaria: mi riposerò – restituendoci una narrativa paragonabile a un flusso di coscienza, nonostante l’uso della terza persona. Il finale annunciato quasi, ma inaspettato, arriva con sapiente preparazione, in una graduale e straordinaria epifania.

Incredibile la padronanza della materia – non potrebbe essere diversamente per uno degli scrittori più prolifici del XX secolo – in cui Simenon si permette di fare salti temporali e spaziali, omettendo passaggi che il lettore deve però includere per la comprensione della corretta sequenza narrativa. Ma non disturbano questi vuoti, che l’autore sa colmare con la maestria del suo stile, così perfetto, così magistrale nell’ efficacia dei dialoghi, vero  punto di forza di questa lettura. Un ritmo incalzante, poche descrizioni e una profonda introspezione nell’animo del protagonista, rendono questo libro un piccolo capolavoro, da cui è stato tratto recentemente il film “Les Volets vertes” di Jean Becker con Gérard Depardieu, che ho ricercato invano.

Ma cosa sono le persiane verdi? Senza spoilerare, mi permetto di dirlo: rappresentano l’emblema della casa dei sogni, il rifugio ideale, posto sicuro, protetto, vero e naturale (proprio come il legno di cui sono fatte); quella tensione leggera, il desiderio, l’utopica ed effimera sensazione di luogo non luogo, fulcro di armonia, equilibrio, pace e realizzazione, dove tutto esiste e niente manca. Solo dopo la frenetica corsa verso un ipotetico traguardo, come un imputato di fronte al giudizio di una Corte pubblica, Ėmile comincerà a prendere consapevolezza della sua colpa, del fatto che aveva passato tutta la vita a scappare. Scappare da cosa? si chiederà fino alla fine. Arriverà una risposta, una soluzione concreta alla sua domanda? Riuscirà Ėmile Maugin  a trovare la sua casa dalle persiane verdi?

Vi lascio con questa stimolante curiosità.

“Le persiane verdi” di Georges Simenon ( ed. Gli Adelphi 2023)

17 dicembre 2023

LA TRAIETTORIA DELLA MOSCA di Mirko Tondi

 

La narrativa di Mirko Tondi, scrittore del panorama contemporaneo, non delude mai, è sempre una garanzia, per la sue capacità narrative, stilistiche, tecniche che toccano tematiche estremamente attuali, come – nello specifico – il bullismo, le difficoltà adolescenziali e sociali, le dipendenze, la violenza, la camorra…

Anche se è difficile classificare la sua scrittura in un genere, questo libro – se proprio vogliamo inserirlo in una categoria – lo si può definire noir, perché esiste un caso “oscuro”, grottesco, che conduce la storia e impegna il lettore nella sua rivelazione.

Il protagonista (non è citato il nome) è un insegnante di sostegno che lavora in una classe maschile di “ragazzi problematici” e che tra le tante complessità si trova coinvolto nella scomparsa di un alunno, Riccio, verso il quale riconosce una particolare affezione. Contrariamente alla sua razionalità e al buon senso, allontanandosi anche dagli affetti familiari, si trova immischiato in un’avventura più grande di lui, dove tornare indietro è pressoché impossibile. Ecco allora che la trama si dipana, in maniera magistrale creando rapidi colpi di scena e momenti di suspence che incitano il lettore a proseguire senza sosta, seguendo la traiettoria man mano tracciata dall’autore che come una mosca si ferma ora su un dettaglio  ora su un altro, richiamandolo continuamente alla concentrazione per non tralasciare ogni minimo indizio. Il professore non interroga gli alunni ma interroga costantemente se stesso non tanto alla ricerca di una verità specifica ma di una verità più grande, universale, quella che ci riguarda tutti, alimentata dal dubbio, dall’incertezza: «C’è da chiedersi su quali imprevedibili strade operi il destino che tanto invochiamo, sempre ammesso che di destino si tratti; o forse siamo noi che ogni tanto giochiamo a sfidare la vita, per provare a rimescolare le carte e sentire il brivido del rischio […] C’è questo filo rosso che unisce il passato al presente, e verrebbe da pensare ancora al caso, al destino o a Dio, non so bene, comunque qualche entità al di sopra di me che ha programmato tutto per farmi essere qui in questo momento».

Una letteratura che non si ferma mai all’apparenza, ma che scava, dubita, si interroga su motivazioni e soluzioni, penetrando nell’animo dei personaggi (grazie anche alle sue competenze professionali) restituendoceli a tutto spessore, analizzati nei pregi e difetti, vizi e virtù, bontà e malvagità, nella loro interezza umana collocata in un contesto realistico.

Mirko Tondi sa “governare” bene la trama, impartire la giusta cadenza alle battute narrative, dialogiche, descrittive e riflessive, sempre alla ricerca della parola perfetta, quella e soltanto quella, e il risultato è evidente. Nello stile dell’autore è anche il ricco panorama culturale che non esita a suggerire riferimenti letterari, cinematografici, musicali che valorizzano ulteriormente il testo, creando stimoli ulteriori per il lettore curioso e ricettivo.

Consigliato, sempre una garanzia. 

“La traiettoria della mosca” di Mirko Tondi ( ed.Il filo rosso)


12 dicembre 2023

FRANCESCO ANTONINI La vita e le intuizioni di un geriatra di Giovanna Ferretti

 

Un saggio, questo libriccino dell’autrice Giovanna Ferretti, segretaria per molti anni  di Francesco Antonini illustre professore, docente alla Cattedra di Gerontologia e Geriatria – la prima al mondo  – istituita presso l’Ateneo forentino nel 1962. Qui il Professore tenne per molti anni lezioni informali, che spaziavano dalla Medicina, alla riabilitazione e cinematografia sull’età avanzata, dalle cure palliative  al fine vita, un insegnamento dalla visione empirica, totalizzante che poneva l’attenzione sull’anziano in ogni suo aspetto, emotivo, psicologico, affettivo, culturale, sociale e non solo sulla malattia.  Molti dei suoi allievi (coi quali aveva rapporti che andavano oltre le mura universitarie), lo ricordano ancora con affetto, stima e orgoglio, consapevoli di aver avuto in lui un’ottima guida, un vero Maestro.

Così lo ricorda Pietro Valdina (medico-geriatra): «Antonini non è stato soltanto un grande clinico medico, ma un innovatore, un educatore, un trascinatore, un vulcano pieno di idee, una figura carismatica ricca di fascino personale, di cultura, vivacità e di creatività, che ha saputo interpretare molto prima e molto meglio degli altri la filosofia della vecchiaia».

Curiosità, passione, grinta, preparazione culturale, libertà di pensiero, acuto senso di osservazione e di ascolto erano le caratteristiche dell’uomo, oltre all’attitudine critica e all’intuizione, che unite alla profonda sincerità e convinzione che le animava, hanno creato e reso possibile un modo diverso e innovativo  di pensare all’invecchiamento. Un uomo dalla  solida cultura umanistica oltre che medica. Estroverso, gran parlatore, dalle uscite a effetto. “Era un ideatore, che una volta avviata un’iniziativa affidava il compito ad altri nel portarla avanti” dice ancora Niccolò Marchionni(suo allievo).  Un uomo in cui vita privata e professionale non conoscevano separazioni.

Merito di Antonini la felice intuizione del valore della funzione rispetto al valore della struttura nel considerare l’età dell’invecchiamento, focalizzando la cura non sul ripristino morfologico di ciò che la patologia o l’usura del tempo ha danneggiato, ma garantendo la funzione anche se ciò può comportare adattamenti non usuali. Passare dalla cura della patologia alla cura della persona assicurando una qualità di vita dignitosa, rispettabile, accettabile.

«Non più individui da gestire, percepiti spesso come un peso in quanto esclusi dalla produzione, ma persone alle quali si devono assicurare adeguati supporti perché possano continuare a mantenere per quanto possibile la “libertà”, intendendo con questo il mantenimento della propria autonomia, che sola può consentire libertà di pensiero e di movimento, riducendo solo a casi estremi l’istituzionalizzazione».

La cura e l’assistenza dell’anziano centrati non solo sulla patologia, ma anche sugli altri aspetti psico - sociali (affettività, solidarietà, vicinanza), in ambienti aperti ai familiari, in un atmosfera cordiale, calda di fiducia e rispetto reciproci, dove la riabilitazione  (dopo l’evento acuto) ha un ruolo basilare. Ed è proprio Antonini il pionere al quale si riconduce la nascita della Scuola Speciale per Terapisti della Riabilitazione nel 1969. Così come l’istituzione dell’Unità di Cura Intensiva Geriatrica, al Ponte Nuovo, dove già dal 1967 si svolgeva attività di geriatria internistica; e ancora la realizzazione dei “Fraticini”, una struttura ospedaliera sulle colline fiorentine, dove il Professore dette un importante contributo riguardo alla riabilitazione (non potendo svolgere il ruolo di Direttore per l’incompatibilità con l’incarico universitario). Dobbiamo ancora ringraziarlo per l’ampio impegno e dedizione nella realizzazione delle prime Unità Coronariche Mobili, collaborando insieme ad altri professionisti di livello internazionale. È sempre con lui che ha inizio nel 1983 l’Università dell’Età Libera a Firenze, dove il Comune istituisce corsi di studio aperti a tutti, anche agli anziani.

Voglio concludere con una sua bellissima frase sulla speranza, un sentimento che sembra un ossimoro legato alla terza età, sulla discriminazione: «Credere nel domani crea speranza, la speranza crea valori: come bellezza, bontà, ricerca della perfezione, amore… sei libero perché ti piace la vita, la vita ha valore perché tu le dai valore…Il più bel dono che un giovane può fare a una persona anziana è considerarla della sua stessa specie… Si parla tanto di razzismo, ma il primo razzismo che si deve sconfiggere è quello dell’età».

“Francesco Antonini – La vita e le intuizioni di un geriatra”di Giovanna Ferretti ( ed.Polistampa 2014)


05 dicembre 2023

LA SCUOLA PIU’ BELLA CHE C’E’ di Francesco Niccolini, L.D’Elia, S.Gesualdi

 

Anche se ha la semplicità di un libro per ragazzi “La scuola più bella che c’è” è davvero una lettura rivitalizzante per rivivere il ricordo di un sacerdote originale, caparbio, appassionato, scomodo, umile, ribelle (e quanti altri aggettivi potremmo aggiungere) quale Don Lorenzo Milani Comparetti.

Da Firenze, sua città natia, lo si segue a Milano, poi di nuovo a Firenze dove prende la maturità classica per dedicarsi all’arte e alla pittura. Entrerà in Seminario, ma per il suo carattere schietto, indomabile, una volta prete sarà allontanato. Prima a San Donato di Calenzano, poi a Barbiana, paese sperduto tra le montagne del Mugello. Lì prenderà forma il suo pensiero innovativo e democratico: «Bisogna offrire a tutte quelle persone gli strumenti perché possano sentirsi uomini e donne, prima ancora che fedeli». La Chiesa sbaglia, va quindi rifondata. La conoscenza è il mezzo per ottenere il cambiamento. La parola e il pensiero le armi per fare la rivoluzione e trovare il proprio posto nel mondo. Nasce con lui «una scuola nuova, quella che negli alunni non vede teste da riempire, ma esseri umani con i quali fare un pezzo di strada insieme». Barbiana è proprio questo luogo, dove «studiare funziona: si possono cambiare le cose, dare voce a chi non ne ha, dove le rivoluzioni si chiamano amore e conoscenza. Amore senza condizioni». Una scuola che forma adulti nuovi, autentici, coscienti, capaci di pensare e agire nel rispetto dell’altro, pronti a fare un passo indietro se occorre, in aiuto di chi è più svantaggiato e bisognoso.

Una vita governata dall’amore, quello vero incondizionato, dedicata agli altri, sfortunatamente troppo breve.

«Chi sa volare non deve buttare via le ali per solidarietà con chi non lo sa fare. Deve insegnare agli altri cosa è il volo».

“La scuola più bella che c’è” di Francesco Niccolini ( ed Mondadori 2023)

03 dicembre 2023

CON CURA - Diario di un medico deciso a fare meglio



L’importanza del cambiamento

Una lettura illuminante, un testo che tutti – medici, chirurghi, studenti in medicina, operatori sanitari che come me si occupano di assistenza – dovrebbero leggere e analizzare per acquisire non solo conoscenza, ma una maggiore consapevolezza e coscienza sulla realtà della cura.

È proprio l’umiltà, la trasparenza dell’autore nel suo mostrarsi senza timori, riconoscendo i propri limiti e quelli della scienza, il desiderio di non arrendersi mai in un’ottica di miglioramento continuo, nonché la sua volontà a trovare risposte, che cattura e ancora al testo.

Approfondire, sezionando ogni capitolo sarebbe interessante, perché tanti sono i momenti di riflessione, ma ne verrebbe fuori una lunga e troppo ampia argomentazione che in questo spazio non è richiesta. Voglio solo lanciare sassolini nel fiume, le cui onde possono arrivare a toccare qualche sponda.

È un saggio, ma anche un diario dove si riportano storie e fatti realmente accaduti; è anche una raccolta di articoli dove si elencano cifre, dati e rapporti ma lo si può leggere anche come un romanzo, in cui non manca la biografia del chirurgo con le certezze e i dubbi, successi e fallimenti nel grande viaggio della cura dell’altro.

È un libro che porta inevitabilmente a meditare sulla nostra attività di operatori sanitari, a rimettere in discussione il nostro modo di essere e di lavorare e a riconsolidarci in maniera nuova, adottando strategie di crescita personale e collettiva.

Così Atul Gawande ci elenca tre importanti requisiti per il successo in medicina.

Ecco allora che la scrupolosità diviene una virtù basilare, in «quanto necessità di prestare sufficiente attenzione ai dettagli per evitare errori e superare gli ostacoli».

Fare la cosa giusta non è questione di poco conto, se la si estende anche all’assistenza, nel momento in cui il paziente più che ostinazione e accanimento terapeutico ha maggiore necessità di cure palliative e di supporto umano. In tal senso l’autore si interroga «su come facciamo a capire quando bisogna continuare a lottare per un malato e quando bisogna smettere».

E poi c’è l’ingegnosità, un termine che trovo entusiasmante, che definisce il “saper pensare” in modo nuovo sulla base delle proprie conoscenze, competenze e responsabilità.

Una lettura che apre la mente a chi è disposto al cambiamento, che ci trasforma in devianti positivi alla continua ricerca del meglio per il meglio e di conseguenza apporta beneficio a chi si relaziona con noi, a chi curiamo, assistiamo.

Concludo con i cinque consigli della postfazione, che non posso fare a meno di menzionare, tanto sono chiari, incisivi, determinanti:

1) Fate una domanda fuori copione: uscire ogni tanto (e quando la condizione lo permette) dal copione, dal proprio ruolo professionale, chiedendo magari al paziente qualcosa che va al di là della sua patologia può arricchire la cura e anche noi stessi. Il paziente non è solo la “sua malattia”.

2) Non lamentatevi: potrei scrivere anch’io un saggio sulle lamentele nei luoghi di lavoro ma non voglio  aggiungere altro altrimenti mi lamento.

3)Trovate qualcosa da contare: (questo non fa per me) dati, cifre e numeri a testimonianza della qualità della cura.

4) Scrivete qualcosa:(invita la lepre a correre) la scrittura «consente di ritornare su un problema e di riflettere».

E infine:

5) Cambiate: «le scelte di un medico sono necessariamente imperfette, ma cambiano la vita delle persone. Per questa ragione, a volte, sembra più prudente attenersi a prassi consolidate, a ciò che fanno tutti, limitarsi a essere una delle tante rotelle in camice bianco di una grossa macchina. Invece no, un medico non deve farlo, non dovrebbe farlo nessuno che si assuma rischi e responsabilità nella società».

E concludo davvero aggiungendo anch’io un piccolo consiglio, già compreso in parte nelle citate virtù: cerchiamo di usare sempre anche un pizzico di creatività, che non toglie ma aggiunge benessere e valore.

Con cura Diario di un medico deciso a fare meglio” di Atul Gawande  (2007 Einaudi)

27 novembre 2023

PALOMAR di Italo Calvino



Rileggere Italo Calvino dopo anni, è sempre una gioia, è come ritornare dopo un viaggio e riconoscere gli stessi oggetti, odori, sapori, musiche che sembravano sepolti nella soffitta della mente ma che  sono sempre lì, vivi, nitidi e reali.

Fin dalle prime pagine ho ritrovato quel luogo familiare e conosciuto, sebbene questa opera di Calvino (fra le opere ultime dell’autore) sia molto distante e diversa da Il sentiero dei nidi di ragno o dalla trilogia de I nostri antenati, solo per fare alcuni esempi.

Palomar, lo si può considerare un romanzo di racconti, per la suddivisione in tanti piccoli capitoli compiuti che Calvino catalogò in tre sezioni suddivise a sua volta in sottosezioni definite 1): come esperienze visive; 2): come esperienze legate al linguaggio, al suo significato, ai simboli; 3): come esperienze filosofiche, speculative, meditative.

Mi sono interrogata sul significato del titolo “Palomar” e la prefazione dell’autore ci dice molto. Palomar che in spagnolo significa Colombaia (a parte l’amore del protagonista per i volatili) non ha alcuna connessione con il testo mentre, come lui stesso dice, è ispirato all’Osservatorio californiano del Monte Palomar, il cui telescopio punta il suo occhio «verso l’alto, il fuori, i multiformi aspetti dell’Universo». È un occhio attento, curioso, soggettivo e oggettivo, insaziabile, rapace, bramoso, critico, lungimirante, chirurgico, …arrendevole.

Ma chi è Palomar, quest’ uomo non più giovane, coniugato, perfettamente integrato, dall’animo silenzioso, taciturno, riflessivo, che si interroga continuamente sui fenomeni del mondo, alla ricerca delle mille risposte possibili? Palomar è l’uomo colto nella sua solitudine, nella sua unicità, attore e spettatore della vita stessa che lo attraversa e lo travolge: spetta a lui azione e capacità di improvvisare, adattandosi agli eventi, subendoli o accogliendoli nella loro universalità. Palomar è l’autore stesso, i suoi pensieri, le domande, il suo forte desiderio di andare oltre il visibile per esplorare nuove e più profonde verità.  Palomar siamo noi, sono io lettrice, che mi identifico nel suo pensiero, nelle sue stesse domande, dubbi, che osservo l’onda e per quanto anch’io mi sforzi, non ne trovo l’origine; che immersa nel riflesso del sole nel mare capisco che «ognuno ha il suo riflesso, che solo per lui ha quella direzione e si sposta con lui»; che ascolto e amo il canto degli uccelli senza riconoscerli e avverto questa mia «ignoranza come una colpa»; che nell’infinità del prato riesco a distinguere le erbe a una ad una, «nelle loro particolarità e differenze. E non solamente vederle: pensarle»; che osservo la luna nel pomeriggio, sbiadita e indefinita, «nel momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interesse, dato che la sua esistenza è ancora in forse»; che nelle notti estive osservo il cielo e penso che« il firmamento è qualcosa che sta lassù, che si vede che c’è, ma da cui non si può ricavare nessuna idea di dimensioni o di distanza»; che cerco «di pensare il mondo com’è visto dai volatili»; che nella calca frenetica e nervosa dei supermercati vedo «un’avidità senza gioia né gioventù»; che amante dei formaggi, mi soffermo più del dovuto nello scomparto dedicato come fosse un museo, apprezzandone le forme, la consistenza, i futuri sapori, la nomenclatura; che nell’osservare il mondo animale scopro che «c’è il mondo di prima dell’uomo, o di dopo, a dimostrare che il mondo dell’uomo non è eterno e non è l’unico»; che anche senza essere stata in Messico e aver visitato le rovine di Tula, condivido appieno «la continuità della vita e della morte[…];  la vita è vita e porta con sé la morte e la morte che è morte perché senza morte non c’è vita»; che penso quanto sarebbe fruttuoso «mordersi la lingua tre volte prima di parlare» lasciando spazio al silenzio, essere più onesti con chi ha meno esperienza, riconoscendo «che non abbiamo niente da insegnare» e che «la conoscenza del prossimo passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso». Mi son lasciata andare, prendere dalle storie, ricche di queste pillole di saggezza, come se fossero cioccolatini di cui sono golosa.

Concludo con la frase di Calvino che definisce e sintetizza così il suo protagonista: «Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato».

Palomar Italo Calvino (Mondadori 1994)


17 novembre 2023

LA CANZONE DI ACHILLE di Madeline Miller

 


Anche stavolta non ho usufruito del terzo diritto di Pennac, ovvero interrompere la lettura, solo perché è più forte della mia ragione non concludere ciò che ho iniziato e mutilare la narrazione lasciandola appesa a un filo come un lenzuolo che nessuno avrà mai cura di ritirare.

Così con grande sforzo ho continuato, fino in fondo.

Da ciò si evince subito come ho accolto “La canzone di Achille”, un romanzo epico che non parla solo del mito greco, della guerra di Troia e delle gesta eroiche dei greci e troiani, ma anche della storia dell’uomo, delle relazioni umane, dei desideri, emozioni, sentimenti, passioni che animano l’umanità fin dalle sue origini.

Il libro focalizza la narrazione sulla storia romantica tra i due adolescenti, Achille e Patroclo che scoprono giovanissimi un’attrazione reciproca singolare e profonda. Un’omosessualità palese e accettata, piena di rispetto, comprensione, passione, assai più moderna di tante odierne realtà. L’autrice esprime molto bene queste peculiarità, ma non riesce, secondo me, a cogliere gli aspetti più intimi e psicologici della relazione, rimanendo sulla superficie della trama dei fatti e delle azioni che si susseguono con una certa lentezza e ripetitività. Insomma nonostante la bravura, le competenze e conoscenze della scrittrice in materia (indiscusse, sulle quali non entro in merito), non sono riuscita a farmi coinvolgere, a lasciarmi trasportare con piacere e senso di pienezza.

Sì, mi dispiace ripeterlo, ma il libro non scorre, l’andamento è piuttosto piatto, lineare per non dire noioso (ci sono intere pagine in cui succede davvero poco) a parte il finale in cui il ritmo accelera improvvisamente e si fa più incalzante; dettagliate e competenti sono le descrizioni ; la qualità della scrittura non è poi così attrattiva e accattivante da sopperire a queste mancanze.

Molto suggestiva la storia d’amore tra i due giovani, forti, robusti, bellissimi, ma poi? Sì è vero c’è l’Iliade, la guerra di Troia, divinità, semidei e mortali, ottima opportunità per un ripasso della mitologia greca o come modo alternativo per studiarla, ma tutto il resto?

Insomma non l’ho trovata una valida ragione per consacrarlo come molti hanno fatto a un cult letterario fra i giovani e i non, e mi scuso se anch’io non approfondisco ulteriormente le mie riflessioni proprio per tutto ciò che ho espresso e mi è mancato.

Che dire? Provate a leggerlo, magari a voi non risulterà così ostico, pareggiando così la mia opinione sottostimante.

 

"La canzone di Achille"di Madeline Miller (Marsilio 2022)

08 ottobre 2023

QUANDO LE MONTAGNE CANTANO di Nguyễn Phan Quế Mai

 

Quando c’è una guerra le persone sono solo foglie che cadono a migliaia, a milioni, a causa dell’imperversare della tempesta”.

Non poteva mancare tra le mie letture questo successo dell’autrice vietnamita Nguyễn Phan Quế Mai, romanzo di esordio in cui si respira tutta l’atmosfera di un Vietnam che riflette una storia di poteri contesi, prevaricazioni e soprusi con a fianco, per fortuna, tutta la bellezza di una natura superba ma benevola e la generosità di un popolo determinato, in cui prevale il potere dell’amore e della solidarietà.

Una saga familiare che vede protagoniste e voci narranti, la nonna Dieu Lan e la nipote Huong, che si alternano nella narrazione, in un arco temporale che va dall'inizio Novecento ai giorni nostri, attraverso la dominazione dei francesi prima, dei giapponesi e del regime comunista dopo.

Dieu Lan racconta alla giovane nipote le origini della loro famiglia di proprietari terrieri, perseguitati dal regime comunista e costretti a scappare a seguito della riforma agraria perché accusati di tirannia e sfruttamento. Si snodano nella narrazione gli anni della sua giovinezza, la perdita dei genitori, la fuga dalla casa natia con i propri figli e il loro abbandono durante il lungo cammino, infine il ritorno. Una guerra, sebbene diversa, è presente anche nel racconto di Huong, che insieme alla nonna continua la fuga dai bombardamenti americani che distruggono la loro abitazione.

Una storia forte, cruda, vera che ci rivela tutta la malvagità di cui l’uomo sa essere capace. Una storia però che anche attraverso il dolore e la sofferenza sa farci capire l’importanza della speranza, e di quanto gli ideali di amore in ogni sua forma, solidarietà, amicizia, conoscenza, rispetto per chi è vivo e per chi invece non c’è più, siano gli unici che davvero contano per una rinascita e ragione di vita.

Un romanzo di denuncia senza riserve, dall’impronta neutrale e non vittimistica, riscattata dalla forza della giustizia e del coraggio. Sebbene la scrittura sia ancora acerba è senza dubbio una lettura che arriva diretta al cuore, che ci fa commuovere, disperare, inquietare, riflettere.

Basta soffermarsi sull’importanza del silenzio soprattutto durante la guerra, quando anche le montagne sembrano cantare al cinguettio dei son ca:  “Il canto di un son ca arriva fino al cielo e gli spiriti dei defunti ritornano sulla terra sulle ali del loro canto”.

“ Se le persone avessero cominciato a leggere e a scoprire le culture degli altri popoli, non ci sarebbero state più guerre”.

Questo può bastare a illuminarci sulla necessità della conoscenza, motivo in più per leggere questo libro.

A.C.

“Quando le montagne cantano” di Nguyễn Phan Quế Mai ( ed.Nord 2021)


18 settembre 2023

MI LIMITAVO AD AMARE TE di Rosella Postorino

 

 “Cosa facevo io mentre durava la Storia? Mi limitavo ad amare solo te”, con questa frase del poeta bosniaco Izet Sarajlic, veniamo introdotti nel romanzo di Rosella Postorino, secondo classificato al Premio Strega 2023.

Bosnia-Erzegovina, 1992. Con la dissoluzione dell’Jugoslavia, si sta consumando una guerra civile tra l’esercito serbo e quello bosniaco, una guerra che ha distrutto intere città e ucciso centomila uomini, donne e bambini. Omar e Senadin, Nada e Ivo, Danilo e Jagoda, tre coppie di fratelli, sono i protagonisti di questa storia corale. Dopo un breve soggiorno nell’orfanotrofio di Sarajevo, vengono fatti salire su un pullman diretto in Italia – eccetto i fratelli maggiori, destinati a combattere in patria –  e affidati alle cure di un istituto religioso. Da quel momento in poi li seguiremo fino all’età matura, quando una volta adulti si rincontreranno, uniti indissolubilmente dallo stesso dolore di esiliati contro la propria volontà.

L’opera è un inno all’amore – per la propria terra, la propria madre, i propri fratelli –  all’amicizia, alla fraternità, solidarietà, unici e autentici valori che possono radicarci alla vita e a darle nutrimento, anche quando tutto sembra perduto. L’ amore è capace di questo grande miracolo: tirare fuori la forza, il coraggio, la speranza per andare avanti sempre e non soccombere. Altresì è una denuncia alla guerra, l’azione più orribile, assurda, stupida che l’uomo ottenebrato dal miraggio del potere può innescare e perpetrare.

Nonostante le tematiche assolutamente illuminanti e interessanti di questa ultima lettura dell’autrice, di cui conoscevo già “Le assaggiatrici”, il libro in tutta sincerità, non è riuscito ad appassionarmi, a catturarmi ed entusiasmarmi, come spesso (quasi sempre) accade di fronte a una buona scrittura.

Non ne voglio certo sminuire il pregio, ma solo esprimere il mio parere e gradimento, mia consuetudine al termine di ogni lettura. L’ argomento storico è forte, importante – la guerra in Bosnia-Erzegovina –, e ahimè attuale (anche se le forze in gioco non sono le stesse), la documentazione accurata e competente, la scrittura di alta qualità, la trama articolata e complessa, i personaggi numerosi (forse anche troppi) ma ben strutturati e caratterizzati, il linguaggio e lo stile ricercato ed esperto. Ma nonostante tutte le carte in regola, (aggiungo la mia personale congiunzione avversativa), non sono riuscita a farmi coinvolgere, a trarre piacevolezza dalla narrazione che spesso ho trovato ostica tanto da dovere ritornare più volte a rileggere le righe precedenti per capire chi stava parlando, chi fosse il soggetto della frase, passaggi che una buona narrazione non dovrebbe prevedere (considero una delle migliori qualità in uno scrittore la sua capacità di chiarezza e semplicità nell’esprimere grandi concetti). Non escludo che il problema sia personale, ma non posso fare a meno di dichiararlo. Questa difficoltà ovviamente si è riversata anche sul coinvolgimento e sull’interesse per la storia stessa, precludendo l’empatia e simpatia dei personaggi, che sicuramente avrebbero meritato più considerazione.

L’incipit è tuttavia bellissimo, dal punto di vista del ragazzino, Omar, che credi di seguire per tutto il libro ma poi ti ritrovi come lettore deviato in altri punti di osservazione, troppi, che invece di creare movimento e varietà, distraggono, complicano, appesantiscono.

Ho apprezzato nello stile dell’autrice, l’uso consueto e competente del discorso indiretto, affiancato a quello diretto, che sa gestire con maestria, anche se questa tecnica, usata in modo così frequente complica un po’ e appesantisce la narrazione. Quello che invece ho meno gradito è stato quel susseguirsi di frasi lunghe senza punteggiatura (questione di stile, senza dubbio), e quel continuo cambio del punto di vista motivo frequente del mio calo di attenzione. Un’altra strategia stilistica che non ho gradito, è stata l’inserimento degli intermezzi in corsivo, simbolo di una voce in sottofondo, non identificabile facilmente (almeno per me), dal significato molto astratto e generalizzato (a volte parla la madre di Ivo, a volte è un narratore ideale che osserva e descrive la situazione del paese in guerra, …), insomma un espediente poco edificabile e greve ai fini della trama stessa.

L’opera è senz’altro meritevole (non sarebbe arrivata a un simile traguardo) ma non ha incontrato il mio gusto o forse che dire, l’ho semplicemente letta in un momento sbagliato, poco propizio, accogliente . Non me ne voglia l’autrice, alla quale sicuramente non arriveranno mai le mie considerazioni.

A.C.

“Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino ( ed Feltrinelli 2023)


23 agosto 2023

LA TERAPIA DEL BAR di Paolo Ciampi

 



«Siete qui e tanto vi basti, questo è il vostro posto. Cercate il profondo alla superficie. Rilassatevi, deponete ansie e smanie, prendetevi il vostro tempo: non c’è bisogno di una crociera o di una spa, con relativo salasso per il vostro conto. Questa cura è alla portata di tutti. Sfogatevi con i vostri silenzi e le vostre chiacchiere. Siate voi stessi oppure siate quello che millantate di essere, che è un altro modo di essere voi stessi».

Il bar come cura, un luogo che come una buona medicina sa alleviare le sofferenze, alleggerire e placare gli animi tormentati, soddisfare la sete e la fame del viandante, accogliere senza pretese sia chi cerca la solitudine e chi invece la compagnia; il bar cuore di ogni paese, del divertimento e del gioco (che nostalgia i flipper di un tempo), cassa di risonanza di chiacchiere, pensieri liberi, accordi o disaccordi, risate o lamenti, discussioni per affermare idee e ideali, per raccontare sogni, aspirazioni, e speranze; il bar approdo, dimora e rifugio di anime erranti, in cerca di una tregua, di una zona franca dove recuperare e ritrovarsi.

Un viaggio nella varietà dei bar di tutto il mondo (bar di paese, lounge bar, pub, caffè, enoteche, bar di passaggio o bar dove sedersi, bistrot, case del popolo, ecc..), che l’autore ha conosciuto e frequentato e che ci mostra con sottile minuzia, descrivendone le peculiarità, curiosità, a volte stravaganze dove la figura del barista «la certezza cartesiana nell’universo caotico multiforme [] se il bar è teatro – e lo è – è lui, senza ombra di dubbio, l’attore protagonista».

Un cammino nell’etica del bar e di chi lo abita arricchito da riferimenti, collegamenti e citazioni letterarie, cinematografiche, musicali che diviene un divertente e accurato vagabondare nell’universo dei caffè somministrati in cento maniere diverse, delle bibite calde e fredde, degli alcolici e superalcolici, degli aperitivi così tanto di moda e dai nomi impronunciabili, ma anche degli spuntini consumati in fretta, dei cornetti caldi e profumati all’alba di un nuovo giorno.

Non manca la spiegazione etimologica della parola bar (anzi più di una) di cui personalmente preferisco quella dell’acronimo, ma che non svelerò per non togliervi il piacere di scoprirlo da soli.

Un libro di nemmeno cento pagine, rinfrescante come una birra alla spina, pratico, tascabile, una lettura piacevole e stimolante, ottimo rimedio se somministrata e letta in questa calda e afosa estate.

16 agosto 2023

TI HO VISTA IERI di Patrizia Laquidara

 

«I segreti di famiglia sono sassi che ti porti dentro le tasche e che non sai di avere, ma sono anche sassolini lungo il bosco che, come il profumo dei gelsomini, ti fanno ritornare a casa».

L’importanza delle nostre origini, anche quelle più remote che come radici ci ancorano, ci sostengono e ci fortificano nel bene e nel male, fondamenta imprescindibili per la nostra crescita e personalità.

Anni Settanta, boom economico e tecnologico, periodo di significativa trasformazione generazionale, motivo di sogni e speranza di tanti italiani.

Patrizia Laquidara si racconta attraverso il suo sguardo di bambina, catturando il lettore con la sua empatia e simpatia, ripercorrendo la storia della sua famiglia (materna e paterna) «sia per sentito dire che per esperienza», in un inebriante e articolato viaggio dalla Sicilia al Veneto, regalandoci un’esperienza unica, immersiva nella tradizione popolare dell’epoca. Un incantevole viaggio nel  tempo, dalla nascita – attraverso un’infanzia documentata con dettagliata minuziosità – fino all’adolescenza, momento in cui ogni bambina subisce una trasformazione, e diventa «nuova, ammirata da lontano dai bambini stupiti e un po’ impauriti di ieri».

Una bambina audace, forte, curiosa, che si tuffa nella vita con coraggio e determinazione, sostenuta sempre dalle radici di una famiglia salda e onesta. Una bambina che sperimenta, non si accontenta di ciò che gli altri le dicono – anche se ne tiene conto – alla ricerca della propria verità e unicità, quella che nessuno potrà svelarle ma che deve trovare da sola. Una personalità decisa che sa affrontare le avversità (lutti, perdite, abbandoni) con intelligenza e sensibilità, superando ed elaborando con destrezza il distacco dalla terra d’origine, l’emigrazione verso il Nord,« quel travaso e il passaggio sotto pelle delle cose e della vita, un aroma che non ritrovavo nel posto dove eravamo andati a finire».

Un panorama colorato e straordinario di uomini, donne, animali ma anche oggetti – che hanno tutti qualcosa da raccontare – ognuno con la propria voce, elementi indispensabili e unici nell’armonia e melodia del coro della vita.  

Impossibile non rimanere affascinati da Anna «il giunco che si piega al vento, che a forza di piegarsi era diventata saggia, dolce, mite, comprensiva e innamorata», soprannominata a Ciaccaligna e suo marito Pippo u Buggiu «la testa pazza»,[…], «Pippo e Anna un’opera d’arte inscindibile, sicuramente imperfetta ma pur sempre piena di vita e bellezza»; nonna Grazia e nonno Don Caitano, zia Mimma, andata via troppo presto, Fifì il cagnolino rimasto sulla banchina del molo; zia Ninauna divinità pagana fatta di rami e fiumi azzurri che le scorrevano fino a terra lasciando dietro di sé, lungo il marciapiede, pozzanghere e rivoli»; Angela, l’amica di gioco, «la scatenata, quella scaltra»; nonno Toni, nonna Agnese, e la bisnonna Teresa la Consigliera, «la matriarca gentile, capace di camminare sul crinale luminoso dell’esistenza»; e poi Guido, il signor Vanni, Lara, gli zingari,… insomma un’infinità di personaggi, impossibile da nominare e ricordare tutti.

Il punto di vista è quello di Patrizia stessa, che con le sue eccellenti capacità espressive riesce a regalarci una meravigliosa testimonianza non solo personale ma anche storica, culturale e sociale di un intero secolo. La voce narrante è quella dell’autrice bambina, l’impronta e lo stile si legano al suo linguaggio e pensiero, creando una narrativa davvero attraente, costruita da frasi a volte brevi, a volte articolate, parole a effetto, espressioni dialettali che creano suggestione e armonia per la musicalità dei suoni, in un fluire continuo, essenziale ed efficace.

Interessante anche la struttura del romanzo, diviso in cinque parti, a sua volta suddivise in brevi capitoli ognuno col proprio titolo, tanto da rappresentare storie a sé, ma strettamente collegate tra loro.

Un libro semplicemente delizioso, divorato con sano appetito, una lettura che mi ha sorprendentemente coinvolta  – anche per le innumerevoli condivisioni e coincidenze (anche mio padre era frigorista) – accompagnando le mie giornate con gioia, come previsto dall’autrice nella sua dedica. Un libro positivo, che mette buon umore, narrando dell’esistenza da vivere con giudizio e buonsenso perché «visto che ci sei, meglio giocare in maniera intelligente e scegliere, tra tutti, il gioco più bello e divertente per te».

Una scrittura che rimane sulla pelle anche dopo aver chiuso il libro, mantenendo viva la nostalgia positiva di un tempo passato, quando la gioia era nel cuore delle cose e non nella forma, quando bastava semplicemente esistere per essere felici, anche e nonostante le difficoltà.

A.C.

“Ti ho vista ieri” di Patrizia Laquidara ( Ed. Neri Pozzi  2023)