31 marzo 2024

LA CURA di Hermann Hesse

 


«Perché la vita non è un conto o una figura matematica, ma un prodigio»

Già in questa frase così incisiva, si può ben intuire il valore de “La cura” di Hermann Hesse, scritta nel 1925, successiva di pochi anni a “Siddartha”, in cui l’autore esplora, sebbene in maniera assai diversa, le tematiche a lui care.

La cura”, romanzo breve ma di un’intensità straordinaria, può considerarsi anche una sorta di diario - appunti di un soggiorno presso Baden in una lussuosa stazione termale, che lo scrittore cinquantenne si concesse per le cure di una sciatalgia - per la scrittura intima, riflessiva, introspettiva, che come un flusso di coscienza si sviluppa e si mantiene costante in tutta la narrazione, con un sottotesto che ci rivela l’intento dell’autore, di non lasciare il manoscritto chiuso in un cassetto, ma destinarlo a un lettore, ai suoi lettori, per la chiarezza nell’esporre, spiegare, analizzare i pensieri che sgorgano impetuosi dalla sua mente vivace e curiosa.

Un percorso di cura, volto al benessere del corpo, della mente e dello spirito, occasione per riflettere e approfondire attraverso gli aspetti del quotidiano, il suo “sentire”, i moti dell’ anima irrequieta e smaniosa, alla ricerca continua delle verità. Hermann Hesse è un chirurgo del corpo e dell’anima, seziona, sviscera, esamina ogni sentimento ed emozione per capire e per capirsi. Ecco allora le analisi accurate sulla sua apatia mattutina, sull’insonnia con la quale convive da anni, sulla sua indole solitaria, sulla trappola del piacere scaturito dal cibo e dal gioco, sulle asserzioni del cinematografo e della musica frivola, sul consumismo imperante che schiavizza l’umanità inventandosi futili necessità … su una foglia secca entrata al volo dalla finestra «di cui respiro lo straordinario memento della caducità, che ci fa rabbrividire ma senza il quale non ci sarebbe nulla di bello».

E qui si riallaccia la sua visione dualistica dell’uomo stesso, il suo essere buono e cattivo, virtuoso e vizioso, ordinato e caotico, assennato e folle,… nel continuo oscillare tra materialismo e idealismo, perché non può esistere niente di assoluto e perfetto, «che un uomo, per tutta la vita, possa venerare sempre lo spirito disprezzare sempre la natura, essere sempre rivoluzionario e mai conservatore o viceversa, mi sembra, sì, una gran prova di virtù, di carattere e di fermezza, ma mi sembra anche, e non meno, una cosa esiziale, folle e ripugnante, come se uno volesse sempre solo mangiare o dormire».

Un dualismo che non può esistere ed esprimersi senza la coscienza dell’ unità, come riconciliazione, ritorno, redenzione: «Noi non possiamo credere alla fine nel senso di distruzione ma solo nel senso di metamorfosi […]Nessun’altra idea mi è più sacra di quella dell’unità, l’idea che l’intero cosmo è una divina unità e che tutto il dolore, tutto il male consistono solo nel fatto che noi, singoli, non ci sentiamo più come parti inscindibili del Tutto, che l’io dà troppo importanza a se stesso».

Hesse indirizza il suo“occhio cosmico” alla ricerca di quell’unicità che nasce dalla molteplicità della realtà, «sotto il cui sguardo non c’è più nulla di piccolo, di sciocco, di brutto, di malvagio, ma tutto è santo e venerabile». E questa realtà non è altro che la Natura stessa, che ci salva dall’artificio e dall’illusione. Niente di più vicino anche al mio sentire.

L’ovvio diviene straordinario, in un continuo dialogo con se stesso, sulla nostra ineluttabile transitorietà: «È meraviglioso come la bellezza e la morte, il piacere e la caducità si esigano e si condizionino a vicenda!».

Anche il dolore, questa esperienza invisibile, multifattoriale, non quantificabile, quasi impossibile da descrivere, da dimostrare, acquista per lui un valore diverso se contrapposto al piacere, e che sembra addirittura alleggerirsi se condiviso con gli altri.

La cura è perciò non solo finalizzata al miglioramento fisico e mentale, ma soprattutto alla consapevolezza che la malattia deve avere un posto marginale nella vita di una persona.

«Il paziente Hesse, grazie a Dio, è morto e non ci riguarda più. Al suo posto c’è di nuovo un Hesse del tutto diverso: anche questo con la sciatica, ma ora la possiede anziché esserne posseduto».

La malattia non si combatte ma la si vive, facendosela compagna di viaggio e non protagonista assoluta di vita. «Io abbandono la malattia a se stessa, non sono mica al mondo per farle la corte tutto il santo giorno».

Perseguire la salute totale quando gli anni avanzano e gli acciacchi si sommano è un utopia, e Hesse lo dice chiaramente «Preferiamo soltanto guarire a metà, ma vivere in cambio in modo un po’ più piacevole e divertente, noi non siamo giovinetti che pretendono l’assoluto da se stessi e dagli altri, ma persone anziane, profondamente implicate nei condizionamenti dell’esistenza e perciò abituate a lasciare un po’ correre. No, non vogliamo essere perfettamente guariti, non vogliamo vivere in eterno» Un pensiero sorprendentemente attuale, considerando che è datato un secolo.

Una lettura che continua a risuonare anche a libro chiuso, che vede il segreto di tutta la felicità racchiuso nell’ equilibrio dell’amore « possibilità di amare senza restare in debito ora in questo, ora in quello, un amore di se stessi che non ruba niente a nessuno, un amore per gli altri che però non diminuisce né violenta il nostro io!».

Un libro pieno di pillole di saggezza - che non ho potuto fare a meno di citarle di nuovo e commentarle, perdonatemi - un’ottima “cura” per coloro che hanno voglia di interrogarsi e di riflettere su ciò che veramente conta.

21 marzo 2024

Di cosa è fatta la speranza di Emmanuel Exitu

 

Chi era Cecily Saunders donna poliedrica, risoluta, tenace, «altissima, quasi un metro e novanta» che sulle orme di Florence Nightingale contribuì a un cambiamento radicale nella storia dell’ assistenza e della cura?

Ce lo spiega molto bene l’autore, regista e sceneggiatore nel libro “Di cosa è fatta la speranza”, che ispirandosi alla vita di Cecily Saunders (1918 Barnet -2005 Londra), fondatrice delle cure palliative e dell’assistenza del fine vita, ci narra la sua straordinaria storia in forma romanzata. Il romanzo molto accurato nei dettagli, rappresenta un prezioso scrigno di pensieri, osservazioni, principi, riflessioni utili non solo a noi come professionisti ma anche a coloro che non operano nella Sanità, perché la salute è un diritto “di” e “per” tutti, un valore che ci riguarda e che sconfina da ogni gabbia strutturale. In questa lettura ripercorriamo le tappe della vita della protagonista, un’esistenza dedicata interamente ai malati, nello specifico al sollievo dal dolore, dalla sofferenza incoercibile che toglie ogni possibilità di speranza, anche quella di morire.

Cecily Saunders fin da ragazza capì che la sua missione era dedicarsi ai malati. Si laureò come infermiera con ottimi voti al Saint Thomas Hospital, ma dovette lasciare ben presto la corsia a causa di un grave mal di schiena che le impedì l’esercizio della professione, anche se di questa conservò sempre l’amore e i principi fondamentali: osservazione, ascolto, attenzione, empatia e compassione . Come le diceva Mrs Gatlin, sua insegnante: «Osservate. Salverete la vita a un sacco di gente. Ascoltate i pazienti, i loro corpi. Ricordatevi che siamo in prima linea con loro». Oppure la rimproverava per il suo maledetto perfezionismo «che la gente pensa sia una virtù, invece è un difetto[…]. I perfezionisti affogano nei dettagli e perdono di vista il quadro generale. Una brava infermiera non deve essere perfetta, deve esser devota al malato, non alla tecnica». E ancora:

«Fare l’infermiera secondo lo spirito di Florence Nightingale, la fondatrice di questa disciplina, non è una professione: è un destino: Non è un modo di fare: è un modo di essere». E mi piace aggiungere, per enfatizzarne anche l’aspetto creativo: «fare l’infermiera oggi non è più la sguattera dell’ospedale. Oggi ha il diritto di aspirare al rango di artista».

Nonostante le difficoltà Cecily riuscì comunque a mantenere il suo ruolo di aiuto agli altri, come assistente sociale, per infine divenire medico all’età di trentanove anni.

Cecily fu senz’altro una visionaria, una donna che, ferma nella propria convinzione e intuizione di poter fare la differenza aiutando in maniera concreta chi veniva abbandonato dalla medicina ufficiale (perché inguaribile), oltrepassò ogni limite per inseguire il suo sogno di amore, restituendo qualità, dignità e rispetto al morente.

Una donna coraggiosa, decisa a fare sempre il meglio nonostante il conformismo e le avversità «perché da nessuna parte è scritto che le cose debbano andare come sono sempre andate, e da nessuna parte è scritto che non si possa tentare qualcos’altro».

Una donna ostinata e caparbia «che non smette di cercare. E non arrendersi non è poco».

Perché la speranza occorre, sia per vivere che per morire; la speranza è sfaccettata, composta di tanti elementi, «è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere».

«La speranza è fatta di istanti che restano a lungo […]Troppo densi[…] e allora ti rendi conto che hai scoperto la sostanza stessa del tempo e quella sostanza non è il ticchettio delle lancette e non lo sarà mai più. La speranza è un posto dove si vive fino all’ultimo istante scoppiando d’angoscia e al tempo stesso d’amore, di dignità e tristezza e felicità e dolore e rabbia e gioia e tenerezza e paura e pace e tutto nello stesso momento[…] La speranza è un posto dove puoi morire scoppiando di vita. La speranza è una cosa che non si sa bene cos’è. L’unica cosa certa è che è scomoda e snervante, il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono tutti gli altri, che sono molto peggio».

Cecily è stata l’ ideatrice e fondatrice dell’hospice, non solo come struttura fisica, ma prima di tutto come concetto, relazione con le persone che non rispondono più alla cura attiva finalizzata alla guarigione e che necessitano di cure palliative, nel delicato e particolare tempo del fine vita.

Le cure palliative (dal termine latino pallium, mantello che protegge, riscalda) non sono cure che portano le persone a morire più velocemente, ma sono le cure personalizzate per la persona inguaribile, centrate sui suoi bisogni totali (fisici, sociali, psico - spirituali), al fine di garantire qualità, dignità e senso alla vita stessa, comprendendo anche il nucleo familiare e sociale della persona stessa.

«L’hospice», come diceva Cecily Saunders  «non è un posto dove si va  morire, ma dove si può vivere fino all’ultimo istante con dignità».

Ed è proprio il “dare un senso alla vita” l’ingrediente saliente del fine vita, perché solo dando un significato alla propria esistenza si può accettare e dare senso alla propria morte. E il senso è la spiritualità, la dimensione più sottile che va oltre ogni credo e fede, quella sensazione che ci porta verso l’alto, che ci fa crescere, meravigliare, sentire unici e parte di tutto, come dice Mrs Gatlin: «siamo nodi della stessa rete» e completa Cecily stessa: «Non siamo nodi della stessa rete: siamo lo stesso identico nodo».

La fede di Cecily «si riduce a questo, alla fiducia che le cose buone esistono. Attraverso fiumi di dolore e montagne di fatiche, ovvio, ma esistono. Tutto qua».

Sarà David Tasma, il suo primo amore, malato terminale che incontra nel suo percorso di assistente sociale, a innescare la scintilla per la costruzione dell’hospice St. Christopher nel 1967, donandole una parte della sua eredità: «Facci una finestra Voglio essere una finestra della tua casa»; e poi Antoni Michniewicz, anche lui suo paziente e amante, a dissipare ogni dubbio alla realizzazione del suo sogno, aiutata dal fratello e dai suoi collaboratori. Cecily avra anche un terzo amore, Marian Bohusz-Szyszko, anche lui polacco, che sposerà e ammalatosi di cancro, finirà i suoi giorni nello stesso hospice, assistito da lei.

Cecily osservando le sofferenze dei suoi pazienti, compì numerosi e accurati studi sugli effetti della morfina, alla ricerca della dose ottimale, quella che determina il migliore giovamento per la persona. «Dal dolore nessuno si salva, il dolore è capace di rastrellamenti capillari, il dolore trova tutti». I suoi studi lo dicono chiaramente: «Uno, il dolore costante va trattato in modo costante con dosi minime da modulare secondo l’esigenza. Due, il paziente può tornare autonomo, liberato dalla sofferenza riprende possesso della propria coscienza e della propria dignità, grazie alle relazioni che si riattivano con i suoi cari. Tre, è escluso il pericolo di dipendenza. Quando si presenta la necessità di aumentare la dose, non è mai a causa di assuefazione, ma è piuttosto l’estensione del tumore in altri distretti che determina l’incremento del dolore, che ovviamente deve essere trattato, aumentando di conseguenza le dosi, secondo lo stesso criterio».

Ma quello che conta davvero per il malato, oltre la sedazione del dolore, è la presenza, l’ascolto, «la parola come parte della cura», la vicinanza: «Con il “trattamento Saunders” viene una gran voglia di piangere e parlare, e con le parole e il pianto torna la dignità. Un’alluvione di dignità».

«Forse è questo il segreto di Cecily: l’hospice non è più un posto dove si va a morire, ma un posto dove si va a vivere fino all’ultimo istante con dignità. La morte è naturale solo quando si muore con qualcuno che si prende cura di noi. Morire da soli non è naturale, non dovrebbe esserlo. E prendersi cura degli altri non è una cosa che si fa: è un bisogno, un bisogno primario come mangiare e bere». Ecco il segreto di una buona morte e anche di una buona vita.

E per arrivare a questo «gli operatori sanitari devono offrire prima di tutto se stessi, e solo dopo la loro competenza. Cuore e mente. Sembra niente, eppure questo trasforma i pazienti. E gli operatori. Perché fa scoprire la ricchezza del donarsi a vicenda».

Un romanzo interessante, un omaggio alla grande innovatrice, un’ottima fonte per conoscere una delle più eccellenti menti del secolo scorso, capace di rompere gli schemi, di studiare e indossare il camice avvalendosi delle competenze di tutti i ruoli sanitari, per rendersi completa e offrire il suo aiuto incondizionato, incarnando la definizione di hospice stesso, luogo dove tutti gli operatori, figure professionali (infermiere, OSS, medico, psicologo, assistente sociale) lavorano insieme con amore, dedizione e sensibilità, per il bene comune che si chiama persona, nel rispetto della sua autodeterminazione e unicità. Rispetto in vita e ancor più nella morte. 

Di cosa è fatta la speranza  di Emmanuel Exitu (ed Bompiani 2023)


02 marzo 2024

LA MITE di Fëdor Dostoevskij

 


“La mite” fa parte delle prime opere dell’autore russo, che come ci racconta la critica, si ispirava spesso a fatti di cronaca per poi romanzarli con fantasia, riflessioni e approfondimenti. I suicidi fra le giovani donne erano assai frequenti nella Russia di fine ottocento, e pare che la storia descritta abbia avuto matrice da un fatto realmente accaduto.

Il romanzo breve di Fëdor Dostoevskij è un lungo monologo di un uomo – senza nome  – profondamente solo, stremato, deluso, umiliato dalla società degli uomini, che caduto in miseria riesce a rialzarsi, grazie a un’eredità ricevuta. Deciso a far soldi con un banco del pegno, incontrerà nel proprio negozio una fanciulla di appena sedici anni – anche lei senza nome – «esile, una biondina di media statura», in cerca di lavoro come governante.

«Compresi immediatamente che lei era buona e mite. Le persone buone e miti non resistono a lungo e, pur non aprendosi mai del tutto, è come se non fossero in grado di sottrarsi alla conversazione: rispondono quasi a monosillabi, ma rispondono, e più si va avanti, più parlano; l’unica è che non siate voi a desistere, se vi preme parlare con loro». Dapprima indifferente e arrogante verso di lei, si invaghirà, fino a farle la dichiarazione e sposarla.

La mite è una donna semplice, pensierosa, enigmatica, mansueta sì, ma intelligente.

«Del suo amore io allora ero sicuro[… ]mi amava, o meglio, per essere più precisi, desiderava amarmi». Nonostante la volontà di trovare un equilibrio, un’armonia di rapporto, la coppia non riuscirà mai a trovare un punto d’incontro, anzi per orgoglio e ostinazione di lui soprattutto, le loro strade si allontaneranno sempre più.

«Come in silenzio risponde l’uomo, Io poi sono maestro del parlar tacendo, tutta la mia vita l’ho trascorsa parlando in silenzio e sempre in silenzio sono passato, solo con me stesso, attraverso autentiche tragedie». Un silenzio determinante a creare un sempre maggior distacco, sfiducia, gelosia, disprezzo, incomprensione, sentimenti che l’autore sa descrivere in maniera magistrale.

«Ma il mio odio non potè mai maturare e consolidare nella mia anima. Io stesso d’altro canto sentivo che in qualche modo si trattava soltanto di un gioco. Neppure allora, benché io avessi sciolto il matrimonio comprando il letto e il paravento, né allora né mai, mai potei vedere in lei una colpevole».

Convinto di essere lui a condurre le regole del gioco, sarà screditato, ritrovandosi ai piedi di lei a supplicare quell’amore che non ha mai voluto manifestare.

La “mite” a dispetto del nome, si rivelerà una donna animata da una forza incredibile, ribelle, indipendente e audace: nel far la civettuola con il finanziere, quando impugna la rivoltella puntandola alla tempia del consorte, quando si fa silenziosa .... L’indifferenza, la paura di quello sguardo di «severa meraviglia», la porteranno infine ad ammalarsi fino a compiere il tragico atto. 

Già dall’inizio sappiamo che la donna  è morta, la vediamo distesa sul tavolo, composta con le braccia conserte e le mani che stringono l’icona della Madonnina  con la quale si è buttata dalla finestra, ma anche a conoscenza dell’epilogo, rimaniamo incollati alla pagina con sempre rinnovato stupore e sorpresa.

Concentrato su di sé l’uomo, per dissolvere ogni dubbio, cerca continue certezze, giustificazioni alla continua ricerca di un appiglio qualsiasi a sua discolpa, un soliloquio finalizzato solo a salvare sé stesso, a uscire indenne da un immaginario processo.

Una capacità di introspezione unica, una sensibilità che sa penetrare nell’animo umano per sviscerarne ogni aspetto, attraverso un linguaggio incomparabile, vero, emozionale.

Il messaggio è un urlo, un grido alla società, agli uomini: Amatevi, l’amore è la sola medicina efficace per sconfiggere il male della solitudine. 

Una storia, ahimè, così tremendamente moderna.

La mite di Fëdor Dostoevskij (Feltrinelli 1997 )


28 febbraio 2024

Credere, Disobbedire, Combattere - Come liberarci dalle proibizioni per migliorare la nostra vita di Marco Cappato

 

“Ritengo un mio diritto inalienabile poter scegliere se, come, quando” Corrado Augias

Un saggio molto interessante e in linea con i miei attuali studi “Credere, Disobbedire, Combattere”, una lettura che ripercorrendo il periodo socio politico culturale dagli anni Cinquanta in poi, ci porta a soffermarci, riflettere, ponderare alcuni aspetti o meglio norme che hanno caratterizzato, influenzato e tuttora rappresentano la nostra realtà politica e sociale. Al di là dell’ideologia partitica radicale, ciò che ho apprezzato e ritenuto molto valido è l’approccio umano, globale e non discriminatorio alla persona nella sua molteplicità e differenziazione, nel rispetto del proprio e altrui diritto.

Tanti gli argomenti trattati da Marco Cappato – parlamentare europeo, radicale, promotore di svariate azioni di protesta civile – con un linguaggio preciso, competente e colto. Si va dall’eutanasia e suicidio assistito, alla libertà sessuale, dalla legalizzazione delle droghe a quella della libertà di informazione su Internet, dalla legge sull’ aborto alla legalizzazione della ricerca e utilizzo delle cellule staminali a favore di malattie neurovegetative, Alzheimer, SLA, ecc…, dalla manipolazione genetica a fini diagnostici e terapeutici a quella sugli OGM in campo alimentare.

Quello che mi preme sottolineare e valorizzare della lettura, a parte le tematiche che aprono capitoli assai ampi e complessi è, come dicevo, proprio l’atteggiamento, la sensibilità di fondo, la postura, il modo di porsi verso la vita nei suoi aspetti più critici – come per es, la capacità di disobbedire se lo si ritiene giusto, la scelta di decidere la propria vita e la propria morte, l’atteggiamento di non violenza, ecc… – ovvero permettere all’individuo di autodeterminarsi, nel rispetto della sua individualità, dei suoi valori, desideri, credo e dell’altro individuo.

Ecco le storie e le scelte di Welby, del padre di Eluana Englaro, di Fabiano Antoniani, riportate dall’autore con umanità e commozione. Il punto chiave è proprio questo: dare la possibilità di decidere della propria vita, anche quando siamo intrappolati in un corpo che non riconosciamo più (e la tecnologia, l’evoluzione della medicina in questo si sono rivelati armi a doppio taglio), «in nome dell’affermazione del diritto all’ autodeterminazione, alla libertà fondamentale di scegliere per sé stessi, il proprio corpo e la propria malattia anche nella fase finale della vita in nome dell’effettiva attuazione degli articoli 3,13 e 32 della Costituzione».

Non c’è solo l’eutanasia come soluzione alle sofferenze del fine vita; le cure palliative sono oggi la risposta alternativa alle cure attive, la risposta giusta e ragionevole, per migliorare la qualità e dignità della persona nel fine vita. « Le persone morenti sono tra le più bisognose di aiuto e di ascolto. Un aiuto intelligente, un ascolto difficile, per affrontare la paura e la solitudine, per comprendere e lenire il dolore, ma anche per fermarsi quando la persona non vuole più andare avanti». O come dice l’editoriale “The Economist” dell’aprile del 2017: «Conversazioni aperte, oneste con il morente dovrebbero far parte di una medicina moderna tanto quanto la somministrazione di farmaci. Una morte migliore significa una vita migliore, fino alla fine».

E oggi esiste a tutelarci, la Legge 219/2017 che sancisce le “Norme in materia di consenso informato e di Disposizioni anticipate di  trattamento”, purtroppo poco divulgata perciò poco conosciuta anche da coloro che dovrebbero metterla in atto proprio attraverso la cura e l’assistenza sanitaria.

Illuminante questo passaggio in materia di democrazia. Cosa si può fare quando in un sistema corrotto ci si scontra contro muri invalicabili? «Restiamo noi» restare sé stessi, continuare a portare avanti il proprio ideale, il proprio sentire, la propria ragione (e ribadisco sempre nel rispetto dell’altro) al di là della maggioranza e della convenienza, è davvero ciò che fa la differenza e che può determinare il cambiamento, più del clamore di tante rivoluzioni. Per dirla in altre parole, è solo una goccia nel mare, senza la quale il mare però sarebbe diverso. Io ci credo, davvero.Ma per attuarlo dobbiamo prima conoscere. «La conoscenza è riconoscenza di qualcosa che è già in noi, e la rivoluzione interiore è un movimento in dolce continuità».

Quindi concludo, come una lista della spesa, con le citazioni più significative, che sento mie perché appunto le ri-conosco.

«Disobbedire civilmente non significa “solo ribellarsi”. Significa assumersi la responsabilità delle proprie azioni, sperimentare alternative, creare conoscenza».

«Cercare di comprendere e di convincere il (pre)potente, invece di sopraffarlo con maggiore violenza, è l’elemento fondamentale per l’efficacia della nonviolenza stessa, perché la violenza è proprio il terreno sul quale chi comanda è a suo agio».

«Disobbedienza civile è sperimentazione di un modo nuovo di fare le cose [...] Succede quando il vecchio modo di fare le cose non è più al passo con nuove sensibilità e consapevolezze, o più semplicemente non funziona più. Per valutarlo, niente è più utile dei dati di fatto, cioè proprio del sapere scientifico».

Quindi, disobbediamo civilmente e aggiungo io, ragionevolmente.

“Credere, Disobbedire, Combattere - Come liberarci dalle proibizioni per migliorare la nostra vita” (ed. Rizzoli 2017) di Marco Cappato


16 febbraio 2024

LA VEGETARIANA di Hang Kang

 


LA VEGETARIANA di Hang Kang

Seoul, Corea del Sud. Yeong-Hye è una giovane donna, piuttosto ordinaria,«né alta né bassa, capelli a caschetto né lunghi né corti, colorito itterico e malaticcio, zigomi un po’ sporgenti [] non presentava nemmeno particolari difetti, e quindi non ci fu ragione di non sposarci» ce la presenta così il marito, al momento del loro primo incontro. All’improvviso però Yeong-Hye smette di  mangiare carne e il marito la trova nel cuore della notte davanti al frigorifero intenta a svuotarlo da tutto ciò che sia carne e pesce, per gettarlo in enormi sacchi dell’immondizia. Allo stupore del consorte lei risponde : «Ho fatto un sogno».

E quel sogno che si protrarrà per giorni e mesi, vede Yeong-Hye trasformarsi, ferma nella decisione di non mangiare più ciò che ha gambe, mani, piedi, una testa, fino alla convinzione di potersi nutrire solo di acqua, e aria, come fanno le piante, gli alberi. Tutto il menage matrimoniale, familiare e sociale ne sarà sconvolto, portando la narrazione verso un epilogo inesorabile.

Già l’incipit (il punto di vista del marito) ci immerge subito nel dramma, mostrandoci tutta la complessità  e criticità del loro rapporto «Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno». Come potremmo aspettarci una sorte diversa se questi sono i presupposti?

Interessante come l’autrice (che non conoscevo) gestisce la narrazione, introducendo e sviscerando lastoria di Yeong-Hye, non dal suo punto di vista, ma da tre punti di vista diversi: quello del marito, del cognato e della sorella maggiore, salvo alcune parentesi in corsivo in cui la storia sembra rappresentare la visione onirica e allucinatoria della protagonista stessa. E altrettanto sorprendente è il fatto che la scrittrice riesce a entrare nel cuore del personaggio, sebbene non sia espresso soggettivamente dalla sua prospettiva: ciò che lei sente e percepisce davvero, ciò che la spinge a rifiutare il cibo, tutta la sofferenza, il malessere, il disagio, il desiderio di essere altro da sé, in un continuo e degradante annullamento. Ma all’allucinazione si affianca anche una fredda, lucida, spietata determinazione a perseguire il cammino intrapreso, nella direzione di quella che per Yeong-Hye rappresenta la liberazione da ogni male, la trasformazione, il ritorno alle origini nel ricongiungimento con la Natura madre «Sul mio corpo crescevano le foglie, e dalle mani mi spuntavano le radici… E così affondavo nella terra. Sempre di più…».

Più che una storia di scelte etiche alimentari, come il titolo potrebbe far pensare, è la storia di un’anoressia, una malattia che non lascia scampo, se chi la vive non riesce (o vuole) trovare alternative se si ostina a conviverci senza offrirsi altre possibilità.

Al dramma di Yeong-Hye si affiancano i vissuti complicati del marito (un uomo egoista, ignorante, maschilista), del cognato (un artista insoddisfatto, feticista, alla ricerca del piacere dell’arte e della carne) e della sorella (donna insoddisfatta e delusa dal matrimonio, che più di una volta si è trovata in condizioni disperate e difficili ma che a differenza di Yeong-Hye è riuscita a uscirne). La sorella è la figura positiva e forte, «forte nella sua bontà connaturata, nella sua umanità [] senza mai fare del male a nessuno», capace di lottare, intraprendere la strada più difficile della resistenza e della razionalità, unita alla consapevolezza  di dover reagire (forse anche per il figlioletto di cui sente tutta la responsabilità),  guardare la realtà in faccia e confinare i propri sogni al margine:  «Non esiste soltanto il sogno, no? Dobbiamo svegliarci a un certo punto, non è così?» .In-Hye è anche la persona che in qualche modo riscatterà e darà di nuovo dignità alla sorella.

Una storia tragica e attuale, dove anche il sesso ha la sua parte intrecciandosi al sentimento. Una vicenda purtroppo possibile in qualsiasi contesto sociale, non solo coreano che poco conosco, dove l’alienazione, il mal di esistere, la depressione, la sofferenza dell’anima che porta all’anoressia e all’annullamento del sé, conducono a una lenta e inevitabile discesa negli Inferi, in cui nessuna ragione, logica e razionalità può avere la meglio.  

Una lettura piuttosto cruda, vera, essenziale, dal ritmo serrato e incalzante,  una prosa diretta, fluida, scorrevole, che sa esplorare con perizia, oggettività e umanità l’intimità dell’animo e che ha saputo toccare le corde giuste della mia sensibilità. Peccato che in alcuni passaggi vi siano errori verbali (tempi sbagliati), sicuramente frutto di una traduzione forse frettolosa, che la mia mente però ha prontamente corretto.

Un libro consigliato a tutti; per me la scoperta di una scrittrice che senza dubbio leggerò ancora.

La vegetariana di Han Kang” (Gli Adelphi Edizioni 2007)


03 febbraio 2024

STELLA MARIS di Cormac McCarthy

 

STELLA MARIS di Cormac McCarthy

«Se sei abbastanza sano di mente da sapere che sei pazzo non sei così pazzo come se pensassi di essere sano di mente».

Non è una lettura certo facile Stella Maris di Cormac McCarthy (che leggo per la prima volta incuriosita dalla storia accattivante e dalle recensioni) definito da molti un thriller esistenziale. Ultima opera dell’autore da poco scomparso, Stella Maris costituisce il prequel de Il passeggero, anche se le due storie  rimangono separate e indipendenti.

Come dicevo è stata una lettura impegnativa e ho avuto più volte la tentazione di abbandonarla soprattutto nei passaggi dove il linguaggio diventava troppo tecnicistico e di non facile comprensione per chi come me non è “addetta ai lavori”e inesperta di matematica, fisica e filosofia. Facile bloccarsi su nomi sconosciuti, su enunciati, teorie e speculazioni di cui non conoscevo neppure l’esistenza. Però mi sono fatta coraggio e ricercando e approfondendo la terminologia ignota, sono riuscita a comprendere meglio e proseguire. Inoltre mi son detta: «Non capisce neppure Michael Cohen con cui Alicia si interfaccia più volte lo psicanalista lo ribadisce dunque posso permettermelo anch’io».

Alicia Western è una ragazza di vent’anni, esperta di matematica, fisica e filosofia (indagando ho scoperto che McCarthy stesso si appassionò a questi studi preferendoli alla letteratura), intelligentissima, suona il violino in maniera eccellente, con una diagnosi dall’età di dodici anni di schizofrenia, con manie suicide, tracce di autismo e anoressia. Nelle sue allucinazioni incontra personaggi «intrattenitori» o «famigli» come li definisce il dottor Cohen, dalle forme più strane: Talidomide Kid è uno di loro, un nano che al posto delle mani possiede ali e dialoga con lei non solo a parole. Sicuramente un caso interessante per il dottor Cohen, che l’accoglie nella struttura psichiatrica Stella Maris (nella quale era già stata internata due volte) e intraprende con lei un nuovo percorso terapeutico. Sarà un’impresa anche per lui accompagnarla in questa avventura, perché Alicia ha davvero una mente potente, acuta e arguta, poliedrica, analitica e universale, che afferma tutto e l’istante dopo lo nega, con una strabiliante cultura e proprietà di linguaggio unite alla capacità manipolatrice con cui riesce bene a deviare il percorso che il terapeuta cerca di tracciare con lei. «Lei pensa che a volte non ascolto. Penso che ascolta. Non son sicura di che cosa sente» già in questo botta e risposta si capisce già molto del suo carattere. Oppure «Sopporto male la gente che vuole aggiustarmi».

Alicia è un personaggio memorabile, con la sua storia di bimba difficile e mente geniale perciò isolata dal resto del mondo; per il rapporto conflittuale con la madre (morta quando era piccola) e il padre troppo indaffarato in questioni mondiali; per l’amore incestuoso col fratello Bobby maggiore di lei sette anni (protagonista de Il passeggero); per la relazione con la nonna, l’unica persona che la cresce e si preoccupa di lei finchè Alicia non se ne andrà in giro per il mondo. Sullo sfondo della storia si muove la Storia, quella legata al Progetto Manhattan, con la realizzazione delle prime bombe atomiche in cui il padre di Alicia, come fisico aveva preso parte. Tutto ciò lo apprendiamo attraverso il dialogo tra la ragazza e il dottor Cohen in cui emerge anche tutto il pessimismo «La mia ipotesi è che si possa essere felici fino a un certo punto. Mentre il dolore non sembra avere fondo», il suo vissuto emotivo e il tormento dell’anima, nelle lunghe riflessioni su sé stessa in relazione al mondo, combattuta e pervasa dal dubbio, dall’incertezza della realtà dell’esistere.

Proprio questi passaggi, in cui si avverte tutta la tensione e vivacità del suo mondo interiore, sono quelli che più mi hanno ancorato al libro. Come quando parla della malattia mentale: «La malattia mentale è una malattia […] è una malattia associata a un organo che per la conoscenza che ne abbiamo potrebbe anche appartenere ai marziani. È probabile che il comportamento deviante sia un mantra. Nasconde più di quanto svela. Fra i tanti problemi che il terapeuta deve affrontare c’è che il paziente potrebbe desiderare di non essere curato». C’è in questa frase, che sembrerebbe dello psichiatra ma che invece è di Alicia, un’ iniziale e interessante tematica che affronta il problema etico delle scelte di cura e il diritto del paziente alla sua autodeterminazione nel rispetto della sua volontà e libertà.

Ma anche il tema della morte è affrontato dalla protagonista in maniera molto lucida e attendibile: «Contemplare l’idea della morte dovrebbe avere un certo valore filosofico. Addirittura palliativo. Banale dirlo, ma il modo migliore per morire bene è vivere bene».

E ancora: «Non penso che ci siano modi per prepararsi alla morte. Bisogna inventarsene uno. Non c’è nessun vantaggio evolutivo nell’essere bravi a morire. Per trasmetterlo a chi? La cosa con cui stai facendo i conti – il tempo – non è malleabile. Salvo per il fatto che più lo covi meno ne hai». Pillole isolate davvero piene di saggezza.

Il ritmo è serrato, di un’intensità mantenuta ed esasperante, tanto da richiedere pause per una sigaretta o una tazza di tè,.che lo stesso terapeuta propone e che Alicia accetta volentieri.

Dal punto di vista stilistico è davvero notevole. L’autore riesce a condurre un intero romanzo - che si articola per circa duecento pagine - senza l’ausilio di nessun altra forma narrativa se non quella del dialogo, come già altri scrittori avevano fatto prima di lui ( mi viene in mente il coetaneo Philip Roth nel romanzo “Inganno”). Non è una scelta facile, sia per lo scrittore, che deve caratterizzare i personaggi proprio su ciò che fa dir loro, dal quale deve trasparire tutto il non verbale, la tonalità della voce, l’ atteggiamento, la gestualità, l’espressione facciale, la mimica, la postura che per il lettore il quale attraverso l’alternanza del dialogo (non sempre simmetrica) deve capire chi sta parlando ed entrare nel personaggio giusto, “immaginando” tutto il resto, i segnali che lo identificano, ricostruendo ogni elemento che l’autore non dice ma che esiste, (le dimensioni della stanza, le pareti bianche adornate da quadri o poster, l’illuminazione artificiale o naturale di una finestra, gli abiti di Alicia e del dottor Cohen, il bollitore del tè in un angolo). Una strategia davvero interessante.

Concludo ritenendolo un libro difficile ma d’effetto, per la capacità dell’autore di trascinare e coinvolgere anche noi lettori nel vortice di questa lucida follia, dove genialità e pazzia sembrano andare a braccetto separate da una sottile e fragile linea. Insieme allo psichiatra ci perdiamo nelle lunghe disquisizioni di Alicia, ci incantiamo, sprofondiamo con lei e ritorniamo in superficie, grazie anche, e per fortuna, alla semplicità di un gesto, come quello di una carezza, o tenersi la mano «perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa».

“Stella Maris” di Cormac McCarthy (Einaudi 2022)


29 gennaio 2024

ESSERE MORTALE Come scegliere la propria vita fino in fondo di Atul Gawande

 

«Per gli esseri umani la vita ha un senso perché è una storia […] E nelle storie il finale conta».

La vita di un essere umano è la biografia della grande biblioteca dell’Umanità, ognuno ha la sua storia, dettata dalle proprie origini, dalle vicende che l’hanno determinata sulla base delle proprie  scelte (o non scelte) desideri, volontà… e ogni capitolo ha il suo valore, non per ultimo quello del fine vita, momento conclusivo e proprio per questo, di straordinaria importanza. Perché sminuirlo e non considerarlo in tutta la sua valenza e rilevanza?

Atul Gawande, medico chirurgo statunitense, ci porta a riflettere su questo momento fondamentale della vita, che dobbiamo rendere interessante e significativo (per chi se ne va ma anche per chi resta) e non demonizzarlo come invece accade.

Molte le tematiche affrontate che provo a riassumere nei capitoli dedicati.

Indipendenza. Indipendenza è una parola che spesso troviamo contrapposta al problema della “vecchiaia”, fase della vita di un individuo in cui si assiste a un decadimento fisico e cognitivo più o meno lento. Lo sviluppo tecnologico, scientifico, informatico e medico ha determinato un progresso tale da portare la popolazione a vivere più a lungo, a invecchiare, condizione che non sussisteva nei secoli passati quando l’età media era intorno ai cinquant’anni. Ovviamente con l’aumento dell’età sono aumentate le patologie croniche che la medicina controlla con la terapie, ma che possono creare disabilità e disagi tali da minare spesso l’indipendenza delle persone. Questa è la grande piaga del nostro secolo, la cura e l’assistenza di un’ ampia fascia di popolazione che non è più autosufficiente e ha bisogno di assistenza e cura continua spesso da parte di personale competente. Con la scomparsa della famiglia patriarcale, l’anziano è diventato sempre più una questione sociale, di indirizzo medico assistenziale e sempre meno familiare. I figli stessi sono già in età avanzata nel gestire il proprio genitore, non vivono con lui, e quando questi perde la propria autonomia, il problema emerge improvviso e devastante. Oggi le soluzioni (almeno nella nostra realtà italo-europee) sono le badanti o istituzioni quali RSA, case di riposo, istituti che permettono la gestione quotidiana di una persona non più autosufficiente da parte di personale qualificato. 

Tutto si disfa. Atul Gawande ci mostra la vita di un individuo come una traiettoria sulla linea delle ascisse, che la medicina e la sanità pubblica contemporanea hanno cambiato radicalmente, come dicevo innanzi. Nei traumi, malattie a esito infausto (come un infarto cardiaco, emorragia cerebrale massiva,ecc…) la traiettoria ha un andamento costante e soddisfacente per qualità della vita fino all’improvvisa caduta determinata dalla morte. Grazie alla Medicina e Chirurgia, la traiettoria può essere modulata variando così a seconda delle patologie. Nelle malattie tumorali l’andamento è costante e soddisfacente fino a un declino più o meno lento nella fase finale della vita. Nella malattie croniche invece si assiste a un andamento costantemente in discesa con cadute improvvise (crisi e scompensi ) subito gestiti dalla medicina che riportano la persona a un livello sempre inferiore rispetto a quello prima dell’evento scatenante. Nell’invecchiamento fisiologico invece la traiettoria è una linea che scende in maniera graduale verso il basso, fino all’esito finale. L’autore ci fa notare che vivere così a lungo come viviamo oggi rappresenta un fenomeno assai innaturale, in quanto la morte di vecchiaia in passato era cosa rara. Perché si invecchia allora? Sembra che la genetica sia solo un frammento nella spiegazione del quesito. Sembriamo progettati per funzionare a tutti i costi, e ce lo dimostra il fatto che abbiamo due occhi, due reni, due orecchie, due braccia… nel caso uno dei due venga a mancare. Illuminante questa considerazione pur così semplice, nel giustificare il dualismo del nostro corpo.

Ci sono alcune specializzazioni più attraenti per la carriera di un medico (la chirurgia plastica, la radiologia, per es…) rispetto ad altre come la geriatria (e io aggiungo le cure palliative) che deprivano di una qualità importante della professione ovvero la possibilità di garantire la speranza di vita a lungo termine. Molti medici lavorano poco volentieri con gli anziani. Ovvio, mi viene da pensare, non è un settore della medicina che dà soddisfazione e speranza, dal momento che dovremmo affrontare problemi sconvenienti come l’accettazione dell’ inevitabile declino del corpo e quello del fine vita, perché come asserisce A.G «il sogno di tutti è vincere il tempo, l’ingrato compito del geriatra è farci accettare che non ne siamo capaci».

Il problema fondamentale nella presa in carico dell’anziano è che non si può prendere in considerazione solo ed esclusivamente le patologie croniche (l’insufficienza renale, cardiaca, respiratori il diabete, ecc…) ma tutta la persona nella sua interezza e globalità, in una visione individuale  e soggettiva (ciò che è bene per quella persona), familiare e sociale. I medici non geriatri spesso non riescono a fare questa considerazione, forse per cultura, per mancanza di strumenti e di risorse, per abitudine… indirizzandosi più sulla cura del sintomo e cercando la soluzione per quello. E da qui nascono tutti i problemi.

Dipendenza. Non è la morte che le persone molte anziane mi dicono di temere. È quel che la precede: perdere l’udito, la memoria, gli amici più cari, le  abitudini di vita».

Negli Stati Uniti negli anni Cinquanta le case di carità per l’assistenza agli anziani indigenti e malati chiusero determinando un grosso problema sanitario e sociale. Ovviamente il tutto non poteva risolversi da parte dell’ospedale, luogo destinato alla cura di eventi acuti e non alla gestione delle patologie croniche. Cominciò così a delinearsi, una nuova concezione di luogo di assistenza per la persona anziana con patologie croniche: la moderna casa di riposo, nursing home nata più dalla necessità di liberare posti letto dall’ospedale che per risolvere i problemi legati alla terza età. Le nursing homes fiorirono come alberi in primavera arrivando a un numero di tredicimila nel 1970 - documenta l’autore - col supporto anche di Medicaid, il sistema di previdenza sociale americano. L’evoluzione c’è stata anche sulla base di iniziative private che hanno cercato di ricreare case comunitarie in cui l’anziano potesse giovarsi dell’assistenza necessaria e al contempo vivere la parte conclusiva della propria vita sentendosi a casa propria.

Il problema di un luogo di cura e assistenza nella terza età non riguarda solo la realtà statunitense, ma anche la nostra. Le case di riposo purtroppo rimangono spesso istituzioni non centrate sulla persona ma su problematiche di carattere sociale, gestionale, pratico, l’alternativa quando non ci sono altre soluzioni.

Assistenza. Cos’è la vecchiaia? Una serie di definizioni interessanti ce le fornisce l’autore avvalendosi di alcune teorie «Secondo alcuni è un mutamento che riflette la saggezza acquisita con una lunga esperienza di vita. Altri ritengono che si tratti del risultato cognitivo di cambiamenti dei tessuti cerebrali legati all’età. Altri ancora sostengono che il cambiamento di comportamento sia imposto agli anziani e non rifletta ciò che nel profondo del cuore essi vogliono veramente. I vecchi restringono le loro mire perché le limitazioni imposte dal declino fisico e cognitivo non consentono loro di perseguire gli obiettivi di un tempo, oppure perché il mondo glielo impedisce per l’unica ragione che sono vecchi. A quel punto invece di lottare si adattano, o per dirla in modo più triste si arrendono». E l’arrendevolezza aggiungo io coincide purtroppo con la perdita dell’autosufficienza nel paziente fragile (oppure è questa che la determina) , che non può più farsi le proprie ragioni perché dipende da qualcun altro. E questa è la tomba della persona, alienata nei propri desideri. Ma quali sono i desideri dell’anziano fragile? È una domanda che dobbiamo sempre porci. Studi dimostrano che le persone che risiedono nelle RSA come desiderio primario esprimono la condizione di sentirsi a casa. Perché come dice A.G «La casa è l’unico posto dove le proprie priorità regnano sovrane. A casa tua, decidi tu come spendere il tuo tempo, come ripartire il tuo spazio, come gestire i tuoi beni personali». Mentre purtroppo le case di assistenza non mettono al centro i bisogni e i desideri della persona (alzarsi alla propria ora, mangiare quando si ha fame, guardare alla tv ciò che si preferisce, circondarsi di persone significative …) in quanto tutto ruota attorno a una organizzazione standard che possa nella maniera più redditizia ottimizzare l’assistenza, garantire sicurezza e soddisfazione dei bisogni primari appunto.

Interessante la carrellata di esperienze innovative di case comunità che l’autore ci racconta, con l’obiettivo di realizzare proprio questa possibilità. Esperienze che hanno più o meno funzionato, anche se «non esistono metodi validi per valutare il successo di una struttura residenziale nell’aiutare i residenti a vivere. Mentre in materia di salute e sicurezza, invece, disponiamo di criteri molto precisi».E aggiunge in battuta finale: «è cosi che vanno le cose […] i nostri vecchi non si ritrovano che con questo: un’esistenza istituzionale, sotto controllo e sotto tutela, una risposta medica a problemi medicalmente irrisolvibili, una vita pensata per essere sicura, ma priva di interesse».

Una vita migliore. Riportandoci l’esperienza di Bill Thomas, medico e direttore di una casa di riposo, riferisce quelle che «chiamava le “tre piaghe” della vita in casa di riposo: la noia, la solitudine, l’impotenza». Perciò introdusse cani, gatti, uccellini, un giardino con piante di cui i residenti potessero prendersi cura, offrendo loro una ragione di vita.

Quale dovrebbe essere l’ obiettivo delle residenze sanitarie assistite, delle case per anziani, di riposo o comunque le vogliamo chiamare? Aiutare le persone autosufficienti e non autosufficienti, nella soddisfazione dei bisogni primari, preservando dignità e valore della vita. Cosa occorre? Luoghi ridimensionati, più intimi, dove esista la privacy, pur garantendo protezione e sicurezza. Non mancano nella narrazione molti esempi di esperienze americane in cui sono stati raggiunti risultati simili: l’autonomia, la sicurezza nel rispetto della propria libertà di azione, la dignità, l’orgoglio di vivere in coerenza con le proprie ideologie. Perché è questo che l’anziano vuole, e che vorremo anche noi quando lo saremo, «continuare a scrivere la nostra storia […] mantenere la libertà di plasmare la nostra vita in modo coerente con la nostra personalità e con ciò in cui crediamo».

«La lotta dell’essere mortale è la lotta per mantenere l’integrità della propria vita: è la battaglia per evitare di finire così degradati, prostrati, o sottomessi da non aver più un legame con ciò che siamo stati o con ciò che vogliamo essere».

Lasciare andare. «Dobbiamo porre un freno agli imperativi di tipo prettamente medico e resistere al nostro bisogno di armeggiare, riparare, controllare». Una frase forte che in poche parole dice tutto. Non è facile in una cultura in cui dobbiamo sempre vincere, fare i conti con la morte che rappresenta la sconfitta. Ecco perché è più facile agire, accanirsi, che lasciare andare e far sì che la vita segua il corso naturale degli eventi. Siamo impreparati, ignoranti, non conosciamo le modalità di accompagnamento alla morte. In passato esistevano manuali popolari, come la versione medievale sull’ “ars moriendi” pubblicato in latino dove «la gente credeva che la morte dovesse essere affrontata stoicamente, senza paura né autocommiserazione, e senza altra speranza se non quella riposta nella misericordia di Dio». Oggi esiste «L’hospice, che ha tentato di proporre un nuovo ideale di modo di morire. Non tutti hanno accettato i suoi rituali, ma coloro che lo hanno fatto stanno contribuendo alla composizione negoziata di un’“ars moriendi” della nostra era. In questo negoziato, tuttavia, trova anche espressione una battaglia: non solo contro la sofferenza ma anche contro lo slancio apparentemente inarrestabile del trattamento medico». La scelta dell’hospice non accelera il processo del morire, anzi, come dimostrano alcuni studi «Si vive più a lungo solo quando si smette di cercare di vivere più a lungo».

È più difficile parlare chiaramente al paziente della prognosi infausta, dirgli la verità. Non siamo preparati culturalmente e spesso non lo è neppure lui. È più facile continuare a infondere speranza, a illuderlo con la possibilità di nuove terapie. «I medici appaiono particolarmente attenti a non frustrare le aspettative dei malati. Hanno molta più paura di peccare per pessimismo che per ottimismo». Per questo è fondamentale la Pianificazione delle cure in cui insieme alla persona, il medico, l’equipe, comincia un percorso di cura che non sarà finalizzato alla guarigione, alla cura del sintomo della malattia (cure attive), ma all’alleggerimento della sofferenza creata dalla malattia (cure palliative), ai fini di una migliore qualità di vita della persona stessa e dei familiari. Un processo che richiede tempo e che si avvale della comunicazione come strumento base, per ascoltare, fornire indicazioni e conoscenze, accogliere e stabilire insieme alla persona e ai familiari il piano di cura.

«Le persone gravemente ammalate hanno altre preoccupazioni oltre al semplice prolungamento della loro vita […] vogliono evitare di soffrire, stare a più stretto contatto con familiari e amici, mantenere la lucidità mentale, non essere di peso agli altri e riuscire a dare un senso di completezza alla propria esistenza. Il nostro sistema di assistenza sanitaria tecnologica si è dimostrato clamorosamente incapace di soddisfare queste esigenze». La tecnologia purtroppo può andare avanti nel mantenere vitali gli organi, superando la soglia della volontà e dignità della persona e questo è ciò che dobbiamo assolutamente non permettere.

Conversazioni difficili. Le conversazioni difficili sono quelle che scavano dentro l’intimità della persona, sono quelle che portano a scelte sensate, a prese di coscienza e decisione, sono le conversazioni che permettono alla persona di ricevere le giuste informazioni sulla propria condizione di salute, di metabolizzarla con l’aiuto dell’interlocutore, nel rispetto della propria libertà e dignità.

Siamo passati dalla relazione “paternalistica” del passato (in cui il medico sapeva cosa era bene per il paziente e decideva) a una relazione di tipo “informativo” in cui al paziente vengono forniti dati e cifre (il medico è il tecnico esperto, il paziente il cliente e sta a lui la decisione). Ezekile e Linda Emanuel, due studiosi di etica, hanno ravvisato «un terzo tipo di relazione che hanno definito “Interpretativa” in cui il ruolo del dottore è aiutare i pazienti a stabilire ciò che vogliono […] Gli esperti l’hanno chiamato processo decisionale condiviso».

Atul Gawande spiega l’efficacia di questo terzo tipo di relazione raccontandoci l’esperienza personale con il fine vita del padre, affetto da una forma tumorale cervicale.

La vita ci impone spesso cambiamenti repentini che dobbiamo fare propri, ridefinendo noi stessi, ovvero riadattandoci, creando nuove identità al fine di ricollocarsi nella vita con uno scopo, una ragione. «È questo che si intende per avere autonomia: può succedere di non poter controllare le circostanze della vita, ma riuscire a essere l’autore della propria vita significa poter controllare quel che si fa con le circostanze che ci vengono date».

Le conversazioni difficili sono quelle che scoprono la pentola con dentro i fantasmi, le pene, le angosce più intime, quelle legate alla malattia infausta e alle conseguenze terribili che portano dolore e atroci sofferenze. Rendere possibile, creare l’opportunità di una conversazione difficile può anche allungare la vita oltre a renderla migliore.

Coraggio.  «Il coraggio è la forza di fronte alla conoscenza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare». Il coraggio durante la malattia o la vecchiaia è voler sapere la verità su ciò che si teme o si spera, e il coraggio di affrontare la realtà della mortalità. Ma, dice Atul Gawande «la vera sfida è decidere se a dover prevalere sono le proprie paure o le proprie speranze».

 Studi sul dolore dimostrano che è il picco-fine del dolore e non la durata del dolore a esprimere l’intensità di sofferenza data dalla memoria. «Per gli esseri umani la vita ha un senso perché è una storia. Una storia ha un senso d’insieme, e la sua traiettoria è determinata da momenti significativi, che sono quelli in cui succede qualcosa […] questo funzionamento è profondamente influenzato da come le cose vanno a finire […] e nelle storie il finale conta»

Il coraggio potrebbe essere l’equilibrio tra il controllo e l’impotenza.

«La vita assistita è molto più difficile della morte assistita, ma ha anche potenzialità straordinariamente più grandi».

E concludo con questa bellissima frase:

«La società tecnologica ha dimenticato quello che gli studiosi chiamano il ruolo del morente” e quanta importanza esso abbia per le persone che vedono approssimarsi al fine. Le persone vogliono condividere i ricordi, trasmettere saggezze e oggetti personali, definire le relazioni, fare pace con Dio e assicurarsi che chi resta non abbia problemi. Vogliono concludere la loro storia a modo loro. e se questo è vero, il modo in cui, per ottusità e incuria, stiamo negando alle persone la possibilità di ricoprirlo, dovrebbe essere per noi motivo di eterna vergogna».

E infine:

«Essere mortale significa anche sforzarsi di sopportare i vincoli della nostra biologia, ovvero i limiti imposti da geni, cellule, carne e ossa».

“ESSERE MORTALE-Come scegliere la propria vita fino in fondo” di Atul Gawande (Einaudi 2014)

08 gennaio 2024

LA SOLITUDINE DEL MORENTE di Norbert Elias

 


Norbert Elias è un sociologo tedesco di origine ebraica (1897-1990) che in queste poche pagine condensa il proprio pensiero sul vivere la morte, l’evento finale che più terrorizza l’essere umano, inserito nel contesto sociale attuale (riferito al 1982, anno di pubblicazione) e attraverso i secoli, avvalendosi anche delle teorie di altri sociologi e filosofi (quali Aries, Freud, Weber, ecc…). Scritto all’età di novanta anni, rispecchia la visione della morte dell’autore con serenità e accoglienza.

Molte le citazioni da rilevare e commentare, troppe per riportarle tutte – che comunque provo a estrapolare perché degne di nota e riflessione – fondamentali per capire come la morte sia un argomento tabù agli occhi del mondo odierno.

Le modalità – dice Elias – di affrontare la morte sono molteplici. Si può mitologizzarla (e questo è tipico dell’antichità – ma anche dei nostri giorni  – in cui si ipotizzava una vita nell’aldilà in cui tutto aveva un seguito); si può allontanarla, credendo e sentendosi immortali, ciò che avviene più frequentemente ai nostri tempi; possiamo guardarla dritta in faccia, comprenderla, riconoscerla come una fase inevitabile della vita e affrontarla oggettivamente per quello che è.

Nella nostra società contemporanea, ciò che ci riguarda non è solo il problema del morire, ma il fatto che la questione è spesso legata all’invecchiamento della popolazione che a sua volta si lega alla cronicità delle patologie.

Elias sostiene che «è necessario che la morte sia demitizzata il più possibile [] l’umanità è una comunità di mortali e gli uomini nel loro bisogno possono aspettarsi aiuto solo da altri uomini [] la morte è un problema che riguarda i vivi; i morti non hanno problemi».

Interessante ciò che afferma sulla coscienza della morte negli esseri viventi: «Tra gli esseri che muoiono, gli uomini sono le creature per le quali la morte costituisce un problema», infatti gli animali non hanno paura e angoscia della morte a differenza degli uomini. «Non è la morte ma la coscienza a costituire un problema per gli uomini». Questa è una considerazione davvero interessante.

L’approccio alla morte cambia nei secoli e nelle diverse società. In passato l’uomo aveva un’aspettativa di vita inferiore (a quarant’anni era già vecchio). Oggi un uomo a settant’anni può essere ancora attivo e in forze. L’età biologica e anagrafica non sempre coincidono e questo determina anche un atteggiamento verso il fine vita più ottimistico e lungimirante, allontanando sempre di più il momento dell’evento nefasto. Da ciò ne deriva anche un eccessivo attaccamento alla vita, e una tendenza a rimuovere il pensiero della morte sia a livello individuale che a livello collettivo, perché turba il benessere a cui aspiriamo. La morte così viene scacciata dal nostro pensiero, relegata in uno spazio a sé, separato dal contesto comunitario, lo stesso in cui si viene a trovare invece la persona morente.

Un tempo la morte era vissuta in ambito familiare – da qui il nome di morte addomesticata – che insieme alla nascita, rappresentavano eventi comunitari, mentre oggi vengono vissuti in maniera più privata, dice Elias. Oggi «obbedendo all’oscura sensazione che i bambini possano esserne danneggiati, nascondiamo loro gli eventi naturali della vita, che dovranno in seguito inevitabilmente conoscere e capire» ma «sarebbe salutare che essi familiarizzassero con l’evento naturale della morte», come accadeva un tempo. Oggi si prova imbarazzo di fronte al morente, perché non siamo preparati culturalmente, allontanandone in ogni occasione l’argomento. E quando gli uomini sono costretti al capezzale dei moribondi «non sono più in grado di confortarli con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza». È di primaria importanza invece la vicinanza alla persona morente, il suo aspetto emotivo, la sensazione di sentirsi ancora amata unita alla consapevolezza di rappresentare un valore per i propri cari. Ciò che manca, aggiungo io, è proprio l’abitudine a stare accanto alle persone che soffrono, che muoiono. Disagio che si protrae anche dopo la morte della persona cara, nel delegare a personale specializzato la preparazione della salma. Anche il cimitero, la città dei morti, è una sorta di isola, un luogo circoscritto, distanziato dal resto del contesto civile caotico e vitale, dove invece il silenzio, la solennità e sacralità  confermano ancora questa separazione.

Così «per quanto riguarda la morte, la tendenza all’occultamento, al suo isolamento, in una sfera speciale, non è certo inferiore ma anzi superiore rispetto al secolo scorso». Ciò che fa paura è che «non è la morte a ispirare terrore, ma la rappresentazione anticipata della morte». E questo lo traduco come la consapevolezza e la coscienza della possibilità e probabilità imminente del morire, da cui deriva la paura.

Tenendo conto dell’aumento della durata della vita «bisogna tenere presente la rappresentazione della morte come momento conclusivo di un processo naturale che si è allungato grazie ai progressi della medicina e dell’igiene». Per questo l’uomo, abbagliato anche da questa chimera, cerca di allontanarla il più possibile.

Altra caratteristica che determina un particolare atteggiamento verso la morte è legata al fatto che viviamo in società e culture pacifiste e che la probabilità di morire ammazzati, per guerre e battaglie è pressoché rara. Diversa è quindi la concezione in paesi dove c’è guerra e la morte è sempre imminente e presente. Oggi, aggiungerei, nelle nostre realtà europee e pacifiste, le paure sono altre e diverse: gli incidenti stradali e legati ai trasporti, le sciagure atmosferiche e le catastrofi climatiche, omicidi e più ancora i femminicidi che negli ultimi anni raggiungono cifre impressionanti.

Elias afferma che l’immagine della morte che domina nella coscienza di un uomo è strettamente legata all’immagine di sé e di uomo che prevale nella società in cui egli vive». Siamo di fronte a una visione individualistica del morire nel contesto sociale, che apre la questione della solitudine del morente. Ciò «rimanda a un complesso di significati in reciproca correlazione; può riferirsi alla consapevolezza del fatto che l’esperienza della morte non può essere condivisa con nessuno; può esprimere il sentimento che con la morte sparirà per sempre il piccolo mondo legato alla propria persona con tutte le sue memorie uniche, con tutti i suoi sentimenti, esperienze, conoscenze e sogni noti unicamente a colui che sta morendo. Può riferirsi anche alla sensazione d’essere abbandonati nella morte da tutte le persone cui si è affezionati [] Il motivo della morte in solitudine ricorre assai più frequentemente in epoca moderna che in passato».

La solitudine del morente dice Elias è legata anche a ciò che abbiamo vissuto e ciò che siamo stati nella vita, ovvero «la relazione che sussiste tra il modo in cui si vive e quello in cui si muore».

«Il modo in cui si muore dipende in non poca misura anche dalle possibilità che un individuo ha avuto di porsi, e raggiungere, delle mete durante la sua vita. Dipende da quanto una persona, in punto di morte, sente di avere trascorso una vita piena e sensata, o vuota o senza senso». In altre parole, se il morente è appagato della vita che ha vissuto, se sente che la sua vita è compiuta e ha avuto un senso, il morire stesso è più facile.

«Quando il morente sente che non riveste più alcuna importanza per le persone che lo circondano, allora è realmente solo».

Bellissimo il finale di cui sottolineo alcune parole chiave : «fine tranquilla e pacifica», «la sensazione dei morenti di non essere d’ingombro», «parlare con franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero». E infine per concludere: «L’etica dell’”homo clausus”, dell’uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita». E ci sarebbe ancora tanto da aggiungere a queste parole che parlano da sole, ma sufficienti a trarne una grande messaggio.

“La solitudine del morente” di Norbert Elias ( Il Mulino 1982)

05 gennaio 2024

LIMOUSINE di Paolo Orsini

 


Conosco Paolo Orsini da molti anni, ci unisce la passione per la scrittura e in più occasioni abbiamo collaborato alla realizzazione di progetti comuni, come le raccolte di racconti, a cura dell’Associazione Gruppo Scrittori Firenze, di cui facciamo parte.

Mi ha sempre colpito di Paolo l’impronta ironica del suo stile, quel tocco sottile e leggero (e non superficiale) nell’affrontare, trattare, discutere ogni argomento, restituendocelo nella sua rappresentazione più divertente ed enigmatica, portandoci però alla riflessione e all’approfondimento.

In questo suo primo romanzo Limousine, devo dire che sono rimasta sorpresa – piacevolmente si intende – nel trovarmi davanti a un’opera “seria”, più complessa, assai articolata che tocca tematiche attuali e molto interessanti.

Giovanni è un uomo sulla cinquantina, imprenditore, dal carattere forte e volitivo grazie al quale ha costruito un impero sostenuto dal denaro, dal successo e da una popolazione femminile di cui ama circondarsi. Una serie di eventi – che non svelerò assolutamente – cambiano all’improvviso l’andamento favorevole del gioco costringendolo a rimettere in discussione la propria vita, dove avranno una parte incisiva e decisiva i sentimenti (amicizia, amore, passione, dignità, rispetto…) e non più il calcolo e la fredda razionalità. Non voglio svelare oltre, che è veramente molto, perché in questo libro ciò che non mancano sono proprio le svolte e i continui colpi di scena. Nella prima parte l’autore ci fa vivere una vera e propria esperienza sensoriale a bordo dello yacht dell’amico Maurizio – col quale Giovanni si intrattiene per affari in compagnia di due splendide ragazze – sorseggiando drinks, gustando aperitivi e cene da gran gourmet, cullati piacevolmente dalle onde in rada, mentre una brezza leggera rinfresca le serate.

Nella seconda parte invece ci troviamo a New York su una Limousine bianca, attrezzata di ogni più sofisticata diavoleria, in cui una bellissima e glaciale donna, Penelope, accoglie il nostro protagonista sempre per una questione d’affari che si rivelerà però qualcosa di molto più intrigante.

Non aggiungo altro sulla trama, ma solo alcune considerazioni in merito allo stile che come ho già anticipato è molto sottile e leggero al contempo. Interessante la suddivisione in capitoli, intitolati col nome del soggetto che interagisce. Ciò permette all’autore di districarsi nella molteplicità e complessità delle personalità dei personaggi, partendo dal punto di vista di ciascuno di loro. Ottima strategia, che determina chiarezza e consente al lettore di penetrare nell’animo di ogni attore, di approfondire le caratteristiche di ciascuno senza difficoltà. Paolo Orsini sa deliziarci grazie alla sua capacità narrativa e immaginativa (lo scrittore afferma di non essere mai salito su uno yacht e su una Limousine, come Salgari non si era mai allontanato dall’Italia), e alla sua scrittura fluida e briosa, che si destreggia con conoscenza, abilità e competenza nella materia del mercato finanziario (ma non solo) aprendo le porte su un mondo poco conosciuto se non a pochi eletti – quello del lusso, del potere, delle escort – molto lontano dalla realtà borghese fiorentina dei suoi precedenti racconti.

Insomma un’ esperienza davvero unica e amabile, che consiglio ai lettori che vorranno divagare dalla realtà quotidiana, una storia che rimane stampata nella memoria come un film  contemporaneo di cui assaporiamo ogni momento senza mai annoiarci, dove non mancano le opportunità per riflettere su quali siano davvero i valori importanti della vita. Ringrazio Paolo Orsini per questa gradevole “divagazione” e resto in attesa del prossimo lavoro, in cui l’ho già visto all’opera.

“Limousine” di Paolo Orsini ( Youcanprint 2023)


29 dicembre 2023

LE PERSIANE VERDI di Georges Simenon

 


Era molto tempo che non leggevo un libro di Georges Simenon e rincontrarlo in questa lettura è stata ancora una volta  una sorprendente novità. Sì perché Simenon riesce sempre nella semplicità della trama e del linguaggio, a essere comunque straordinario, originale, unico.

Ėmile Maugin è un uomo che a cinquantanove anni si ritrova a fare un bilancio della propria vita. Nato da una famiglia povera, ma con la fortuna di avere in dote un corpo alto e robusto, cavalcando l’onda della sorte, grazie alla sua tenacia, passione e soprattutto talento – la recitazione – è riuscito a raggiungere la vetta della fama e del successo. Nonostante abbia ottenuto tutto ciò che un uomo possa desiderare, avverte un’insoddisfazione profonda, una mancanza, la sensazione di un inesistente e vero rapporto con tutto ciò che lo circonda e che continuamente mette in dubbio, deprezza, svilisce. Come uno specchio, tutte le persone attorno a lui, riflettono lo stesso disagio, pur amandolo e temendolo, riverenti alla sua fama e alla sua larga generosità. Anche la moglie, Alice – ultima dei due precedenti matrimoni – ventitrè anni e con una figlia a carico, lo ama e lo teme al tempo stesso, nutrendo una profonda tenerezza per quell’uomo perennemente tormentato di cui tollera ogni eccesso, compreso quello delle donne e dell’alcool, nel quale Ėmile cerca di annegare le voci ammonitrici della sua coscienza che lo sprona a trovare continue verità, soluzioni e assoluzioni. Simenon punta il riflettore su Maugin essere umano e non attore – uomo dal carattere burbero, cinico, un po’ schizofrenico, ma che sa conquistare il pubblico, compresi noi lettori, con i suoi improvvisi cambi di registro – scavando nel profondo del suo animo, rivelandoci pensieri, tormenti, riflessioni che lo portano a fare delle scelte radicali. Scelte maturate da una nuova consapevolezza – a cinquantanove anni, per la prima volta in vita mia, farò una cosa straordinaria: mi riposerò – restituendoci una narrativa paragonabile a un flusso di coscienza, nonostante l’uso della terza persona. Il finale annunciato quasi, ma inaspettato, arriva con sapiente preparazione, in una graduale e straordinaria epifania.

Incredibile la padronanza della materia – non potrebbe essere diversamente per uno degli scrittori più prolifici del XX secolo – in cui Simenon si permette di fare salti temporali e spaziali, omettendo passaggi che il lettore deve però includere per la comprensione della corretta sequenza narrativa. Ma non disturbano questi vuoti, che l’autore sa colmare con la maestria del suo stile, così perfetto, così magistrale nell’ efficacia dei dialoghi, vero  punto di forza di questa lettura. Un ritmo incalzante, poche descrizioni e una profonda introspezione nell’animo del protagonista, rendono questo libro un piccolo capolavoro, da cui è stato tratto recentemente il film “Les Volets vertes” di Jean Becker con Gérard Depardieu, che ho ricercato invano.

Ma cosa sono le persiane verdi? Senza spoilerare, mi permetto di dirlo: rappresentano l’emblema della casa dei sogni, il rifugio ideale, posto sicuro, protetto, vero e naturale (proprio come il legno di cui sono fatte); quella tensione leggera, il desiderio, l’utopica ed effimera sensazione di luogo non luogo, fulcro di armonia, equilibrio, pace e realizzazione, dove tutto esiste e niente manca. Solo dopo la frenetica corsa verso un ipotetico traguardo, come un imputato di fronte al giudizio di una Corte pubblica, Ėmile comincerà a prendere consapevolezza della sua colpa, del fatto che aveva passato tutta la vita a scappare. Scappare da cosa? si chiederà fino alla fine. Arriverà una risposta, una soluzione concreta alla sua domanda? Riuscirà Ėmile Maugin  a trovare la sua casa dalle persiane verdi?

Vi lascio con questa stimolante curiosità.

“Le persiane verdi” di Georges Simenon ( ed. Gli Adelphi 2023)

17 dicembre 2023

LA TRAIETTORIA DELLA MOSCA di Mirko Tondi

 

La narrativa di Mirko Tondi, scrittore del panorama contemporaneo, non delude mai, è sempre una garanzia, per la sue capacità narrative, stilistiche, tecniche che toccano tematiche estremamente attuali, come – nello specifico – il bullismo, le difficoltà adolescenziali e sociali, le dipendenze, la violenza, la camorra…

Anche se è difficile classificare la sua scrittura in un genere, questo libro – se proprio vogliamo inserirlo in una categoria – lo si può definire noir, perché esiste un caso “oscuro”, grottesco, che conduce la storia e impegna il lettore nella sua rivelazione.

Il protagonista (non è citato il nome) è un insegnante di sostegno che lavora in una classe maschile di “ragazzi problematici” e che tra le tante complessità si trova coinvolto nella scomparsa di un alunno, Riccio, verso il quale riconosce una particolare affezione. Contrariamente alla sua razionalità e al buon senso, allontanandosi anche dagli affetti familiari, si trova immischiato in un’avventura più grande di lui, dove tornare indietro è pressoché impossibile. Ecco allora che la trama si dipana, in maniera magistrale creando rapidi colpi di scena e momenti di suspence che incitano il lettore a proseguire senza sosta, seguendo la traiettoria man mano tracciata dall’autore che come una mosca si ferma ora su un dettaglio  ora su un altro, richiamandolo continuamente alla concentrazione per non tralasciare ogni minimo indizio. Il professore non interroga gli alunni ma interroga costantemente se stesso non tanto alla ricerca di una verità specifica ma di una verità più grande, universale, quella che ci riguarda tutti, alimentata dal dubbio, dall’incertezza: «C’è da chiedersi su quali imprevedibili strade operi il destino che tanto invochiamo, sempre ammesso che di destino si tratti; o forse siamo noi che ogni tanto giochiamo a sfidare la vita, per provare a rimescolare le carte e sentire il brivido del rischio […] C’è questo filo rosso che unisce il passato al presente, e verrebbe da pensare ancora al caso, al destino o a Dio, non so bene, comunque qualche entità al di sopra di me che ha programmato tutto per farmi essere qui in questo momento».

Una letteratura che non si ferma mai all’apparenza, ma che scava, dubita, si interroga su motivazioni e soluzioni, penetrando nell’animo dei personaggi (grazie anche alle sue competenze professionali) restituendoceli a tutto spessore, analizzati nei pregi e difetti, vizi e virtù, bontà e malvagità, nella loro interezza umana collocata in un contesto realistico.

Mirko Tondi sa “governare” bene la trama, impartire la giusta cadenza alle battute narrative, dialogiche, descrittive e riflessive, sempre alla ricerca della parola perfetta, quella e soltanto quella, e il risultato è evidente. Nello stile dell’autore è anche il ricco panorama culturale che non esita a suggerire riferimenti letterari, cinematografici, musicali che valorizzano ulteriormente il testo, creando stimoli ulteriori per il lettore curioso e ricettivo.

Consigliato, sempre una garanzia. 

“La traiettoria della mosca” di Mirko Tondi ( ed.Il filo rosso)