29 giugno 2023

TUTTO IL MONDO È PAESE di Andrea Zavagli

 

È quasi d’obbligo la premessa che non sono una lettrice di gialli, perciò anche le mie valutazioni e considerazioni in merito, sono senz’altro riduttive e poco competenti  rispetto a chi li ama, divora e ne conosce il valore intrinseco. Perciò mi scuso con l’autore se non saprò cogliere appieno la qualità investigativa e giallistica del romanzo, che comunque ho piacevolmente letto e apprezzato.

Tutto il mondo è paese è un detto popolare che ce la dice lunga sulla psicologia degli abitanti, sui loro comportamenti, sulle ombre delle loro origini, sui sentimenti controversi che li animano rispetto allo spazio geografico che invece occupano. Un popolo di uomini e donne molto diversi, ognuno con la propria storia, ambizione che può talvolta spingerli a commettere azioni riprovevoli ed estreme come un omicidio, ancora più eclatante se accade in un raggio di pochi chilometri, in un paese di poche anime, come Palazzetto sul Rovere, località immaginaria dell’Appennino tosco emiliano. Forse è proprio questo che l’autore vuole evidenziare e farci comprendere dal titolo, che in un paese non sono tanto le mura a renderlo tale quanto coloro che ci abitano e generano storie, storie che si somigliano.

Andrea Zavagli, come sul palcoscenico di un teatro, ci presenta così a uno ad uno i personaggi del romanzo collocati nel loro contesto, attori significativi della storia, in modo che il lettore prenda subito confidenza e abbia chiaro con chi avrà a che fare, facendoci intuire fra le righe, che proprio fra questi dovrà cercare l’assassino di un delitto che si palesa subito nel primo capitolo.

Deborah Cannavacciuolo una giovane donna di facili costumi, non originaria di Palazzetto, viene trovata morta su una panchina del Pistone, un parco  poco distante dal centro. Dopo le prime incertezze sulla causa della morte che sembra avvenuta per infarto, si sviluppano le prime ipotesi di omicidio. Manfredi commissario di polizia, uomo intelligente, semplice, concreto (impossibile non simpatizzare subito con lui), retto, ironico, ma soprattutto umano, che non disdegna e apprezza le belle donne e tutto ciò che ne esalta la bellezza, insieme a Lazzerini, suo agente fidato, conduce l’indagine, la non-inchiesta (come la definisce lui), che si complica sempre più, fino a un ulteriore omicidio (stavolta conclamato) a metà romanzo. Non voglio aggiungere altro della trama, per incuriosirvi e indurvi alla lettura che da giallisti sono certa apprezzerete.

Dopo la presentazione, il racconto prende vita, si dipana con carrellate dettagliate e precise sull’ambiente circostante, sui volti, espressioni, gesti, dialoghi e pensieri di ciascun personaggio ben descritto e costruito, con il proprio linguaggio, timbro e colore.

Al di là del genere e della trama investigativa - ben strutturata e articolata - ho apprezzato soprattutto lo stile dell’autore, la sua capacità di calibrare bene la narrazione in tutte le sue parti, nelle sequenze narrative, riflessive, dialogiche e descrittive. Ottimi infatti i dialoghi, la caratterizzazione dei personaggi, le progressioni dell’indagine, l’intreccio scorrevole, sorprendente e accattivante, diviso in brevi capitoli dal finale enfatico (senza alcuna accezione negativa) che dà ampio respiro alla narrazione.

Si intuiscono le competenze professionali dell’autore che sa gestire egregiamente e in modo stimolante la materia, tutta la parte investigativa nella ricerca degli indizi sul cadavere da parte della bella e simpatica anatomopatologa Scudieri, che purtroppo si eclissa nella parte finale (magari potrebbe riapparire in un sequel ed essere stavolta la protagonista, che il carattere non gli manca), dando però il suo importante contributo.

Un giallo insomma intrigante e valido, che consiglio a tutti gli amanti del genere, e anche a chi come me non lo è, garantito anche dal Premio 1 Giallo x 1000 , dove si è classificato come finalista, primo nella categoria miglior stile narrativo, riconoscimento davvero meritato.

Ringrazio Andrea per avermi regalato questa storia.

A.C.

Tutto il mondo è paese di Andrea Zavagli (ed.Zerounoundici Edizioni  2022)


25 giugno 2023

NUOTO LIBERO di Julie Otsuka

 



All’inizio non è stata una lettura proprio facile Nuoto libero di Julie Otsuka, scrittrice americana di origine giapponese che non conoscevo, ma dopo il primo incedere claudicante devo ammettere che l’impegno è stato ampiamente ricompensato. È uno di quei libri che ha bisogno di tempo e attenzione per entrare nel mood, un modo concentrato e vigile per abituarsi allo stile dell’autrice, alla punteggiatura, al ritmo della sua scrittura.

Il libro sembra diviso in due parti ben distinte: una prima introduttiva in cui l’autrice descrive e racconta la realtà sotterranea della piscina e dei frequentatori, un mondo colorato di personaggi molto diversi tra loro con la comune passione per il nuoto; e una seconda in cui invece ci introduce nel cuore della storia, focalizzata sulla figura di Alice, settantenne in pensione assidua nuotatrice un tempo, che deve fare i conti con una malattia che inesorabilmente la trasforma.

L’inizio è lento, come se l’autrice ci volesse preparare (ci dà infatti alcuni indizi sul personaggio di Alice senza farne la protagonista) a far ingresso nel mondo gelido dell’oblio, in quella realtà terrificante che cancella pian piano ogni ricordo, affetto, sentimento, personalità. E lo fa con rispetto e discrezione nei suoi confronti, come a volerla liberare da ogni mancanza e colpa.

Un modo delicato e quasi sussurrato di raccontarci la sua storia, attraverso una narrativa ricca di riflessioni, di congetture e pensieri, di aggettivi appropriati, di elenchi lunghi ma calzanti.

Ecco che la piscina, come un’isola, una dimensione a sé, un mondo separato da un sopra (la superficie urbana dove il popolo dei nuotatori si sente “turista”) e un sotto (la superficie sotterranea), diviene il pretesto narrativo per parlare di un modo alternativo di vita, un luogo dove potersi rigenerare e ritrovare l’ equilibrio perduto, una bolla, un rifugio. La piscina come metafora di una vita fuori dal coro, che ognuno può scegliere e costruire seguendo le proprie aspirazioni, peculiarità, desideri e sogni.

Ma in questo nostro impero teso alla perfezione, qualcosa può andare storto, contrario al nostro programma. Una crepa, una ferita può metterlo a repentaglio, destinandolo improvvisamente al crollo, alla fine. La crepa (la fenditura iniziale nella piscina e tutta l’ossessiva attenzione alla quale l’autrice dedica un intero capitolo) non è altro che la minaccia del cambiamento, rappresentando l’anticamera della malattia, quel pertugio dal quale ha inizio la perdita, lo smarrimento delle parole, dei ricordi e infine dei sentimenti.

Privati del nostro mondo, ci troviamo perciò a varcare la soglia del Bellavista, la casa di riposo in cui Alice soggiornerà (altro luogo sicuro, protetto ma non scelto) perché non più in grado di badare a sé stessa. E qui siamo spettatori del suo graduale peggioramento, un cammino in discesa, lento ma inesorabile, un percorso dal quale purtroppo non si torna indietro. Commoventi le parole della scrittrice sulla perdita della memoria, in cui però riesce a togliere tutta l’angoscia e la drammaticità dell’evento, coronandolo addirittura come uno stato di grazia, un livello superiore di coscienza: «Con il passare dei giorni comincerà a dimenticare sempre più cose.[] E a ogni ricordo che se ne va si sentirà più leggera. Presto sarà completamente spoglia, uno spazio vuoto, e per la prima volta nella vita sarà libera. Avrà raggiunto lo stato a cui aspirano i meditatori di tutto il pianeta: esisterà in tutto e per tutto «nel qui e ora».

Altrettanto oggettiva e realistica la spiegazione della malattia: «Alcune informazioni sulla sua malattia. Non è temporanea. È progressiva, incurabile e irreversibile. In ultima analisi è terminale, come la vita stessa.[] Assumere un irrealistico atteggiamento positivo non la fermerà, e anzi potrebbe addirittura accelerare il declino. Anche se non vi sono eccezioni a queste regole. Anche se lei è una persona speciale, il suo non è un caso speciale [] La sua malattia non ha alcun «significato» o «fine superiore». Non è un «dono», né una «prova», né un’occasione di crescita e trasformazione. Non guarirà la sua anima arrabbiata e ferita, né la renderà una persona più buona e compassionevole, meno incline a giudicare gli altri».

Interessante dal punto di vista stilistico, il continuo cambio di persona e del punto di vista che la scrittrice alterna nei capitoli (e forse la difficoltà nella lettura che accennavo all’inizio sta anche in questo). Nel primo e secondo capitolo ad esempio, la narrazione è in prima persona plurale dal punto di vista dei nuotatori; nel terzo usa invece la seconda persona singolare e il punto di vista è onnisciente; nel quarto il punto di vista è l’Istituto stesso mentre è scritto in prima persona plurale; nel quinto il punto di vista è quello della figlia, in seconda persona singolare. Ed è in questo ultimo capitolo, che si capisce l’impronta autobiografica del romanzo: la figlia scrittrice che non ha mai avuto buoni rapporti con la madre, e che si scoprirà più tollerante, clemente, riconciliante nei suoi confronti, stimolata proprio dalla nuova e imprevedibile condizione.

Un libro “meraviglioso” e forte per l’intensità dei sentimenti, magistrale nello stile, dal linguaggio ricercato, preciso e dettagliato (come nei lunghi elenchi mai noiosi), un libro che si termina con un po’ di nostalgia, soddisfatti però di tutto l’impegno dedicato.

A.C.

Nuoto libero di Julie Otsuka ( Bollati Boringhieri2022)

08 giugno 2023

LA VITA FINO A TE di Matteo Bussola

 


Devo ringraziare la mia amica Caterina per il consiglio di lettura, perché non conoscendo l’autore, l’immagine della coppia sullo sfondo di una piazza in copertina (molto bella senza dubbio) non avrebbe catturato il mio interesse relegando il libro al genere romantico/sofferto  ̶  un lui e una lei che si amano  ̶  e che, come si evince dal titolo, presuppone una destinazione felice. Devo però ammettere il mio errore (e presunzione), perché le cose non stanno affatto così, l’amore domina il testo è vero, è un punto focale del romanzo, ma non è solo ed esclusivamente questo.

Nel libro non c’è una trama nel senso comune del termine, ma molte trame, storie che si collegano sul grande scenario della Vita, il cui tessuto è ordito col filo del sentimento. Un romanzo e al contempo una raccolta di brevi racconti, dalla scrittura fluida, intensa, rinfrescante, che mi sono bevuta con piacere in poche ore. E questo grazie alla capacità empatica, al modo diretto e colloquiale dell’autore, agli aneddoti divertenti, ai frequenti e piacevoli viaggi temporali negli anni settanta che rappresentano anche l’epoca della mia gioventù. Mi ha sorpreso quel suo autodefinirsi un fumettista (per passione) più che uno scrittore (per denaro), perché non sono riuscita a vedere l’aspetto venale della sua prosa, che avverto invece autentica e sincera. Non conosco le sue qualità di disegnatore ma le sue abilità di scrittore sono senza dubbio notevoli, proprio in merito a questa capacità di conquistare e coinvolgere emotivamente il lettore.

La  narrativa sa essere incalzante (in prima persona, a volte in seconda), avvolgente, profonda, ricca di spunti di riflessione, meditazioni, dubbi e certezze che ci riguardano, quesiti per chi (come me) si interroga di continuo, che cerca risposte a ogni domanda, che non si basta mai.

C’è tanto Amore (come dicevo), sentimento che può offrire opportunità: «L’amore è piuttosto diventare un’occasione l’uno per l’altra. Quella di comprendere il diverso da noi, quel diverso che però ci portiamo anche dentro. E di riconoscerlo. E di accettarlo. E di imparare il significato, ogni giorno». L’amore come occasione, come casualità, mondi distanti che si incontrano e si confrontano: «Gli amori migliori, quelli davvero inaffondabili, uniscono spesso geografie umane distanti, sono quelli che nessuno riesce a spiegarsi il perché e sulla carta non gli avresti dato due soldi. Eppure». L’amore come accoglienza, come riconoscimento della diversità, senza abnegazioni o vittimismi, da trasformare in un punto di forza e novità: «Il punto non è rinunciare a essere sé stessi, annullandosi in una relazione, ma trovare l’elemento giusto che si combina con te e si valorizza».

C’è il Maschile e Femminile a confronto e la presunzione dell’uomo di sentirsi superiore, causa di tanta violenza, purtroppo cronaca quotidiana, su cui dovremmo soffermarci a riflettere e a trovare soluzioni immediate: «Le donne non sono tanto la metà del cielo che ci manca, ma quella che ci mette in comunicazione con una parte di noi, che troppo spesso ci neghiamo, e questa parte non sta né in cielo né in Terra, ma ben nascosta dentro, seppellita sotto tonnellate di stronzate. Per questo le donne non ci completano, ma ci cominciano, mentre noi uomini invece a volte le finiamo, ed è questa la vera tragedia».

Non manca il tema del viaggio, una modalità di realizzare la consapevolezza che «ogni posto, con un po’ di impegno, potrebbe diventare casa tua[…]. Questo cambia la tua visione del mondo, l’approccio a luoghi e persone, ma ti fa anche capire che casa tua rimane quel posto dove non c’è solo la bellezza che ti capita ma principalmente quella che hai scelto, quella che è lì proprio perché tu la vuoi».

Un libro che ci regala scene di vita quotidiana, la nostra, sostenuta da bellissime descrizioni, che vanno oltre l’ovvietà del quotidiano, senza quel velo di banalità che le caratterizza. Tutto ciò che ci accade diviene unico e straordinario, se sappiamo coglierne il senso e la bellezza. Se poi l’affrontiamo con ironia (il libro ne è pieno), col sorriso anche nelle vicende più dolorose, con  piglio leggero ma profondo, vivremmo decisamente meglio e più appagati.

La vita ci mette ogni giorno di fronte a prove, occasioni per sfoderare il carattere e far chiarezza con noi stessi: «Se avessimo più coraggio nel dire agli altri chi siamo, dichiarare la nostra condizione senza tanti infingimenti, evitando di raccontarci storie, forse vivremo con meno paure».

Non manca una visione positiva, ottimista sull’esistenza di ogni essere umano legata alle proprie scelte, al libero arbitrio e provo sollievo pensando che, come dice l’autore «La vita, se la ascolti bene e al netto delle tempeste, alla fine ti porta sempre sulla tua isola, precisamente nel luogo in cui devi trovarti».

Una lettura stimolante che ci lascia un buon sapore in bocca, come quando beviamo un ottimo vino, e ci gira un po’ la testa, quel tanto che basta per percepire forme, colori, dettagli che nella sobrietà non riusciremmo a cogliere e ad apprezzare.

A.C.

La vita fino a te di Matteo Bussola (Einaudi 2018)


31 maggio 2023

PSICOSFERA di Massimo Acciai Baggiani e Carlo Menzinger di Preussenthal

 

Non cercate creature extraterrestri, uomini verdi con cento teste, mille occhi o cento bocche, nel nuovo libro dei due autori, amanti della fantascienza, perché non le troverete, anche se si narra di un mondo fantastico, di realtà surreali, ipotetiche e future (siamo nel non lontano 2036) e l’umanità ha già colonizzato Marte e viaggia ormai da tempo nello spazio galattico.

Ma non voglio svelare troppo parlando della trama, per non togliere a voi lettori il piacere della sorpresa, che è stata anche mia, pur non amando il genere.

Psicosfera infatti va oltre il classico romanzo di fantascienza, perché pone l’attenzione a molte problematiche ambientali, sociali, etiche toccando quindi tematiche estremamente attuali. Lo hanno sicuramente pensato i due autori, tanto da considerarlo un punto di partenza, pietra miliare da cui intraprendere nuovi percorsi letterari per gli scrittori che vogliono mettersi in gioco stimolati dalla lettura. E le suggestioni non mancano davvero.

Si parla di sfruttamento terrestre (deforestazione, abuso ambientale ed edilizio, ecc.. ) come se il nostro pianeta fosse una fonte inesauribile di risorse ma che presto a questo ritmo vedranno la parola fine; di surriscaldamento globale che genera catastrofi di cui purtroppo siamo quotidianamente spettatori inermi; di armi biologiche, di epidemie flagello di ogni epoca; di tecnologia, una grande opportunità di crescita per l’umanità intera ma pericolosa se usata in modo scorretto; di intelligenza artificiale, anch’essa un’arma a doppio taglio. Stephen Hawking aveva sensibilizzato già a suo tempo l’uomo sulla questione, sottolineando la necessità di colonizzare nuovi mondi nello spazio, per l’esaurimento delle risorse terrestri proprio a causa del consumismo e dello sfruttamento.

Ma non ci sono solo aspetti negativi in questo libro (per fortuna), e gli autori ci offrono uno spiraglio di speranza grazie al potere costruttivo dell’uomo, alla sua volontà di inseguire il bene anziché il male, di aprirsi a nuove possibilità e orizzonti, spinto dal desiderio di una più profonda conoscenza di sè e di nuove realtà.

La telepatia è solo una porta d’accesso a questi nuovi mondi, capace di creare connessioni più sottili, intime, di ampliare e armonizzare la sintonia tra gli esseri umani. Così la premonizione ulteriore ingresso, ci potrebbe offrire altresì la possibilità di agire sempre nel modo migliore, anticipando e marginando anche le più terribili catastrofi e stragi. Il teletrasporto è ancora un miraggio, ma è emozionante immaginarlo realizzabile in un futuro non troppo lontano. E infine il sogno, quale più bella realtà di quella onirica, dove l’impossibile diventa possibile, tempo e spazio si annullano, il cielo si fa terra, gli animali parlano come umani e le leggi della fisica non dettano più legge?

Insomma gli stimoli per nuove storie non mancano davvero.

Un libro che si legge alla velocità della luce, vivace, frizzante, piacevole, ideale per le prossime giornate afose, in spiaggia, in montagna ma anche in città. Ve lo consiglio, anche se, come per me (e mi ripeto) non è propriamente il vostro genere letterario.

 

A.C.

Psicosfera di Massimo Acciai Baggiani e Carlo Menzinger di Preussenthal (Tabula Fati 2022)


19 maggio 2023

E IO CHE C’ENTRO? DI Marco Pini

 

Firenze 2018, una città sconvolta dalla morte improvvisa di Astori, capitano della Fiorentina - passione e orgoglio dei cittadini - ma anche da storie ordinarie di violenza, degrado, prostituzione,  vicende che a volte possono sfociare in omicidio.

Firenze, culla del Rinascimento «bella sì, ma appesantita da persone a tinte fin troppo forti […] ma a quanto pare anche capaci di affetto profondo».

È su questo sfondo che si muove il romanzo di Mario Pini, una città e periferia contemporanea, ingolfata dal traffico contenuto all’apparenza dalla tramvia, dove il lettore fiorentino, ritrova tracce del suo quotidiano, strade, piazze, bar, locali, gustandosi (perché no?) insieme al protagonista un saporito panino al bar dello Scheggi. È questo un punto di forza del libro, l’atmosfera provinciale (senza alcuna accezione negativa) in cui l’autore ci trasporta sapientemente attraverso la sua scrittura. Ma non solo. Al di là dell’indagine, che per me passa davvero in secondo piano, non essendo un’ appassionata di gialli, tante sono le tematiche affrontate, in primo luogo il disagio giovanile,  l’insofferenza di una generazione, erede del progresso ma anche di tanti errori e orrori, costretta a scontare le colpe di un passato, che non deve essere dimenticato, mai.

 Tullio Pieralisi commissario di polizia, sta lavorando proprio a un omicidio, un caso che sembra legato a un giro di prostituzione, in cui ha perso la vita un boss della malavita, un certo Rollo. Insieme all’indagine, si intrecciano altri casi degni della sua attenzione e di quella di Furio, suo agente fidato, riguardanti l'aggressione di un uomo nel sottopassaggio delle Cure, e la condizione critica di Greta, un'adolescente equilibrata, eccellente nello studio che all'improvviso  esprime un malessere “strano”, un odio esagerato nei confronti della madre che a suo riguardo sembra la diretta responsabile.

Senza spoilerare oltre, devo dire che la lettura è stata davvero piacevole, scorrevole e stimolante, pur non essendo il mio genere, come già detto. Ho apprezzato l’aspetto umano del commissario, la sua intelligenza fine, il carattere forte, deciso, meditativo, la sua indole seria e ironica al contempo, il suo amore per la filosofia, il forte interesse per ogni aspetto del comportamento umano, ottimista e fiducioso nel potere della giustizia, dell’istruzione, del rispetto e solidarietà tra gli uomini. Un eroe senza superpoteri.

Una lettura ricca di riferimenti cinematografici; interessanti, anche se estesi i tre capitoli dedicati al Germania di Tacito e al Codex Aesinas, un argomento a me completamente sconosciuto che ho dovuto approfondire, inserito con attinenza, testimoniando un’accurata ricerca e documentazione  dell’autore e che arricchisce il valore dell’opera.

I personaggi (e non solo Tullio, protagonista) sono davvero ben strutturati - Furio, Massimo amico di vecchia data e preziosa presenza, Anna presente ma assente, Anita la moglie, Antonino il mentore - ognuno col proprio carattere e spessore.

L’intreccio della trama è tessuto con maestria, difficile, almeno per me, scoprire il colpevole, che mi si è rivelato con grande sorpresa solo nelle pagine finali.

Una lettura insomma davvero stimolante, dal linguaggio curato e appropriato che consiglio agli appassionati di giallo e non solo.

 A.C.

“E io che c’entro? ” di Mario Pini (Ed. I libri di Mompracem 2022)

14 maggio 2023

FESTA MOBILE di Ernest Hemingway

 

«Se hai la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile».

Festa mobile ha proprio il grande valore di far vivere al lettore l’incanto di una città che non passa mai, capace di regalarti emozioni e sensazioni uniche che ti porti sempre dietro, incollate addosso. Il libro, opera postuma dello scrittore (curata dal figlio e dal nipote poi), ci mostra una fotografia fedele degli anni Venti, quando Parigi pullulava di artisti – scrittori, poeti, pittori – che la scrittrice e mecenate Gertrude Stein definì Lost Generation.

Non si tratta di un vero romanzo (anche se c’è una sequenza cronologica nella narrazione dei fatti, dal 1921 al 1926, periodo che Hemingway trascorse nella città europea), ma di una raccolta di “storie” , istantanee, passatemi la suggestione, in cui l’autore come un fotografo raccoglie momenti, periodi, dialoghi e conversazioni, riflessioni, curiosità, dissertazioni letterarie, emozioni e ce le restituisce, trasformandole in una narrativa attenta, elegante e sensibile.

C’è molto del rapporto con la prima moglie Hadley, dove veniamo piacevolmente coinvolti nella loro intimità, assistendo al modo vezzeggiativo di lei nel chiamarlo Tatie, al sostegno e al rispetto del lavoro e delle sue scelte; c’è il periodo bohemien della loro esistenza, dove si è felici e creativi, anche se poveri e spesso con lo stomaco vuoto («La fame è un’ottima disciplina e impari da essa»); c’è tutto il mondo culturale di Parigi che ruota attorno alla figura di Sylvia Beach che dirige la Shakespeare and Company,libreria e biblioteca, dove lo scrittore prendeva i libri in prestito; ci sono le corse dei cavalli e le scommesse, seguite dalle corse in bicicletta, l’interesse per il pugilato, il giornalismo, la passione per lo sci e le vacanze invernali a Schruns in Austria; c’è soprattutto la scrittura, compagna assoluta di vita: «Lassù in quella stanza decisi che avrei scritto una storia su ogni cosa che conoscevo. Cercavo di farlo per tutto il tempo in cui scrivevo ed era una buona e severa disciplina».

Ci troviamo spesso seduti a fianco di grandi artisti, scrittori come Joyce, Fitzgerald, Ford Madox Ford, Ezra Pound, Evan Shipman, pittori come Pascin, Picasso, dove attraverso dialoghi, descrizioni, vissuti esperienziali, ne conosciamo anche il lato più oscuro, umano e non sempre apprezzabile.

Sorprendente scoprire come Scott Fitzgerald fosse fragile, debole e suscettibile all’alcool, tanto da creargli malori improvvisi e paranoie frequenti, e di come fosse dipendente dalla moglie Zelda, gelosa e ostacolante la sua attività letteraria.

Altrettanto straordinario nel capitolo L’acre odore delle bugie, Ford Madox Ford, scrittore dall’alito pestilente, legato alla stanchezza e all’attitudine alla menzogna, dal quale l’autore stesso cercava riparo, tenendosi sopravento: «Aveva un altro preciso odore che non aveva niente a che fare con l’alito e che mi rendeva pressoché impossibile restare in una stanza chiusa con lui. Questo odore si intensificava quando diceva bugie e aveva una qualità dolciastra e acida. Forse era l’odore che emanava quando era stanco».

Nascita di una nuova scuola, scritto in seconda e in prima persona alternati, ci rivela tutta la passione, l’impegno e il rispetto che l’autore nutre verso la Scrittura, così come in Dello scrivere in prima persona, ci regala preziosi consigli sull’uso della prima persona, modalità efficace per coinvolgere, appassionare, e rendere partecipe il lettore.

Ancora più prezioso è ciò che ci svela in Nada y pues Nada: «Nello scrivere ci sono molti segreti. Niente va mai perduto indipendentemente da quel che può sembrare al momento e quello che viene lasciato fuori si vedrà sempre e farà la forza di quello che è rimasto dentro». È il famoso principio dell’iceberg, dove l’importante non è ciò che si vede, ma quello che rimane sotto, nascosto, irrobustendo e rendendo più solido ciò che emerge.

Come in un romanzo però c’è anche il colpo di scena. Nelle pagine finali, dopo aver incontrato tanti personaggi così popolari, di aver fatto la loro conoscenza in un modo ancor più intimo, aver scoperto curiosità e aneddoti che pochi forse conoscono, ecco, che all’improvviso tutte le certezze vacillano. Proprio in Frammenti, abbozzi di incipit introduttivi (anche se alla fine del libro), ci dice che tutto è frutto di fantasia, pur avendo usato personaggi reali, lasciandoci nell’amarezza del dubbio. Ma poi, a una riflessione più attenta, al di là del piacere del “gossip”, non si può fare a meno di apprezzare in tutta questa dovizia e varietà di incipit, lo scrittore, il suo carattere scrupoloso, serio e disciplinato, il suo costante e infinito impegno nel ricercare la parola, le frasi giuste, la continua ricerca di un modo sempre nuovo e migliore nella gamma delle infinite possibilità, la tensione verso la perfezione, obiettivo di tutti i grandi scrittori.

Ne è testimone il periodo: «Non preoccuparti. Hai sempre scritto prima e scriverai adesso. Non devi far altro che scrivere una sola frase vera. Scrivi la frase più vera che conosci».

E alla conclusione di un libro di tale impatto, non si può davvero far altro che rimanerne affascinati, confermando il successo della scrittura di un autore come Hemingway, dove la fortuna ha giocato sicuramente dalla sua parte, ma lui, da esperto giocatore ha saputo fare tutto il resto.

A.C.

Festa mobile di Ernest Hemingway ( 1964 Oscar Mondadori)


01 maggio 2023

IL VELO ROSSO di Manna Parsì


Un diario «per non dimenticare le nostre origini» la forma narrativa scelta dalla scrittrice Manna Parsì, persiana di nascita ma residente in Italia, per denunciare realtà misconosciute, un documento che ci rivela invece in tutta la sua oggettività, la condizione, mentalità, tradizione di un popolo residente in un piccolo villaggio sul Golfo Persico, alla fine degli anni Novanta. Una testimonianza che non segue in maniera vincolata un percorso cronologico ma che, attraverso acrobatici salti temporali, ci tiene ancor più ancorati alla scrittura affinché non si perda il filo della trama (espediente che ho trovato molto stimolante).

Jahan è una ragazzina, ultimogenita di due fratelli e una sorella, che attraverso il ricordo scritto, animato da continui flashback e flashforward, ricerca la verità, ricollocando al loro posto i tasselli mancanti della sua esistenza. La narrazione ha inizio al momento del suo concepimento fino all’età adulta quando, capace di discernere quello che è giusto e lecito, capirà ciò che è suo diritto, cioè vivere e poter scegliere in libertà. Attraverso una scrittura semplice e diretta, la protagonista ripercorre le tappe fondamentali della sua maturazione, l’affetto viscerale che la lega alla madre, il legame con la sorella, il logico e necessario distacco dai fratelli, l’odio verso il padre che picchia e fa piangere la moglie. Nel romanzo la scrittrice sa mettere in evidenza, come un’arma bianca contro la violenza maschile, la solidarietà femminile all’interno del villaggio, dove «le donne sono piene di segreti e di ombre, forse perché non hanno potuto mai parlare liberamente e si sono raccontate tra loro». Attraverso la memoria Jahan cerca e trova il riscatto, il modo per sublimare tutta la rassegnazione, la rabbia e la violenza di un passato al quale è sopravvissuta, insieme alla sorella.

Ciò che colpisce nel romanzo è la profonda e non rimarginabile ferita della condizione della donna iraniana (ma non solo), che nonostante la consapevolezza e l’emancipazione, continua a subire violenze, soprusi, ingiustizie solo per il fatto di essere donna, “oggetto” da sottomettere, sfruttare, usare a piacimento dell’uomo e del suo desiderio. Incredibile, come possa esistere una tale idea, nonostante il progresso etico e ideologico raggiunto, non posso fare a meno di aggiungere, anche se è un pensiero scontato.

La scrittrice riesce con una sensibilità unica e coinvolgente a regalarci una fotografia nitida, uno spaccato tangibile di questa realtà così piena di sofferenza, crudeltà, vessazioni, che difficilmente riusciremo a dimenticare dopo la lettura.

Una scrittura che arriva direttamente al cuore, che commuove e fa riflettere sull’ anacronistica condizione femminile e su qualsiasi forma di violenza e sopraffazione. Una lettura stimolante, dallo stile essenziale, diretto, senza inutili orpelli, senza veli rossi imposti (il velo ornamentale destinato alle spose iraniane) che intende focalizzare l’attenzione sul valore dei diritti umani, quelli che non conoscono ingiustizia di genere, nella speranza di un mondo più accogliente, senza violenze, guerre e conflitti, di una riconciliazione sociale e umana, dove sia possibile vivere secondo il proprio sentire e nella piena libertà di agire e scegliere.

A.C.    

24 aprile 2023

LE OTTO MONTAGNE di Paolo Cognetti




«Il passato è a valle, il futuro a monte. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa».

La montagna come dimensione del vivere, spazio e tempo favorevole all'incontro, all’amore, all'amicizia quella vera; la montagna specchio delle ansie e paure, dei limiti dell’uomo; la montagna amica e nemica, dispensatrice di tanta bellezza e al contempo di tanto orrore; la montagna generosa che dà con tanto amore e toglie con altrettanta crudeltà. È la legge della natura - che spesso l'uomo dimentica - forse perché la generalizza con quello stesso nome, «così astratto» senza definirla «come bosco, pascolo, torrente roccia, cose che uno può indicare con un dito».

È la montagna a fare da scenario, a questo bellissimo romanzo di Paolo Cognetti, una storia piena di emozioni, sentimenti, e tanta riflessione.

Pietro è un ragazzino di città, timido e solitario, che trascorre insieme ai genitori la lunga pausa estiva a Grana, paese di montagna, alle pendici del Monte Rosa.  È lì che conosce Bruno, suo coetaneo, spronato dalla madre (donna altruista e piena di entusiasmo), condividendo scorribande ed esplorazioni su pendi e ghiacciai ad alta quota. I due cominciano a prendere confidenza l’uno dell’altro fino a trovare una vera sintonia, uniti da una profondo e sincero amore per la montagna.

Il libro si divide in tre parti scandendo i momenti di vita del protagonista, dal cui punto di vista si muove la storia. Nella prima, “Montagna d’infanzia”, domina il rapporto col padre, un uomo «emotivo, autoritario, insofferente», dinamico, instancabile camminatore col desiderio di portarsi dietro il figlio ribelle nella conquista delle vette più alte. La madre invece appare come una donna meditativa,«forte, tranquilla, e conservatrice, che credeva fermamente nella necessità di intervenire nella vita degli altri». In “La casa della riconciliazione”, si assiste al ritorno di Pietro (dopo essersi allontanato da casa nel periodo post adolescenziale), alla presa di coscienza del suo presente attraverso il cammino dei sentieri percorsi un tempo dal padre e dall’intesa che unisce i due giovani nel ristrutturare un rifugio avuto in eredità. Nella terza parte “Inverno di un amico”, si corona invece il profondo rapporto tra i due amici, divenuti già adulti, carichi ognuno del fardello delle proprie scelte.

Una storia di amicizia profonda, di un legame quasi fraterno che dall’infanzia si consolida e irrobustisce nel tempo, attraverso processi paralleli di maturazione e crescita che vedono il loro punto d’incontro (nei momenti critici e importanti delle vite dei due protagonisti) proprio sui pendii della montagna.

È anche una storia di solitudine che la montagna può anche favorire, approfondire, sublimare come per Pietro che al ritorno nel suo rifugio di montagna afferma: «C’era voluto del tempo per abituarmi alla solitudine, farne un luogo in cui potevo accomodarmi e stare bene». Ma è anche grazie a questo isolamento, che riesce a riappropriarsi della propria dimensione, a ritrovarsi, come dice lui stesso: «Ogni volta che tornavo lassù mi sembrava di tornare a me stesso. Al luogo in cui ero io e stavo bene».

Cosa sono le otto montagne? mi sono presto chiesta. Ci viene rivelato oltre la metà del libro. Il titolo si allaccia a una vecchia leggenda del Nepal – luogo in cui Pietro viaggia come reporter – dove le otto montagne sono simbolicamente rappresentate in un mandala. Non aggiungo ulteriori informazioni, per non svelare troppo, se non alcune riflessioni. Chi è più vicino alla verità, colui che viaggia, raggiunge le otto montagne o colui che ne raggiunge solo una, Sumeru (quella al centro) e lì rimane?  Due modi diversi di interpretare e vivere l'esistenza, così come altrettanto diversi e opposti sono Pietro e Bruno nel loro approccio al mondo, divisi ma uniti però dalla stessa passione per la montagna e da un amicizia fedele, profonda che li terrà legati fino alla fine.

Una scrittura accogliente, invitante, limpida proprio come i torrenti di montagna, tersa e pulita come il cielo di alcune giornate estive in altura. Una lettura che ho davvero molto apprezzato, e non solo per l’ amore che anch’io nutro per la montagna, ma per quel modo attento, scrupoloso e delicato con cui l’autore pone l’occhio sul comportamento umano per restituircelo con un’immagine nuova, aperta, chiara, senza alcun giudizio o intenzione. Uno stile che mi ha piacevolmente sorpreso, tanto che ripeterò senz’altro un’altra esperienza letteraria dell’autore, di cui questa era la prima lettura.

 

A.C. 

15 aprile 2023

SLAVA UKRAÏNI - 9 penne contro l’Orco - a cura di Pierfrancesco Prosperi e autori

 


Un tascabile nel vero senso del termine questo libriccino di nemmeno cento pagine che raccoglie ben nove racconti  di autori diversi, a cura di Pierfrancesco Prosperi, tutti apprezzabili e godibili anche se, ahimè, l'argomento non è felice. Come si evince dal titolo (Slava Ukraïni- Gloria all'Ucraina), si parla di guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto bellico scoppiato il 24 febbraio del 2022, che tuttora persiste senza tregua. 

Ognuno degli autori, pur rimanendo fedele alla Storia, ne dà un'interpretazione personale, fantastica, ipotetica, adottando il proprio  stile e genere che ben emerge in ogni singolo contributo. Si  spazia così dalle memorie su un diario segreto di una adolescente in un futuro prossimo, a ucronie ucraine in cui la realtà segue percorsi alternativi; da racconti estremamente realistici, processi inconclusi, storie e immagini di sangue, azioni disumane, dove non c'è pietà per la pietà, a storie in cui anche personaggi femminili assumono un ruolo fondamentale (anche se un po' macabro) sullo scenario politico ed economico del conflitto; non manca, per fortuna anche quel barlume di speranza (come negli ultimi due racconti), in cui indirettamente forze aliene o gli uomini stessi possono compiere miracoli, prendendo piena consapevolezza del paradosso della guerra.

Un libro che nella varietà di voci, ci conduce a un’ univoca riflessione e conclusione: non dovrebbe più esistere la  guerra, come tanti oggetti  passati in disuso perché il progresso li ha cancellati (i gettoni telefonici, i rullini fotografici,...),  la più assurda, crudele e stupida espressione fra tutte le capacità e possibilità umane. Continua a stupirmi il fatto che ancora non si sia capito.

 SLAVA UKRAÏNI -9 penne contro l’Orco - a cura di Pierfrancesco Prosperi e autori (Tabula Fati 2022)

12 aprile 2023

LA SETTIMANA BIANCA di Emmanuel Carrère

 


Adoro La settimana bianca, ultima proposta del nostro Gruppo di lettura, riletto davvero con piacere, offrendomi l’opportunità di cogliere altri aspetti importanti della storia, che non avevo focalizzato in prima battuta, trasportata più dal “filo misterioso” della trama, che dai preziosi ricami attorno ad essa.

Emmanuel Carrère ci introduce gradualmente nel mondo del piccolo Nicolas, accompagnato dal padre col proprio mezzo allo chalet di montagna per trascorrere la settimana bianca insieme ai compagni di classe, che invece sono arrivati in pullman. Tutto ciò perché dieci giorni prima un camion si è scontrato con uno scuolabus uccidendo parte della scolaresca e il genitore non ha voluto correre rischi. Soltanto ore dopo il suo arrivo, il ragazzino si accorge che lo zaino con tutto l’occorrente per la vacanza è rimasto nel bagagliaio dell’auto, dando il via a una catena di eventi e problematiche.

Nicolas ci viene presentato (punto di vista in terza persona) come un bambino “particolare”, stravagante, timido, con« la testa fra le nuvole», oppresso dal padre, che decide per lui, che cerca attraverso un’ iperprotezione smisurata di salvaguardarlo da ogni pericolo e frustrazione. Si  avverte subito, che c’è ossessione, qualcosa di patologico, di assurdo se vogliamo, nell’ atteggiamento dell’uomo che si impone alle buone e sagge regole del vivere civile comune, non permettendo al figlio di confrontarsi, relazionarsi stabilire amicizie e accordi, di crescere. Il disagio aumenta man mano che l’autore ci svela altri indizi. Singolare è la poca presenza della madre (e le sue capacità decisionali) di cui ritroviamo il fantasma in sottofondo (anche nella battuta finale) che si proietta come un’ombra, senza mai davvero apparire in carne e ossa.

Potremmo definirlo un romanzo di formazione, non in prima ma in terza persona, dove il protagonista non è un adolescente ma un ragazzino di dieci anni circa. Nicolas sembra uno stupido, ma in realtà ha un mondo interiore così ricco, articolato e con una sua logica, un animo così sensibile e suscettibile, da giustificare ogni sua azione, anche quelle all’apparenza più insensate. Ci si innamora subito di questo bambino così fragile e incompreso, che con le sue sventure riesce a conquistare subito Patrick l’animatore, ricambiato con fiducia e ammirazione. Patrick assume forse il ruolo di figura antitetica del padre (rigoroso, ossessivo, misterioso), con la sua indole solare, allegra, anticonformista, leggera e trasparente.

Anche se l’autore non ci mette in guardia su qualcosa di specifico, si avverte fin dall’inizio un senso di catastrofe imminente, qualcosa che deve accadere e che non sarà niente di piacevole.

Viene sfiorato appena il tema del bullismo, mettendo solo in risalto le coalizioni all’interno del gruppo scolastico, le regole del più forte (Hodkann) che sovverte il più fragile, e del gregge che segue il capobanda nelle buone e cattive azioni.

Da un punto di vista strutturale mi ha entusiasmato la modalità di narrazione. La storia si svolge nel presente, con flashback sul passato (in cui si apprendono notizie chiave sulla famiglia del piccolo Nicolas) e proiezioni future, ma la cosa che ho trovato più originale, è l’ipotesi continua che l’autore fa su ciò che può accadere facendo parlare il mondo immaginario di Nicolas, rendendoci partecipi diretti delle sue fantasie, paure, angosce, fantasmi interiori. Non è solo entrare nel suo punto di vista, vedere il mondo attraverso i suoi occhi, ma penetrare nella sua mente tormentata, nei suoi pensieri, nel suo modo di ragionare e interpretare ciò che accade intorno a lui, nella sua modalità, cioè quella di formulare possibili vicende future, da renderle altrettanto vere e tangibili come quelle reali. È come se la storia si aprisse a infinite storie, estese possibilità, ognuna non meno importante dell’altra.

Anche le descrizioni sono mirabili esempi di ottima scrittura, dove l’autore senza catalogare niente ci dice tutto:«Anche il pullman aveva l’aria di un animale addormentato: cucciolo dello chalet, stretto al suo fianco, che dormiva a occhi aperti coi suoi grandi fari spenti».Così quando descrive le sensazioni del protagonista: «Nicolas aveva l’impressione di ansimare, di correre a perdifiato dentro di sé, sbattendo contro le pareti, e al tempo stesso sapeva che dall’esterno niente di tutto ciò era visibile []; sembrava che gli organi di Nicolas, spaventati, cercassero rifugio il più lontano possibile dalla parete che quelle mani calde e sicure palpavano[]; Nei canali del suo cervello ostruiti dal gelo i pensieri non riuscivano più a circolare[];Combattuto tra il desiderio di riavere le sue cose e il timore di veder tornare suo padre[]; Provava la sgradevole sensazione di essere il nuovo arrivato a cui niente è familiare e che gli altri sicuramente prenderanno in giro».

Un passaggio che ho trovato particolarmente avvincente e tenero nel farci conoscere il ragazzino, è quando uscendo nella notte nevosa, preoccupato per ciò che è accaduto fra le lenzuola, Nicolas si fa coraggio, nell’abitacolo dell’auto di Patrick, paragonandosi alla Sirenetta, che per divenire donna dovrà in cambio perdere la sua meravigliosa voce; anche lui perderà la voce, morirà di freddo. Nella descrizione accurata della metamorfosi del corpo della Sirena ho intravisto la stessa trasformazione che ogni fanciullo o fanciulla dovrà affrontare al momento dell’adolescenza, momento di passaggio critico e fondamentale per ciascun essere umano. Un’altra riflessione che come un’eco mi è più volte tornata indietro, è che Nicolas appare “incosciente” sui fatti che riguardano la sua famiglia ma proprio perché è un bambino sveglio, come lo definisce Patrick, in realtà sembra che abbia intuito molto di più di ciò che pare, avvicinandosi a una verità che non gli è mai stata svelata, ma che nel suo intimo sembra custodire.

La maestria dell’autore è nel sapere mantenere sempre presente “il segreto”, sempre alta la tensione, prolungando la suspence, mettendoci alla fine un delitto inaspettato (almeno per me) che ingigantisce e continua ad animare l’attesa.

Tutto si cela tra le righe della narrazione, all’apparenza semplice e chiara, ma assai complessa, ben architettata: ogni parola ha un peso, un valore, non viene menzionata a caso, ma ritorna con puntualità e significato (il trasloco della famiglia, il braccialettino brasiliano e i desideri annessi, il padre che dorme giornate intere quando torna a casa e che rivolge domande senza senso e memoria…), insomma un complicato e affascinante marchingegno narrativo.

Il capitolo 26 che inizialmente non avevo compreso, trovandolo fuori contesto ai fini narrativi, è quello invece di maggiore spessore a un’analisi più attenta. Nicolas e Hodkann, si incontrano trentenni, quindi nel futuro, dove l’amico non se la passa granché bene e forse col rancore della menzogna e della beffa subita dal piccolo Nicolas, gli si scaglia contro con un coltello affilato. In queste poche righe l’autore ci ha ridato tutta la speranza che sembrava averci tolto nel finale con l’affermazione dell’animatrice sul destino del ragazzino: «Che vita potrà mai avere?» Ecco, qui si ha la rivelazione della redenzione di Nicolas. La sua salvezza è proprio in questa visione futura dove noi lettori possiamo intravedere che il dramma familiare, non ha creato “un diverso”, ma un adulto che riuscirà a condurre una vita ordinaria (la cartella sottobraccio ne rappresenta il simbolo).

Una lettura davvero sorprendente capace di mantenere alta l’attenzione e l’empatia verso il protagonista e i personaggi molto realistici, fino all’ultima pagina. Da leggere assolutamente.

A.C.

La settimana bianca di Emmanuel Carrère (Gli Adelphi 2014)

07 aprile 2023

CANTO DI NATALE di Charles Dickens

 

Davvero un piccolo cammeo questo breve romanzo di Charles Dickens, un prezioso gioiello narrativo che si ammira e apprezza dalla prima all’ultima pagina, un’incisione sottile e profonda che fa emergere la verità sui valori umani, i soli per cui vale la pena di vivere e morire.

 Scrooge è un uomo d’affari, cinico, egoista, animato soltanto dal desiderio di accumulare denaro, indurito dalla sua stessa avidità, ma anche profondamente solo, senza amici, colleghi, familiari al fianco, allontanati nel corso della sua esistenza. Sarà proprio la notte di Natale, come una folgorazione, a cambiare la sua sorte, a redimerlo, a dargli quell’opportunità e speranza di sfuggire a un destino di dimenticanza e oblio. Quale momento migliore del Natale - in cui tutti si vogliono bene, abbandonati antichi odi e rancori, uniti davanti a tavole imbandite più del solito, giocando, ballando, scherzando attorno al focolare insieme ai propri cari - per farlo?

Scrooge «duro e acuto come una selce […]chiuso, controllato solitario come un’ostrica» farà un viaggio fuori e dentro la sua anima, accompagnato da tre spiriti diversi, attraversando i Natali del passato, del presente e del futuro, arrivando finalmente a comprendere ciò che veramente conta nella vita, ovvero i sentimenti di amore, rispetto, solidarietà, carità, clemenza, pazienza, benevolenza verso gli altri. E qui, sta tutta la sua forza di scrittore, ritenuto il fondatore del romanzo sociale, proprio per l’attenzione e la denuncia delle condizioni sociali delle classi più disagiate, abiette, povere del suo tempo, mettendone a nudo la sofferenza, la fame, le difficoltà economiche e di salute.

Non è solo il Natale a regalarci l’incanto fiabesco, ma le atmosfere che fanno da sfondo al racconto, perlopiù cupe, tenebrose, oscure, come a voler mettere ancor più in risalto l’animo privo di luce del protagonista, sempre più solo e distante dalla felicità.

Narrazione ricca di affascinanti e originali descrizioni «Non è facile dire se fossero loro a entrare nella città o se fosse la città a sorgere dal suolo e a circondarli con il suo traffico»; «Vi erano mannelli di grappoli d’uva che, per la delicata attenzione del negoziante, dondolavano dai grossi ganci perché la gente che passava potesse avere gratis l’acquolina in bocca»;  «Gli occhi avevano un che di ansioso, di avido, di inquieto e svelavano la passione che avrebbe preso radici in lui, facevano intuire dove sarebbero cadute le ombre dell’albero che stava crescendo»; «La vecchia campana… battè fra le nuvole le ore e i quarti con rintocchi prolungati e tremuli, come se lassù le crocchiassero i denti nella testa gelata». Altrettanto azzeccate e divertenti le metafore e le similitudini: «Il vecchio Marley era morto come il chiodo di un uscio»; «Nebbia e brina assediavano l’androne della casa in maniera tale da far pensare che il genio stesso del freddo sedesse sulla soglia in cupa meditazione» e quante altre, arricchite da una vena umoristica come se la vita non andasse presa troppo sul serio.

Una lettura davvero amabile, che ci impone con la leggerezza di una favola, a far chiarezza anche dentro noi stessi, a porre ascolto ai nostri fantasmi, a ciò che hanno da dirci, perché non è mai tardi per cambiare strada e rimettersi sul sentiero giusto, quello dell’empatia, condivisione e partecipazione, unica soluzione per essere davvero felici e in pace con sé stessi.

 A.C.

Il Canto di Natale di Charles Dickens (Feltrinelli 2016)

02 aprile 2023

LA SCRITTRICE OBESA di Marisa Salabelle

 

La Scrittrice obesa, è il primo libro che leggo dell’autrice, Marisa Salabelle, consigliata da un’amica. Non poteva che intrigarmi un simile testo, dal momento che anche per me scrivere è una grande passione, unita alla lettura. Copertina e titolo sono assai invitanti: l’immagine della signora piena e abbondante di Tiziano Vercellio nel suntuoso abito porpora è senz’altro un punto a favore del libro, oltre al tema della scrittura, al fascino della letteratura e dell’arte dello “scrivere”.

Susanna Rosso è una giovane donna che ama la scrittura più di ogni altra cosa al mondo, parimenti solo al cibo di cui si nutre in maniera eccessiva e sregolata, tanto da diventare obesa. Orfana di padre, e poi anche della madre, rimane sola nell’appartamento di famiglia, dedicandosi soltanto alla scrittura, producendo racconti, romanzi, riflessioni, lettere a personaggi famosi e case editrici (Mondadori, Woody Allen, Ginzburg, Guccini, Tolkien, Roth, perfino Dio…) senza averne mai una risposta. In quelle lettere si avverte tutta la sua rabbia, l’odio ma anche la presunzione di non essere riconosciuta per quello che invece crede e sente di valere.

Colpisce subito la personalità di Susanna, (di cui seguiamo l’intero percorso di vita, giovane trentenne, donna matura e infine anziana), quel suo modo arrogante e presuntuoso di divorare il mondo (insieme al cibo), mondo che non l’ascolta, che continua a ignorarla nonostante le ripetute sollecitazioni. Ciò fa aumentare tutto il suo rancore, la frustrazione, l’insoddisfazione, che sublima sì scrivendo, ma riempiendosi fino all’ inverosimile di cibo malsano. Nemmeno Lorella, sua amica di infanzia, e suor Consolazione, che cercano di aiutarla, riusciranno a parte sporadici momenti, a farla deviare dalla sua folle discesa verso l’autodistruzione.

Nonostante sia una perdente, vittima di un destino che le rema contro (e quindi soggetto facile all’empatia del lettore), mi è stato difficile simpatizzare con lei, stare dalla sua parte, forse per questo atteggiamento troppo rabbioso, egocentrico, superbo e ostinato che non lascia spazio agli altri. Il suo continuo piangersi addosso e rimpinzarsi di cibo per colmare il vuoto dell’insuccesso, senza prestare ascolto a ciò che accade intorno, rifiutando il rapporto e il confronto diretto con gli altri, non me l’ha fatta amare.

Certo, ciò che Susanna afferma sull’editoria è molto vero, e spesso non basta il talento da solo a dar vita a uno scrittore apprezzato, occorre anche una buona dose di fortuna e conoscenze. Susanna può esserne l’esempio, ma non è certo l’autodistruzione, far terra bruciata intorno a sé, la modalità corretta per risolvere il problema.

In tutta sincerità, il personaggio di Susanna, non mi ha entusiasmato granché. Avrei voluto sentire e capire meglio le motivazioni, i pensieri, i veri sentimenti che ribollivano sotto tutto quel panno di grasso, oltre la rabbia e la frustrazione (sono le uniche emozioni che sono riuscita a percepire) di non riuscire a sfondare in quel talento che solo lei, Lorella e la suora riconoscono. L’ho trovata insomma un personaggio un po’ piatto, e anche la storia, la trama (che per me non è elemento fondamentale) piuttosto uniforme  (in cui si ripetono le continue abbuffate, le ordinazioni del cibo a domicilio, le liti con la vicina di casa…) senza consistenti alti e bassi da creare un ritmo più brioso e coinvolgente. Sicuramente è un mio gusto personale la scrittura più intimistica, quella che approfondisce più la psicologia del personaggio, le emozioni, i tormenti interiori, le paure, i dubbi, le sicurezze… e forse qui non ne ho trovata abbastanza.

La struttura del romanzo è sicuramente interessante e ben impostata, con l’alternanza dei punti di vista (in terza persona onnisciente e in prima persona quando parla Lorella, l’amica), altrettanto l’idea delle epistole o mail ai grandi personaggi (coloro che ce l’hanno fatta) in cui la protagonista esprime tutto il suo risentimento. Assai suggestivi sono i passi in cui Susanna, ormai chiusa nel proprio mondo, isolata da troppo tempo, immersa completamente nella scrittura, comincia a confondere la realtà con la finzione: i due mondi (realtà e immaginario) si fondono, formandone uno solo, unico e vero, ma soltanto per lei. Gli incontri tra Susanna e i suoi personaggi, i quali molto spesso si lamentano con lei per la sorte che ha destinato loro, sono davvero ben costruiti e memorabili. «Perché mi hai fatto i piedi palmati? Si può sapere  cosa ti è saltato in mente?» ,«Il cancro mi sta divorando, ho dolore indescrivibili!»,«Già mi ha dato un cognome assurdo, c’era bisogno che mi facessi venire pure la sclerosi multipla?»,«Sadica!», «Pervertita!», «Assassina!»

La scrittura è fluida, nitida, competente, sicuramente una piacevole lettura, anche se alla fine, per tutte le ragioni anzidette, mi ha lasciato una sensazione di mancanza, quel  vuoto che la protagonista avrebbe senz’altro riempito, con un bel bignè alla crema, o forse due.

 A.C.

La scrittrice obesa di Marisa Salabelle (Arkadia2022)


23 marzo 2023

TRE PIANI di Eshkol Nevo

 

Tre piani, tre storie, tre drammi familiari distinti ma collegati fra loro in un unico romanzo che li raccoglie tutti, completandoli. Un romanzo avvincente, che cattura e coinvolge subito fin dalle prime pagine, per la capacità dell’autore — che conosce e sa ben usare il cliffhanger — di tenerci continuamente agganciati alla storia. In tutte e tre i racconti infatti, siamo informati fin da subito che è successo qualcosa di piuttosto importante e grave, e tutta l’attenzione di noi lettori procede in quella direzione. 

La voce narrante, nei tre capitoli, è sempre la prima persona, che dal suo punto di vista si rivolge a un interlocutore ogni volta diverso, attraverso un dialogo aperto (nel primo caso è un amico dell’adolescenza, uno scrittore; nel secondo è un’amica d’infanzia; nel terzo, è il marito defunto della protagonista).

È proprio la struttura, l’architettura, il modo agile e ben costruito della trama, la capacità tecnica dello scrittore israeliano (finora a me sconosciuto) che riesce a creare questo complesso trittico, ciò che più ho apprezzato.

I tre piani possono rappresentare la coscienza dell’uomo, come l’autore suggerisce in riferimento a L’Enciclopedia delle idee di Freud, dove «al primo piano risiedono tutte le nostre pulsioni e istinti, l’Es. Al piano di mezzo abita l’Io, che cerca di conciliare i nostri desideri e la realtà. E al piano più alto, il terzo abita sua altezza il Super-Io» e ogni protagonista del rispettivo piano sembra rappresentare proprio queste peculiarità.

Il piano rappresenta anche la famiglia, come istituzione, nello specifico il modello familiare medio-borghese, con tutti i pregi e difetti, vizi e virtù, verità nascoste o dichiarate, sullo sfondo di una cittadina alla periferia di una Tel Aviv contemporanea. «Ogni famiglia è un pianeta a sé, e a volte serve la presenza di qualcuno atterrato lì da un altro posto per rendersi conto».

Al primo piano la vicenda si muove attorno alle congetture di Arnon, su un ipotetico abuso sessuale da parte del vicino di casa anziano, affetto da Alzheimer, sulla figlioletta Ofri di otto anni. L’ostinata supposizione e la ricerca morbosa della verità da parte di Arnon, porteranno conseguenze tali, che a causa di mosse azzardate e passi falsi, comprometteranno seriamente l’equilibrio familiare.

Al secondo piano vive Hani, una giovane donna, madre di due figlie piccole, costretta a crescerle da sola, perché il marito è fuori per lavoro anche per lunghi periodi. Le confessioni all’amica ce la rivelano come una donna fragile, ma lucida e intelligente: «Da otto anni mi trovo intrappolata — sì è questa la parola  — intrappolata nel mio desiderio di riuscire nella missione in cui mia madre ha fallito, e intanto la polvere del tempo mi ricopre, Neta. E io mi lascio ricoprire. Lo so che è un’immagine ormai logora, ma sono logorata anch’io. Non ho la forza di fingere un’allegria che non provo più». Una donna profondamente delusa, abbandonata, sola, che vede e sente parlare il barbagianni (il fantasma della sua coscienza, che poi diventano due) risvegliandole la paura di impazzire, di perdere il senno come già è accaduto alla madre. C’è in lei però tutta la volontà di resistere, di approfondire il dolore dell’anima, di scavare dentro sé per ritrovarsi, e la lettera sincera e appassionata all’amica lo testimonia. Anche qui c’è una tensione, quel detto all’inizio ma non detto chiaramente, che rivela fin da subito l’evento che ha spinto Hani a scrivere all’amica, quel segreto che solo a lei può raccontare, con la speranza di non essere giudicata. Anche qui l’espediente narrativo dello show don’t tell non manca: raccontare e far vedere Hani attraverso i sentimenti e le emozioni, la gioventù, le passioni, il servizio militare, il matrimonio, le maternità usando la formula del ricordo.

E infine al terzo piano Dvora, vedova, giudice in pensione, madre e moglie (combattuta tra i due ruoli, logorata dai sensi di colpa per non aver saputo conciliare l’affetto filiale a quello coniugale), donna tormentata dal senso di fallimento e inferiorità, nell’essere stata perenne appendice del marito. Si avverte forte il conflitto generazionale che crea a sua volta il difficile rapporto figlio - genitore, soprattutto in una società borghese dove le imposizioni culturali, sociali, ideologiche sono più sentite ed estremizzate. Ancora una volta sappiamo fin da subito che il figlio Adar ha abbandonato la famiglia ma non conosciamo la motivazione e la tensione è tutta lì, in questo mistero, che l’autore sa mantenere e destreggiare sapientemente. Qui colpisce più che mai la modalità di narrazione: Dvora racconta al marito tutto ciò che sta vivendo, attraverso messaggi lasciati alla segreteria telefonica dov’è registrata la voce del marito defunto, trovata per caso durante le operazioni di trasloco (anche qui perché il trasloco? L’autore ce lo dirà solo alla fine) trasformandola in una sorta di diario sonoro. In questa storia più che nelle altre due, si intuisce la realtà politica israeliana, il fermento delle rivolte giovanili contro ogni forma di potere, qualche accenno alla Shoah.

L’aspetto sorprendente e a parer mio più rilevante è che in tutte e tre le storie nonostante la tragicità degli eventi, si avverte sempre lo spiraglio di speranza, di un cambiamento possibile, di un rinnovamento inevitabile, che può essere interpretato a livello sociale «Qui sta succedendo qualcosa di straordinario: un’infinità di persone non più disposte ad accettare le cose come sono, credono ci sia una possibilità di riparare e per farlo si riuniscono in un unico luogo. È proprio una congiuntura speciale» e individuale nella frase finale di Dvora in cui spezzando la catena che la lega al marito asserisce:« D’ora in poi non si tratta più della nostra strada, amore mio, fiore mio, mia sventura. D’ora in poi è la mia strada».

La fugacità del tempo, della vita che scorre implacabile è meravigliosamente rappresentata con questa metafora: «La sabbia della mia vita sta per terminare, e quello che non chiedo oggi, chissà, potrei non aver modo di chiederlo domani». Così la riflessione sulla solitudine, come isolamento, che non ci permette di vedere la realtà: «Tutti soli non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperatamente nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce».

Ben felice di aver scoperto l’autore, la sua scrittura  fluida, brillante, avvincente, ricca di originali metafore, una lettura piacevole, stimolante, intimistica che mi ha davvero entusiasmata.

Forse il tecnicismo può far perdere un po’ dell’ emozione, ma il risultato è senz’altro notevole.

 A.C.

Tre piani di Eshkol Nevo(  Neri Pozza 2017)