16 gennaio 2023

IL MESTIERE DI SCRIVERE di Raymond Carver

 


Il mestiere di scrivere è una raccolta di brevi saggi, tenuti da Raymond Carver nel suo percorso di docente di scrittura creativa, una lettura assai interessante per chiunque voglia approcciarsi alla magnifica arte dello scrivere, ma anche per chi ha già pubblicato e si considera uno scrittore, perché credo davvero che non si finisca mai di imparare.

Il libro oltre a fornire esercizi, consigli, riflessioni, istruzioni di scrittura, ci svela l’uomo il suo modo di pensare, il carattere, la sensibilità descritto dettagliatamente anche nella prefazione e nelle testimonianze di chi lo conosceva.

Per me che ne ho letto e apprezzato le opere (perlopiù racconti), è stato un piacere incontrarlo di nuovo; è stato come mettermi seduta nell’aula insieme ai suoi studenti, per ascoltare i suoi insegnamenti catturando (aveva una voce sempre flebile, udibile a malapena) le sue tesi sulla letteratura e i preziosi suggerimenti sul mestiere di scrivere.

Accusava lo sperimentalismo in maniera accorata, ritenendolo «come una specie di licenza per scrivere in modo sciatto, sciocco o imitativo. La vera sperimentazione dovrebbe essere originale» asseriva.

La scrittura deve avere la capacità di sbalordire: «In una poesia o in un racconto si possono descrivere delle cose, degli oggetti comuni usando un linguaggio comune ma preciso e dotare questi oggetti – una sedia, le tendine di una finestra, una forchetta, un sasso, un orecchino – di un potere immenso, addirittura sbalorditivo».

Aveva un grande rispetto per le parole, per il loro potere straordinario e unico: «Non sopporto cose scritte in maniera sciatta e confusa [] le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore».

Il motore della storia è la minaccia, la tensione «che qualcosa sta per accadere, che certe cose si sono messe in moto e non si possono fermare, altrimenti, il più delle volte, la storia semplicemente non ci sarà. Quello che crea tensione in un racconto è, in parte, il modo in cui le parole vengono concretamente collegate per formare l’azione visibile della storia. Ma creano tensione anche le cose che vengono lasciate fuori, che sono implicite, il paesaggio che è appena sotto la tranquilla (ma a volte rotta e agitata) superficie del racconto».

Proprio così, per far funzionare un racconto, si devono conoscere tante cose di quella vicenda – chi era il padre, la madre del protagonista, che lavoro facevano, come era la casa dove ha vissuto l’infanzia, ecc… conoscere l’invisibile, anche se poi non arriveremo mai a parlarne. Dobbiamo avere tutto chiaro nella nostra testa, per renderlo con altrettanta chiarezza al lettore, di questo anch’io sono assolutamente convinta.

Carver è il fautore del linguaggio chiaro, preciso, dettagliato, «un linguaggio usato in modo da infondere vita a dettagli che illuminino il racconto al lettore» perciò è opportuno che «il linguaggio sia dato in maniera quanto mai accurata e precisa. Le parole possono essere precise anche al punto di apparire piatte, l’importante è che siano cariche di significato». Parole cariche di significato, una frase sicuramente da tenere sotto gli occhi, appuntata sotto il monitor (copiata su una scheda sei-per-dodici, avrebbe detto lui ) mentre scrivo anch’io i miei racconti. Questa impostazione la ereditò dal suo mentore John Gardner indirizzandolo a quello che molti definiscono minimalismo. Gardner e successivamente Gordon Lish, gli insegnarono a usare la parola precisa e a eliminare il sovrappiù, gli orpelli, «come fosse importante dire esattamente quel che volevo dire e niente di più, non usare parole “letterarie” o un linguaggio “pseudopoetico”[…], come dire ciò che volevo dire e usare il minimo numero di parole per farlo».

In questo saggio si scopre, come già dicevo, l’essere umano nel suo modo informale, le sue semplici origini, la sua profonda modestia («Non sapevo niente, ma almeno sapevo di non sapere niente»), la sua umiltà velata di timidezza. Mi ha colpito quel sussurrare le lezioni con timido appiglio, quasi volesse scusarsi di dire le sue opinioni. Ne emerge il ritratto di un uomo generoso, altruista, sensibile, buono, incoraggiante, positivo.

Altro concetto fondamentale che condivido appieno (anch’io leggo, rileggo, correggo con una premura maniacale il testo) è l’importanza della riscrittura perché «uno scrittore scopre quello che vuol dire mediante un continuo processo consistente nel “vedere” quello che ha già detto. E questa visione, questo processo di messa a fuoco della visione, si otteneva mediante la revisione».

Per Carver è importante comunicare col lettore perciò si deve essere chiari, precisi, come importante è aver «fiducia nel fatto che il mondo conosciuto abbia ragion d’essere, e che valga la pena di scriverne». Essere chiari aiuta anche il lettore a capire come funziona la mente del personaggio.

Un altro consiglio di scrittura (anche questo da appuntare sotto il monitor) è di non scrivere frasi troppo simili fra loro (le ripetizioni) perché rappresentano «un ostacolo per far entrare il lettore nel tuo sogno».

La letteratura deve essere realista, narrare il mondo che ci circonda, avvenimenti quotidiani, tratti dall’esperienza di tutti i giorni.

Interessante è il capitolo dedicato al laboratorio di scrittura, in cui sono riportati alcuni audio originali delle lezioni tenute da Carver all’Università dell’Iowa, in cui si può apprezzare la qualità e la passione del suo insegnamento.

Concludo qui, scusandomi per le continue e numerose citazioni, ma credetemi non ho saputo resistere.

Ho terminato la lettura ma non il libro: mi attendono ancora cinquanta esercizi di scrittura creativa, sulle orme dei racconti dell’autore, ai quali mi dedicherò con sincero piacere.

A.C.

“Il mestiere di scrivere”di Raymond Carver ( Einaudi Stile Libero 1997)


13 gennaio 2023

LE MIE RISPOSTE ALLE GRANDI DOMANDE di Stephen W. Hawking

 


Inizio l’anno con una lettura dal genere un po’ insolito per me, un saggio, e per giunta di argomento scientifico. Non che io disprezza la scienza né tantomeno i saggi, ma preferisco di gran lunga la narrativa, per il piacere e la soddisfazione che sempre sa donarmi, offrendomi cultura e conoscenze in maniera indiretta che poi elaboro e faccio mie. Il libro mi è stato regalato da un caro amico, e cominciando a leggerlo per curiosità, forse anche incantata dal titolo, sono andata avanti fino a concluderlo, sebbene molti concetti, principi della fisica spiegati da Hawking, mi siano piuttosto difficili da comprendere. Ho avuto occasione di conoscere l’autore anche grazie al film “La teoria del tutto” di James Marsh (pellicola meravigliosa) che riproduce in maniera realistica e convincente la sua biografia, mettendone in risalto, oltre alle sue capacità professionali, anche il suo carattere ironico e ottimista.

Come il titolo recita, l’autore si fa voce per dare risposta alle principali domande che da secoli ci assillano: Esiste un Dio? Come è iniziato tutto? Nell’universo ci sono altre forme di vita intelligenti? Possiamo predire il futuro? Cosa c’è dentro un buco nero? È possibile viaggiare nel tempo? Riusciremmo a sopravvivere sulla Terra? Dovremmo colonizzare lo spazio? L’intelligenza artificiale surclasserà la nostra? Come possiamo plasmare il futuro?

A queste domande (che sono poi i capitoli del libro), Stephen Hawking cerca di dare spiegazioni e trovare soluzioni, sempre basandosi sul metodo scientifico avvalendosi delle sue competenze, intuito, genialità, immaginazione, il tutto pervaso da un sottile velo ironico e ottimista.

Dal suo narrare, scorrevole e fluido (nonostante gli intoppi legati alle mie difficoltà concettuali della materia) emerge un uomo forte, integro, che nonostante l’infermità ha saputo portare avanti la sua missione di uomo di scienza, con passione, determinazione, curiosità ed entusiasmo, un uomo che oltre il contributo scientifico ha saputo dare un grande esempio di forza psichica e morale dal quale dovremmo tutti imparare.

Questo è il grande regalo che ci lascia, oltre ai suoi preziosi studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull’origine dell’universo. Altrettanto significativa è anche l’attenzione rivolta ai tre grandi problemi dell’umanità, che come lui stesso spiega nel libro potrebbero portare velocemente  all’estinzione della specie umana : la deforestazione, il surriscaldamento globale, l’utilizzo dell’energia nucleare a scopi bellici e il sopravvento dell’intelligenza artificiale su quella umana. Tutto senza inutili allarmismi, ma spiegato con rigore scientifico e soprattutto realistico.

E proprio con le sue parole, voglio concludere questa mia breve analisi:

«Ricordatevi sempre di guardare in alto, verso le stelle, e non i vostri piedi. Cercate di capire quello che vedete e interrogatevi sulle ragioni per cui l’universo esiste. Siate curiosi. Per quanto difficile possa sembrare la vita, c’ è sempre qualcosa che potrete far con successo. L’importante è non arrendersi. Liberate la vostra immaginazione. Plasmate il futuro».

A.C.

"Le mie risposte alle grandi domande" di Stephen W. Hawking  (BUR Rizzoli 2018)

02 gennaio 2023

ANJA E DOSTOEVSKIJ A FIRENZE di Nicoletta Manetti

 

Uno scrigno prezioso di informazioni, curiosità, aneddoti, l’ultima pubblicazione di Nicoletta Manetti che ancora una volta sorprende per l’attenta ricerca storica, accuratezza dei dettagli e chiarezza dei contenuti, raccolti tutti in questo libriccino (e il diminutivo non è certo dispregiativo) di nemmeno cento pagine. Ciò dimostra che la sintesi è un suo ulteriore pregio, rivelando una capacità di concentrare gli eventi, le argomentazioni, osservazioni e riflessioni più plausibili ai fini di un messaggio narrativo efficace.

L’autrice, in questa ricerca romanzata, ripercorre il periodo di otto mesi, in cui lo scrittore soggiornò a Firenze insieme alla moglie Anja (anche assistente stenografa) ai tempi di Firenze Capitale. La coppia aveva scelto Firenze per il clima mite e dolce, ideale per scrivere rispetto alle temperature rigide russe, e soprattutto per sfuggire ai creditori. È nello scenario di questa magnifica città, circondata dai colli, dai giardini rigogliosi anche d’inverno, traboccante di arte e cultura che Dostoevskij conclude il romanzo “L’Idiota”. E qui è impossibile non provare un pizzico di orgoglio nell’apprendere come la nostra amata città sia stata fonte di tanta ispirazione.

I capitoli sono divisi per mesi, dall’arrivo nel novembre del 1868, fino alla partenza nel luglio dell’anno successivo, preceduti da una introduzione assai illuminante dove l’autrice ci spiega che lo scrittore era stato a Firenze sei anni prima con l’amico Turgenev, descrivendoci dove alloggiarono (addirittura il numero di stanza), chi frequentarono, come passarono il tempo. Viene ripercorso anche il periodo successivo, segnato da eventi infausti: lutti, perdite al gioco, debiti. La conoscenza di Anja, assunta come stenografa sarà l’inizio di una rinascita per lo scrittore, anche se non mancheranno ancora periodi di ombra e di dolore. Durante il soggiorno fiorentino, l’autrice è come se si mettesse al fianco di Dostoevskij, e lo seguisse senza mai abbandonarlo, rivelandoci i suoi desideri, i suoi interessi, le sue paure, le crisi per l’urgenza del libro da consegnare, la sofferenza per il clima estivo troppo afoso e insopportabile, mostrandoci la verità dell’uomo dietro l’artista che tutti conosciamo. Conclude il libro la testimonianza della figlia Liubov’ e i tributi di Firenze per i duecento anni dalla nascita del grande autore russo.

Assai interessante il corredo fotografico allegato, in cui Nicoletta Manetti ci mostra documenti, luoghi, edifici interni ed esterni, attuali e dell’epoca, i ritratti dei due artisti, che compaiono anche in copertina.

Un’opera dedicata a coloro (e non solo) che vogliono approfondire le conoscenze su questo scrittore, e che intendono scoprirne anche l’aspetto più umano, relazionale, pratico oltre che artistico.

Un libro che mi ha incantata, per la sobrietà, chiarezza, delicatezza del linguaggio, in uno stile semplice ma ricercato, tipico dell’autrice apprezzato già in altre sue opere.

Semplicemente delizioso, leggetelo.

A.C.

01 gennaio 2023

MATTATOIO N.5 di Kurt Vonnegut



Un  libro molto particolare, che non si dimentica facilmente anche se è difficile definire la trama di Mattatoio n.5 in maniera lineare, perché le vicende non seguono un filo sequenziale, uniforme, ma procedono come a singhiozzo, con visioni, immagini frammentate, compiendo sorprendenti salti temporali e spaziali. Una scrittura che sembra più un flusso di pensiero, a uso e consumo dell’autore stesso che a quello del lettore, ho pensato all’inizio. Sono entrata nella storia perciò un po’ a fatica, fino a quando mi sono arresa intuendo che dovevo prenderla per com’era, senza troppo pensiero, lasciandomi catturare dalla suggestione delle parole, dalle descrizioni, dai dialoghi e dalle riflessioni. In verità in questo libro c’è molto su cui pensare e meditare.

Billy Pilgrim è un americano reduce della seconda guerra mondiale, che ha la capacità di viaggiare nello Spazio e nel Tempo. Durante la sua vita, avrà una brillante carriera di ottico, si arruolerà nell’esercito, sopravvivrà al massacro di Desdra in Germania (in cui persero la vita ben 135 mila persone, di cui poco la storia parla) grazie al rifugio sotterraneo in un mattatoio (da cui il titolo), si sposerà, avrà due figli, si salverà da uno spaventoso incidente aereo. Billy è un personaggio a cui ci si affeziona subito, per la semplicità dei sentimenti, per la sua fragilità, bonarietà, arrendevolezza, per il suo forte realismo (dettato dal fatto che anche Vonnegut visse l’esperienza bellica della seconda guerra mondiale e il massacro di Desdra).

Nonostante la tragicità degli eventi narrati in questo romanzo, non mancano l’aspetto ironico, sarcastico, addirittura comico in cui l’autore – a mio parere – ha cercato di svalorizzare l’istituzione della guerra stessa (farle perdere la serietà che invece vuole attestare), mettere in luce la sua ridicola manifestazione esaltandone la disfunzione  e l’assurdità.

Si avverte potente il suo messaggio di opposizione alla Guerra e un chiaro inno alla Pace: «Ho detto ai miei figli che non devono, in nessuna circostanza, partecipare a un massacro, e che le notizie di massacri compiuti tra nemici, non devono riempirli di soddisfazione e di gioia. Ho anche detto loro di non lavorare per società che fabbricano congegni in grado di provocare massacri, e di esprimere il loro disprezzo per chi pensa che congegni del genere siano necessari». Ecco allora l’apparizione di un mondo extraterrestre, Tralfamadore, in cui la pace non è un’utopia, e di cui Billy cerca di carpirne il segreto:“Ho imparato come gli abitanti di un intero pianeta possano vivere in pace! Come sapete, io vengo da un pianeta che da tempo immemorabile non fa che compiere massacri insensati. Io stesso ho visto i corpi di ragazzine bollite vive dentro un serbatoio dai miei compatrioti, tutti fieri di battersi in quel modo contro il male[…] E di notte in prigione mi sono fatto luce con candele fabbricate col grasso di esseri umani uccisi dai fratelli e dai padri di quelle ragazzine. I terrestri devono essere il terrore dell’universo![...] Ditemi dunque il segreto, così lo porterò sulla Terra e saremo tutti salvi: come può un pianeta vivere in pace?”.

C’è davvero in queste poche righe il più sentito disprezzo, la più sincera repulsione a un meccanismo così atroce, al contempo stupido e insensato come la guerra.

Interessante quel continuo intercalare e concludere i paragrafi con la frase Così va la vita ed E così via che, come un mantra, puntualizza l’arrendersi agli eventi, acquisire consapevolezza della realtà circostante senza esserne succubi, affidarsi al flusso dell’esistenza senza fermarsi mai, camminare insieme alla vita stessa, perché proprio così va la vita, prosegue il suo cammino, nonostante tutto, nonostante noi.

E ancora il tema del Fato, il destino che ognuno si porta appresso e che non si può cambiare, ma accogliere nella piena comprensione. Non si cambia il destino dicono i Tralfamadoriani: «Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. Non si presta ad avvertimenti o spiegazioni. È, e basta. Lo prenda momento per momento, e vedrà che siamo tutti, come ho detto prima, insetti nell’ambra[…] Solo sulla terra si parla di libero arbitrio».

Insetti nell’ambra, uomini e donne imbalsamati, senza capacità di muoversi, di decidere della propria sorte, e già solo questa metafora (e ce ne sono tante)  aprirebbe un altro interessante discorso sullo stile dello scrittore, che ho molto apprezzato man mano che proseguivo con la lettura.

Davvero una scrittura profonda, che stimola e arricchisce, riuscendo a regalare nella dualità degli opposti – drammaticità e comicità, serietà e leggerezza, gravità e ironia – una visione realistica e concreta del conflitto mondiale, riflessioni sui veri valori dell’esistenza, sulla nostra precarietà di esseri umani, sull’ eventualità di nuovi mondi dove l’impossibile possa divenire possibile .

Grazie per il consiglio di lettura che rinnovo a coloro che non conoscono l’autore e che spero di avere incuriosito.

A.C.

Mattatoio n.5  di Kurt Vonnegut (ed. Feltrinelli 2003)

1 gennaio 2023

28 dicembre 2022

Leggere è vivere

Leggere ci rende  curiosi, la curiosità ci fa guardare il mondo da più prospettive, oltre i limiti del visibile, nel sensibile e nell'immaginabile, nel possibile e nell'impossibile. La lettura ci completa, ci fa umani, perché è solo nostra la capacità di codificare lettere che unite formano parole, frasi che creano storie. Non è meraviglioso? Leggere è vivere una, cento, mille vite, e tutto a basso costo 

11 dicembre 2022

DOMANI NELLA BATTAGLIA PENSA A ME di Javier Marias


Non è facile prendere delle decisioni razionali quando ci si trova nel luogo, nel momento e con la persona, sbagliati. È proprio ciò che capita a Victor, scrittore e giornalista madrileno, nell’appartamento di Marta, donna affascinante conosciuta pochi giorni prima. Dopo aver cenato, durante i preliminari amorosi, lei viene colta da un malore fatale che la porta alla morte. Ragionevole gestire tale emergenza chiamando un’ambulanza, ma non nel caso in questione, mentre il figlio di lei (due anni appena) sta dormendo nella sua cameretta e il marito, ignaro ovviamente della relazione clandestina, si trova a Londra per lavoro, a molti chilometri di distanza da Madrid.

Ancora più difficile fare scelte repentine e sensate in una situazione così tragica e al contempo assurda. Non voglio rivelare altro della trama assai lineare ed essenziale (non accadono molti fatti), voglio invece sottolineare ed evidenziare le peculiarità stilistiche dell’autore, tanto da scoprire pareri assai discordanti tra chi lo adora e chi invece non lo apprezza.

Io faccio parte del primo gruppo, dopo aver conosciuto il suo stile con “Gli innamoramenti”, romanzo altrettanto caratteristico e sorprendente.

«Domani nella battaglia pensa a me» che dà anche il titolo all’opera, è una frase tratta dal Riccardo III di W.Shakespeare, che compare per la prima volta come pensiero di Victor quando si sofferma a osservare gli aeroplanini appesi al soffitto nella camera del bambino, mentre Marta giace già morta nel suo letto.

È un romanzo dalla terminologia colta e ricercata, costituito da lunghi e articolati periodi, ricco di punteggiature, riferimenti letterari, citazioni, un puzzle composto da infiniti e copiosi tasselli, una lettura non sempre morbida e fluida, ma non per questo meno stimolante e interessante. La trama riesce con la propria originalità ad acchiappare il lettore, tanto da spingerlo ad andare avanti per scoprire cosa si nasconde dietro il non detto ma che sappiamo esistere e che ancora il narratore non vuole svelarci. È in questa attesa che rimaniamo col fiato sospeso, desiderosi di sapere la verità, mentre proseguiamo nella lettura e ci perdiamo in altre storie secondarie meno significative.

La scrittura di Javier Marias è un fiume in piena di parole, sempre molto precise, dettagliate, che irrompono, scivolano nel letto della pagina creando una narrazione mai banale (anche nel trattare fatti comuni), curata, introspettiva, che sa denudare la superficie delle cose per mostrarcele nella loro intimità. Così i personaggi, che attraverso le descrizioni ci appaiono per quello che sono veramente, in quello che provano, amano, pensano, sognano…

Le descrizioni sono ampie, specificate, arricchite da metafore o similitudini, cito a esempio una parte della descrizione di Dean, il marito di Marta: «Le sue labbra erano sottili, visibili anche se prive di colorito, o dello stesso colorito della pelle solcata da striature e fili che con il tempo sarebbero diventate rughe o già cominciavano a esserlo, come tagli superficiali sul legno (il suo volto sarebbe stato un giorno un pulpito). Portava i capelli castani accuratamente pettinati con la riga a sinistra, molto lisci e forse pettinati soltanto con acqua come se fossero quelli di un bambino di un tempo… la bocca fine e tesa dell’orditore instancabile, dell’anticipatore – le labbra come nastri tesi –, ma a denotare anche lentezza e capacità di sorpresa e infinita capacità di comprensione; il mento non sottomesso ma ora abbattuto, una spada senza filo; le orecchie un po’ a punta come se fossero permanentemente allerta, come se volessero cogliere anche quello che non è pronunciato in lontananza».

Ho apprezzato inoltre la capacità dell’autore nel saper creare un intreccio organizzato nonostante le innumerevoli digressioni che all’apparenza sembrano appesantire il romanzo ma che in realtà lo strutturano, lo rendono stilisticamente più solido invogliando il lettore a proseguire per ritrovare il filo e la risoluzione della narrazione.

Fil rouge che potremmo ricondurre alla tematica dell’inganno, citato all’inizio in riferimento alle persone care che tollerano con difficoltà la mancanza di verità «che ci credano vivi se siamo morti», o come spiegato nella parte finale del libro «Vivere nell’inganno è facile, ed è la nostra condizione naturale, e in realtà questo non dovrebbe dolerci poi tanto», o per finire quando afferma «L’inganno e la sua scoperta ci fanno vedere che anche il passato è instabile e malsicuro, che neppure ciò che in esso sembra ormai fermo e assodato lo è per una volta e non per sempre, che ciò che è stato è composto anche da ciò che non è stato, e che ciò che non è stato può ancora essere».

E concludo questa mia lunga riflessione sull’autore e sulla lettura, riportando questa bellissima frase sulla funzione formativa del romanzo in cui l’autore nell’epilogo afferma: «Un romanzo non soltanto racconta, ma ci permette di assistere a una storia o ad alcuni eventi o a un pensiero, e nell’assistervi ci permettere di comprendere», poche e semplici parole, ma che dicono tutto e di più.

A.C.

“Domani nella battaglia pensa a me” di Javier Marias ( Einaudi 2014)



10 dicembre 2022

IL GIORNO PRIMA DELLA FELICITA' di Erri De Luca

 

Romanzo breve, di formazione, una storia di vita. Lo Smilzo - orfano cresciuto in un casolare di una Napoli del dopoguerra - diventa Uomo, scoprendo il complesso mondo degli adulti, con le sue peculiarità, contraddizioni, gioie, ostilità, inganni, paure...

Due storie parallele di uguale rilievo, quella del bambino lo Smilzo, voce narrante, e quella di Don Gaetano, portiere del caseggiato dove vivono entrambi, uomo umile, saggio nella semplicità di parola, grande conoscitore dell’animo umano, un po’ profeta. Forse perché sa leggere i pensieri nella mente altrui, Don Gaetano conosce tutto e tutti, e con discrezione si rapporta agli altri. Uniti da un comune destino - orfani entrambi - congiungono le loro solitudini per creare un’ intesa singolare che va oltre i legami di sangue, oltre le convenzioni. Don Gaetano accompagna la crescita del ragazzo senza indottrinamenti. La sua è un’educazione - se proprio le si vuol dare un nome - basata sulla parola e sull’azione, sul dialogo, sull’esperienza, sul ricordo e sulla memoria del passato con il solo scopo di vivere il presente e ipotizzare un futuro «Il passato era una scala e la risalivo». Intorno alle loro vicende personali si inserisce una Napoli intrisa di colore, sapore, odore, che cerca di uscire dalla crisi del dopoguerra. Al presente si mescolano i racconti «Don Gaetano mi passava le consegne  di una storia. Era un’ Eredità», che come flashback  sottolineano la drammaticità della guerra e la consapevolezza delle nostre radici. Lo Smilzo così si fa uomo, accompagnato dalle storie di Don Gaetano, conosce le proprie origini, apprende, sperimenta la vita: amore, sesso, sfida, esilio...

Un romanzo intenso, pieno di sentimento, di amore e gioia nella semplicità di un quotidiano, sufficiente a renderci felici. Stupende le metafore e l’uso sapiente della parola dell’autore, capace di creare suggestioni  incantevoli all’orecchio e alla mente del lettore. A parte il linguaggio forse troppo artificioso del piccolo Smilzo e della sua amica Anna, tutto il resto è sublime, predominando la bellezza e la magia della parola. Come sempre Erri De Luca è una garanzia, per chi legge e per chi, come me, scrive.

A.C

"Il giorno prima della felicità" di Erri Del Luca ( Feltrinelli 2009)


31 ottobre 2022

UNA DONNA di di Annie Ernaux

 

«Bellissimo!», non posso fare a meno di iniziare la mia recensione con un aggettivo così banale e scontato, ma che rende in maniera esemplare la mia prima impressione di lettura.

Annie Ernaux, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura 2022, autrice francese che ho avuto il piacere di scoprire solo adesso, grazie a questo meritato Premio - in fondo a qualcosa servono i riconoscimenti, oltre a rivestire di fama e gloria i fortunati. Fra i tanti pubblicati, ho scelto Una donna, per l’argomento che mi attraversa e coinvolge in modo viscerale.

Un’opera interessante da un punto di vista strutturale, da non classificarsi in un genere specifico, definita in tal modo dall’autrice stessa: “Questa, non è una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia”.

“Mia madre è morta lunedì 7 aprile nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise, dove l’avevo portata due anni fa” dall’incipit così semplice ma forte e pieno di interrogativi, si sviluppa lentamente la storia di una bambina nata in Normandia nel diciannovesimo secolo, che cresce, matura, si fa donna, diviene lavorante, moglie, madre , nonna… mentre intorno “accade” la Storia europea e mondiale, quella della povertà delle classi più abiette, della fatica legata al mondo contadino, della difficoltà di emergere e farsi una posizione sociale migliore; della difficile condizione femminile, dei pregiudizi legati al genere; sulle difficoltà legate alla Guerra e quelle ancora peggiori del Dopoguerra. Mentre la Storia fa il suo corso, la madre - non sarà rivelato mai il suo nome - , si innamora, si sposa, lotta con tutta sé stessa per mettere in piedi un negozio di alimentari, il suo sogno (e ci riesce), perde una figlia già grandicella, ma supera il lutto con la seconda, Annie. E qui inizia il loro rapporto, madre - figlia, conflittuale, ma molto vissuto, intenso.

Emerge il ritratto, in tutte le fasi della sua vita, di una donna intelligente, determinata, energica, irruente, di un appetito mai sazio, passionale, sognatrice, curiosa fino a quando la malattia la trasforma in tutt’altro, la sosia di sé stessa, vuota di ricordo e senso del mondo.

Come un lungo monologo, la scrittrice ripercorre i momenti di vita insieme, a volte con nostalgia, a volte con rabbia, odio, amore, gioia e rimpianto.

Frasi di prosa che sembrano poesia: “Elevarsi, per lei, significava soprattutto imparare (diceva «bisogna arricchirsi lo spirito») e nulla era più bello del sapere. I libri erano gli unici oggetti che trattava con cautela. Prima di toccarli si lavava le mani”. Mi stupisco e mi commuovo di fronte a frasi tanto sintetiche, ma così piene di complicità, stima, ammirazione, di pudica e timida intesa reciproca: “Se la guardavo troppo si innervosiva,«che mi vuoi comprare?»” . Quanto sentimento in queste poche parole! E ancora qui, in cui si avverte tutta la forza e determinazione materna:  “Conosceva tutti i gesti che addomesticano la miseria”. E quanto potrei andare avanti, con citazioni così riuscite, il libro ne è pieno, uno scrigno inesauribile.

Parole sempre scelte con cura, precise, da succhiellare con l’impazienza di un giocatore di poker, da gustare all’istante per poi ritornarci sopra.

Uno stile asciutto, essenziale, diretto e funzionale, senza orpelli e parole inutili, solo quelle necessarie a rendere il testo chiaro al lettore ma straordinariamente musicale e incantevole.

Un libro che lascia senza fiato per la bellezza, la sensibilità, le verità che ci vengono restituite, sul rapporto madre- figlia, un amore eterno e indissolubile che non conosce origine “Per me mia madre è priva di storia. C’è sempre stata”.

E ancora una volta la magia della lettura, spalancare porte e finestre della mente e dell’anima, restituendo respiro a ciò che esiste già in noi e ha solo bisogno di uscire dall’ombra.

 A.C.

Una donna di Annie Ernaux ( L’Orma editore 2018)

24 ottobre 2022

LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA di Tennessee Williams




Una piece teatrale che ho letto davvero con piacere - nonostante la mia scarsa abitudine a opere di tale genere - dove la forza sta nei dialoghi e nella descrizione della scena, senza alcuna voce narrante che spiega, commenta, giudica e ammonisce. In questo modo il lettore, dall’osservazione e la riflessione sul testo, trae la morale, o meglio il messaggio di cui l’autore vuole farci dono.

Un libro scorrevole, ironico, divertente anche nella tragicità degli eventi, piccante.

Un dramma familiare che si svolge nella grande villa della famiglia Pollit, dove si festeggia il compleanno del padre, uomo ricco e facoltoso per l’impero di piantagioni di cotone che è riuscito a metter su. C’è una nuvola però che oscura la scena, la malattia terminale dell’anziano, screditata da un esame che sembra tuttavia escluderlo. Il figlio maggiore, Gooper con la moglie e i cinque figlioletti di cui uno in arrivo, sono pronti a festeggiare Mr Pollit, cercando palesemente di entrare nelle grazie del vecchio. Brick, invece non  ne vuole sapere di condividere la festa, chiuso nella propria stanza a bere fino a ubriacarsi, in attesa di quel clic, che sembra aggiustare ogni cosa, mettere ordine nella sua testa, fino a farlo stare tranquillo, in pace. Maggie, sua moglie, è con lui, straziata anche lei dai suoi tormenti, attratta e innamorata del marito senza riserve. Non voglio aggiungere altro per non spoilerare, anche se molti avranno visto il film, interpretato da una bellissima Liz Taylor, e un giovanissimo Paul Newman.

Il personaggio di Maggie è quello che dà colore alla storia, che più mi convince. Maggie è vera, sincera, pura, schietta, trasparente, l’emblema della donna che ama il suo uomo, pronta a difendere il suo territorio anche se scomodo e a preservare il loro amore, con le unghie e gli artigli, come una gatta sul tetto che scotta. Un amore  ostacolato dal fantasma di Skipper, l’amico di Brick, che si è suicidato per cause ignote. E spesso la narrazione ruota riporta questa vicenda; la lunga conversazione di Papi con Brick mira in parte a cercare le cause che portano il figlio ad affogarsi nell’alcool, e a capire se il suicidio dell’amico è una di queste.

Toccanti anche se grossolane le parole di Papi a Brick, in cui gli si rivela forse per la prima volta, parlando dell’ipocrisia, della menzogna che ha popolato da sempre il suo agire, unica modalità per mantenere l’armonia del quieto vivere e portare ai risultati economici raggiunti.

Attraverso la loro - a tratti - accesa conversazione, affiorano anche vecchi ricordi, passati rancori, mancanze, che il carattere debole, pessimista e disfattista di Brick non è riuscito a superare, sublimandoli solo nell’alcool:«Uno che beve è uno che vuole dimenticare che non è più giovane e non crede più».

Il tema dell’omosessualità c’è, ma velato, mai palese.

Insomma un’opera, dove la drammaticità delle azioni e delle parole, è sempre accompagnata dalla speranza, grazie a Maggie, che con grinta e solarità - frutto delle sue umili origini - riesce ad accendere quel fuoco, a trovare il suo posto, nella famiglia acquisita che l’adora come una figlia, e nel marito che forse, raggiunto quel clic,  riesce finalmente a vederla.

A.C.

La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams ( Einaudi 2022)                               

17 ottobre 2022

I MIEI STUPIDI INTENTI di Bernardo Zannoni

 

Un’inaspettata sorpresa questo romanzo vincitore del Premio Campiello 2022 e ancora più fantastico il fatto che a vincerlo sia stato un giovane scrittore Bernardo Zannoni, di soli venticinque anni. Mi sono avvicinata al libro, spinta proprio dalla curiosità.

Interessante e originale la storia, i cui personaggi sono animali, che parlano, vivono, amano, lottano, utilizzano oggetti come gli esseri umani i quali, anche se nominati non entrano mai nella narrazione.

Archie è una giovane faina, figlio di una cucciolata di sei fratelli e sorelle, che dovrà presto fare i conti con le insidie del mondo, lottare per la sopravvivenza, secondo le regole e le leggi del bosco. Rimasto zoppo per una brutta caduta da un albero, sarà venduto dalla madre a Solomon, una volpe che vive di usura aiutata da Gioele, cane fedele e crudele, che controlla e vigila su tutta la proprietà del padrone. Archie, grazie alla propria intelligenza e curiosità riuscirà a conquistarsi un posto nel cuore della volpe, dalla quale imparerà molte cose, oltre a leggere e a scrivere, che lo distinguerà dagli altri.

Un romanzo di ricerca spirituale (oserei dire), teso alla scoperta della verità, di una ragione e un senso al teatro della vita in cui tutti noi, uomini e animali siamo attori, il desiderio di trovare una risposta sull’esistenza di un Dio che crea, giustifica e distrugge, sul destino, sulla morte… «Imparai ad apprezzare la solitudine e trovai la pace con Dio. Mi fu chiaro che il mondo non odia nessuno, e se è crudele, è perché noi siamo crudeli. Dio non aveva commesso altro errore se non quello di averci voluto partecipi, uomini e animali insieme».

Che senso ha morire se non in funzione di una rinascita migliore? È questa una domanda che ritorna continuamente nella narrazione e anche se non troviamo risposta, si avverte la possibilità, la speranza di un’evoluzione, che tutto ciò che facciamo, siamo, costruiamo, diveniamo, non vada perduto, continui a vivere anche senza di noi. La scrittura, fa parte di questo processo evolutivo, ha un potere salvifico, «immune al tempo», capace attraverso la memoria, di lasciare impronta, insegnamento, di insinuare dubbi nella ricerca della conoscenza, di spingerci sempre oltre, di scoprire e sollevare polvere «perché una testa sporca funziona meglio di una testa vuota».

Non si può fare a meno di riflettere e confrontare la nostra realtà “umana” con quella animale, perché le paure, i timori, i desideri, le pulsioni, le domande, i dubbi sono gli stessi. Come la paura della morte, del suo avvicinarsi: «Forse è questo che la morte ci insegna, per chi sa del suo arrivo. Quell’attimo più buio è un percorso solitario, nei meandri di sé stessi, dove ogni cosa sparisce, e si tenta di riacciuffarla. È l’anima di questo mondo, la sua forza più grande, nessuno chiede di nascere, ma nemmeno di andare via». E anche: «La morte è la prima volontà di Dio… e gli altri non c’entrano nulla, perché tocca a ciascuno di noi ». Frasi davvero potenti, soprattutto se pensate nella mente di un ventenne.

Un emozionante, singolare, divertente e drammatico al tempo stesso, percorso dalla nascita alla morte del protagonista, al quale non possiamo fare a meno di affezionarci, anche nelle azioni più deplorevoli (come la causa della separazione dalla compagna Anja).

L’autore, grazie al suo piglio fresco e giovanile, sa regalarci una favola moderna attraverso una scrittura limpida, chiara mai banale, e renderci più che mai consapevoli della gioia e del dolore dell’esistenza (umana e animale) che spesso ci accompagna, insieme a tutti gli stupidi intenti in cui cerchiamo di renderla migliore, di sublimarla, di prolungarla, per cercare di sfuggire anche all’intento più assurdo e impossibile, quello di scappare all’inevitabile.

Una lettura davvero travolgente, che consiglio a tutti.

A.C.

I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni (Sellerio 2021)

03 ottobre 2022

HOZUKI di Aki Shimazaki

 

Hozuki è il primo libro che leggo della scrittrice giapponese Aki Shimazaki (nata a Gifu nel 1954 e attualmente residente in Canada) secondo di una pentalogia.

Hozuki (tradotto: alchechengi ma anche preghiera) è la storia di Mitzuko, una giovane ragazza madre, dal passato tormentato, che dirige una libreria di vecchi libri di arte e filosofia. Vive nell’appartamento sopra il negozio insieme alla madre e al figlio Taro, sette anni, meticcio e sordomuto. Un giorno, fa ingresso nella sua libreria una signora distinta con la figlioletta Hanako, alla ricerca di alcuni testi di filosofia, che metterà in subbuglio la sua routine consolidata.

Romanzo breve scritto in prima persona - la protagonista stessa - dai periodi brevi, chiari, minimali. Una scrittura semplice, discorsiva, frammentata da alcune riflessioni metafisiche ed esistenziali. Forse un po’ troppo “asciutto” essenziale, per il carico emotivo così importante che vuole mettere in scena.

Una lettura scorrevole e rilassante, dalla trama movimentata ma abbastanza prevedibile nella successione degli avvenimenti. Sicuramente la copertina è assai accattivante, come tutte le copertine dei libri dell’autrice, per le bellissime e suggestive immagini floreali e animali.  

A.C.

Hozuki di Aki Shimazaki (ed. Feltrinelli 2021)


20 settembre 2022

TRE di Valerie Perrin

 

Tre è la terza pubblicazione di Valerie Perrin, dopo Il quaderno dell’amore perduto - fra la pila dei miei libri in attesa - e Cambiare l’acqua ai fiori - grande successo letterario che ho apprezzato moltissimo.

Si potrebbe definire un insolito romanzo di formazione,  perché la maturazione riguarda tre personaggi anziché uno, Etienne, Nina e Adrien, che si conoscono sui banchi di scuola di La Comelle, una cittadina alla periferia di Parigi, e crescono inseparabili anche se con periodi di allontanamento e ravvicinamento.

Etienne occhi azzurri, attraente, atletico, affascinante, esuberante, estroverso, svogliato (sfrutta le abilità degli altri due per ottenere sufficienti risultati scolastici) di famiglia benestante.

Adrien al contrario, delicato, introverso, meditativo, osservatore, riflessivo, intelligente, acuto, granitico da non lasciar trapelare alcun sentimento o pensiero più intimi. Vive con la madre, separata dal marito.

Nina anello di congiunzione tra i due - “sempre al centro, Etienne a sinistra e Adrien a destra”, curiosa, vivace, intelligente, spirito libero e artistico, ama disegnare, ritrarre i volti delle persone a lei care. Vive col nonno, abbandonata dalla madre a pochi mesi.

La voce narrante però è un quarto personaggio, Virginie, che sembra conoscere molto bene i tre amici ma di cui non si capisce bene quali siano i rapporti che la legano a loro. Lo scopriremo col procedere della narrazione e questo è senz’altro un merito e lode alla scrittrice che sa così ben dosare le informazioni, tenendoci costantemente sospesi sul filo della curiosità e della suspence.

In questo già complesso scenario si inserisce una nota “gialla”, la scomparsa di Clotilde, amica di infanzia dei ragazzi, con la quale Etienne aveva una relazione.

Il tema principale è la difficoltà della maturazione, di quel periodo travagliato, difficile, complesso che è l’adolescenza. Ognuno con le proprie radici (come la famiglia che può essere un grande supporto morale, materiale, ma a volte anche ostacolo per uno sviluppo sano e sereno), con il proprio fardello, influenzato da un contesto sociale che può essere lo stesso, ma che restituisce risultati diversi a seconda della personalità, emotività , sensibilità.

Ma c’è anche la forza della solidarietà, della fratellanza - anche senza vincoli di sangue - , dell’amicizia su cui ruota la porta dell’esistenza, cardine fondamentale per non sentirsi mai soli, per condividere momenti felici e spensierati, ma anche il dolore, la sofferenza, la malattia, a volte la morte. Il concetto della diversità - o meglio l’unicità che ci rende diversi - è un valore ampiamente  argomentato, innesco dell’opera, a mio parere.

L’autrice indaga sul senso della vita e della morte, sulla brevità dell’una e dell’inevitabilità dell’altra, sulla precarietà dell’esistenza “è pazzesco quanto sia fragile ciò che un uomo lascia dietro di sé” sull’inganno della vita paragonata alle stelle “quello che vediamo di loro non esiste più. Le stelle sono bugie”. C’è infine tanto rimpianto, la sofferenza nel ricordo di un tempo che non può tornare “Certe volte la nostalgia è una maledizione, un veleno”.

Valerie Perrin è abilissima - già nel precedente romanzo ne aveva data dimostrazione - a muoversi nello scenario abbracciando un periodo di più di trent’anni, che va dal 1985 al 2018. Un intreccio ben articolato in continui e veloci passaggi spazio - temporali che invitano il lettore a non distrarsi,  stimolandolo nella concentrazione e attenzione.

Altrettanto competente e precisa nel ricostruire il momento storico, nel rievocare le atmosfere di quegli anni attraverso le canzoni, le mode, le droghe in voga, i valori, le illusioni, le speranze…

Altro punto a suo favore è la maestria nel saper catturare e coinvolgere il lettore, nonostante questi sappia già cosa è accaduto (perciò meno motivato) attraverso uno stile accattivante e coinvolgente che sa modulare bene con la scelta di un linguaggio semplice e chiaro.

Un libro che ho letto con molto piacere, anche se (volendo fare un confronto), preferisco il precedente Cambiare l’acqua ai fiori per l’atmosfera nostalgica che regna in tutto il libro, per il pathos e la simpatia che il personaggio di Violette Toussaint riesce a esprimere e trasmettere.

Forse in questo romanzo c’è troppo “materiale”, troppe storie nella storia - non a caso è un tomo di più di seicento pagine - in cui trova spazio anche il giallo che a mio parere poteva evitare. Credo che avrebbe sicuramente raggiunto lo stesso successo e prestigio, omettendo queste digressioni, che trovo fardelli pesanti non funzionali alla storia e quindi evitabili. Rimane comunque un romanzo valido che vale la pena leggere. Consigliato.

A.C.

"TRE" di Valerie Perrin ( edizioni e/o 2021)


05 settembre 2022

SPATRIATI di Mario Desiati

 


Quanto desiderio, energia, sofferenza, passione, curiosità nel crescere, riconoscersi, affermarsi, trovare un posto e un senso del proprio esistere nel mondo!Intorno a questi sentimenti e intenti si muove il romanzo di Mario Desiati, vincitore del Premio Strega 2022, prima opera che leggo dell’autore.

Claudia e Francesco sono due ragazzi cresciuti insieme a Martina Franca, paese del Pugliese, uniti da una profonda amicizia, che a tratti sconfina in un rapporto ancor più intimo. Legati inoltre da un destino bizzarro, figli di genitori che hanno una relazione clandestina (il padre di lei, con la madre di lui).

Claudia non convenzionale, eccentrica, audace, intelligente, intrepida, istintiva sceglie la via dell’espatrio, soggiornando prima a Londra, Milano poi Berlino dove infine si stabilisce.

Francesco più razionale, ancorato ai dogmi cattolici con i quali è cresciuto, preferisce rimanere nel paese d’origine, trovare un lavoro, conformarsi a ciò che gli altri si aspettano da lui, seppur animato da pulsioni che lo rendono inquieto, che lo vogliono diverso. Il romanzo narrato dal punto di vista di Francesco, ci trasmette tutta la sensibilità dell’animo di questo ragazzo e il suo desiderio e spesso incapacità di renderla manifesta. Claudia sebbene lontana sarà sempre la sua cartina tornasole, lo specchio dove far riflettere i propri sentimenti ed emozioni, per dare forma e concretezza alle pulsioni e desideri più intimi. In un continuo allontanarsi e ravvicinarsi, i due protagonisti cercheranno insieme la strada della propria identità  (fisica, spirituale, emotiva, sessuale,...) senza tuttavia trovare un punto d’arrivo.

Interessante la definizione che l’autore stesso dà del titolo Spatriati: “l’essere ramingo, senza meta, interrotto…balordo, irrisolto, allontanato, sparpagliato, disperso, incerto…” e i protagonisti sono tutto ciò, oltre a essere esiliati, senza patria (anche lui che resta) e senza radici solide di una famiglia che dovrebbe (almeno in parte) proteggerli, tutelarli.

Un romanzo di formazione che coinvolge però due anime, tanto diverse, ma altrettanto simili nella loro incessante e continua ricerca della felicità attraverso la sperimentazione, la scoperta del sesso e dei giochi sottesi, la libertà di espressione del corpo e dei suoi molteplici linguaggi. Un libro che apre riflessioni sulle difficoltà del divenire adulti, della trasformazione di un corpo che cambia e del faticoso inserimento nella società (non solo meridionale) dove trovare una collocazione, un ruolo non solo fisico ma anche emotivo e affettivo (assai più complesso). Siamo negli anni ottanta e allo stato attuale poco è cambiato.

Una scrittura fluida, precisa, competente, sapiente (che giustifica a parer mio il Premio) capace di caratterizzare e restituirci i personaggi - sia nella luce che nell’ombra - in maniera memorabile, grazie anche ai dialoghi condotti e articolati magistralmente. Un libro che ho letto con piacere, curiosità, e trasporto, anche se in alcuni tratti l’autore rallenta il ritmo, o esagera (come per la narrazione delle loro scelte sessuali) anche se capisco e giustifico l’eccesso come il giusto ingrediente per rendere il piatto più saporito e gustoso.

A.C.

Spatriati di Mario Desiati (Einaudi 2021)