07 luglio 2025

FLORENCE DARK SIDE LA CITTÀ E IL SUO DOPPIO OSCURO a cura di Nicola Ronchi e MirkoTondi

 


Quando si tratta di esplorare i lati più profondi e oscuri di Firenze attraverso la narrativa, è impossibile non parlare di Florence Dark side La Città e il suo doppio oscuro, a cura di Nicola Ronchi e Mirko Tondi.

Questa raccolta non è una semplice collezione di racconti gialli, noir o polizieschi, ma un vero e proprio viaggio collettivo, negli anfratti più cupi e loschi della nostra città o periferia, che sedici autrici e autori, uniti dalla passione per la scrittura e per il genere letterario, hanno intrapreso insieme.

Ne emerge un mosaico poliedrico e variegato di storie, perfette come letture estive, in spiaggia sotto l’ombrellone o all’ombra di un abete in montagna.

Coronamento di ciò, le splendide e suggestive interpretazioni di Enrico Guerrini, le cui illustrazioni arricchiscono ogni racconto, catturandone l’essenza e contribuendo a creare l’atmosfera unica della raccolta.

La ricchezza del libro risiede a mio parere nella sua profonda diversità, con ogni penna che apporta la propria sensibilità e il proprio stile.

Sergio Calamandrei ci immerge in un’indagine “a cavallo” dove il ritrovamento del cadavere di un collega nel parco delle Cascine si intreccia alle curiosità e ad alcuni aneddoti fiorentini, sua cifra stilistica. Il commissario Caterina di Renato Campinoti torna alle prese con l’omicidio di un rampollo di una delle più influenti famiglie fiorentine. Con la sua penna inconfondibile Fabrizio De Sanctis ci consegna omicidi multipli per mano di un serial Killer che colpisce nella notte del Capodanno fiorentino, tra il 24 e il 25 marzo. Barbara Carraresi, con le sue competenze professionali, ci racconta la storia di Christian, un ultrà ingiustamente accusato di un delitto senza prove.

Non mancano i collegamenti col passato, come nel racconto di Maurizio Castellani, che ci trasporta in un’affascinante altalena temporale tra il 1420 e il 2020, svelando un intrigante mistero che affonda le sue radici nell’epoca del Brunelleschi.

Altri racconti esplorano le profondità più oscure della psiche, le sfaccettature del Male e dell’anima. Anna Crisci, ci rivela una cruda storia di pedofilia e di vendetta. Mirko Tondi con la sua scrittura magistrale e le sue competenze di psicologo, ci conduce nella mente disturbata di un ragazzo che miete vittime per il puro piacere di far soffrire gli altri, alla ricerca filosofica del Male Assoluto. Claudia Muscolino ci introduce nella complessità di un rapporto padre - figlio, paragonabile alla tragedia dell’opera verdiana “Don Carlos”. Stefano Rossi ci porta a Vallombrosa, dove lo chalet di famiglia diviene lo scenario orribile di morti violente causate dalla mente perversa di un giudice. Anch’io nel mio racconto, cerco di penetrare nella psiche del carnefice, esplorando le motivazioni profonde e i sentimenti perversi di possesso e gelosia che possono condurre ad azioni estreme a causa dell’abbandono.

La raccolta offre anche prospettive intriganti, spesso illuminate dalla sensibilità femminile o da approcci stilistici innovativi.

Cristina Gatti con il suo interesse per l’esoterismo, intreccia una storia di solidarietà femminile, che porterà alla giustizia. David Ladisa mi ha davvero sorpreso per lo stile raffinato, asciutto e curato del suo racconto in più capitoli, che come un romanzo di formazione ripercorre la fase evolutiva del personaggio coinvolto brutalmente in un sequestro intimidatorio. Nicoletta Manetti, con la sua peculiarità nello scrivere di personaggi femminili storici, ci narra un episodio della vita di Elisabeth Barrett Browning nella sua dimora fiorentina, dove lo spiritismo diviene l’occasione per svelare l’omicida della figlia di un’amica, annegata nella vasca delle ninfee. Maila Meini ci delizia invece con una storia d’amore e di vendetta ambientata negli anni Ottanta, dove riecheggia la musica della storica discoteca Tenax. Chiara Miryam Novelli, con il suo stile sincopato ed essenziale, ci regala un’ indagine articolata e complessa su un artista trovato a pezzi in un baule della sua dimora.

Infine, Nicola Ronchi curatore e al contempo scrittore, ancora una volta ci “delizia” con una storia  truce e sanguinosa popolata da personaggi complessi, ricca di emozione e suspense.

Concludendo, Florence Dark  Side è una lettura davvero piacevole, un vero e proprio tuffo nel cuore pulsante e in ombra di Firenze. Un libro imperdibile per chi ama il genere e desidera scoprire una Firenze misteriosa, narrata da voci tanto diverse ma in perfetta armonia.

“Florence Dark Side” ( ed. i libri di Mompracem 2025)

02 luglio 2025

UNA COSA DIVERTENTE CHE NON FARO’ MAI PIU’ di D.F.Wallace

 

«Una settimana di Assolutamente Niente»

David Foster Wallace è stato senza dubbio un grande Scrittore –  con S maiuscola – e, dopo aver letto le sue opere, non resta che il rammarico per la sua morte prematura e meditata, avvenuta nel 2008.

Una cosa divertente che non farò mai più è una di queste opere, nata come reportage commissionato dalla rivista Harper’s , che racconta una settimana ai Caraibi a bordo della nave da crociera extra lusso, Nadir.

Wallace, con la sua ironia sottile e il suo sguardo lucido, osserva e descrive minuziosamente la vita di crociera. Ne è solo un esempio l’intero capitolo dedicato alla descrizione della brochure, a sottolineare quanto il marketing contribuisca a costruire l’illusione di una felicità obbligatoria e standardizzata.

Un’esperienza, questa, che ho vissuto anch’io durante le poche ore trascorse sulla nave prima del naufragio: personale addestrato a offrirti una vacanza unica e indimenticabile, proprio come recitano gli slogan. E in effetti, la mia crociera è stata proprio indimenticabile … ma non voglio divagare. Torniamo al libro.

D.F.W. non si pone mai al di sopra del contesto in cui si trova, anzi, si lascia coinvolgere, quasi risucchiare nell’occhio del ciclone del divertimento forzato. Tuttavia mantiene costante il suo sguardo critico e indagatore. Non si ferma alla superficie ma cerca le connessioni profonde che svelano i meccanismi – spesso grotteschi – del comportamento umano. E lo fa con straordinaria precisione, rivelando ogni minima e impercettibile sfumatura.

Particolarmente significativa è la riflessione sul divertimento come strategia di allontanamento del pensiero della morte: «Una vacanza è una tregua dalle cose sgradevoli, e poiché la coscienza della morte e della decadenza è sgradevole, può sembrare strano che la più sfrenata fantasia americana in fatto di vacanze preveda che si venga schiaffati in mezzo a una gigantesca e primordiale macchina di morte e decadenza. Eppure, sulla crociera extra lusso7nc, veniamo coinvolti con abilità proprio nella costruzione di svariate fantasie di trionfo sulla morte e sulla decadenza».

Wallace mette in luce l’assurdità del divertimento obbligatorio, che finisce per diventare una vera e propria “fatica”, pari al lavoro.

Con la leggerezza dell’ironia e l’acutezza dell’autocritica D.F.W. si conferma uno scrittore geniale, un esploratore della psiche individuale e collettiva, capace di vizi e rare virtù, con una scrittura fluida, allegra e con uno stile unico, estremamente attuale e universale.

Quella rappresentata è, infatti, un’istantanea della società americana, ma può identificarsi anche per altre culture occidentali: la superficialità, il consumismo, l’abitudine alla gratificazione immediata del “tutto e subito”, senza consapevolezza. Wallace stesso si mette in gioco, riconoscendo tutto il suo disagio di sentirsi americano, come asserisce in questo passaggio: «Ho una nuova e spiacevole coscienza di essere americano, allo stesso modo in cui mi rendo conto di essere bianco ogni volta che sono attorniato da molte persone non bianche».

La scrittura di Wallace è magistrale, frutto anche della sua formazione – laureato in letteratura inglese, insegnante di scrittura creativa e profondo conoscitore della filosofia e matematica.

In questa cronaca grottesca e a tratti surreale di una vacanza da sogno, Wallace riesce a farci ridere, sorridere e… riflettere, perché dietro ogni battuta, dettaglio apparentemente insignificante , si cela la consapevolezza di un’assurdità più profonda, quella dell’uomo contemporaneo perso in necessità non reali, alla rincorsa di chimere che non lo porteranno alla felicità tanto desiderata.

Un’opera davvero divertente, ma che lascia l’amaro in bocca, come ogni verità ben raccontata.

“Una cosa divertente che non farò mai più” di D.F.Wallace ( Ed minimum fax 1997)

02 giugno 2025

Gisella Selden-Goth e sua figlia Trudy a Firenze Due vite in musica e danza

 

Una piccola perla racchiusa in un testo piccolo ma denso arricchisce la collana di Pontecorboli dedicata agli “ stranieri” che soggiornarono a Firenze nel secolo scorso.

L’autrice, Maria Dina Tozzi ci regala le affascinanti biografie di Gisella Selden- Goth e di sua figlia Trudy: due donne facoltose che seppero influenzare la vita sociale, culturale, intellettuale di Firenze nella prima metà del Novecento. Si tratta di nomi pressoché sconosciuti (lo ammetto, anch’io ne ignoravo l’esistenza e per questo ringrazio l’autrice) ma furono personaggi incisivi anche se marginali, nella creazione di un importante tessuto di relazioni sociali e artistiche dell’ epoca. Ma chi erano queste donne, di origine ebraica che si trasferirono a Firenze nel 1923?

Gisella , nata in Ungheria, pianista, compositrice e scrittrice, trovò nella città il clima accogliente e fecondo di cui aveva bisogno. Amica del musicista Ferruccio Busoni e di Arturo Toscanini, si adoperò con passione per la divulgazione della cultura musicale entrando in contatto con molti artisti e musicisti del suo tempo. La figlia, Trudy, nativa della Germania, danzatrice, tentò – purtroppo senza successo – di fondare una scuola di danza a Firenze.

Le due donne, protagoniste di una storia avvincente che si muove tra Firenze, l’Isola d’Elba, l’Europa e anche l’America (per sfuggire alle persecuzioni antisemite) finiranno per fare ritorno a Firenze, loro città di adozione.

L’autrice documenta con grande cura ogni passaggio e tappa importante delle loro vite, restituendoci non solo il loro profilo umano e artistico, ma anche l’atmosfera sociale e culturale che si respirava nella Firenze dell’epoca.

Un libro davvero interessante, che ripercorre – accanto alle vicende personali – la storia politica del tempo: la Guerra, il fascismo, le persecuzioni contro gli ebrei. Arricchito da preziose documentazioni fotografiche, è una lettura piacevolissima, scritta con cura, precisione e partecipazione. Un’opera pregevole che nonostante l’apparente esiguità del testo, rivela un accurato lavoro di ricerca, e che dà voce a due donne dimenticate, restituendo loro il posto che merita nella storia culturale di Firenze.

Gisella Selden-Goth e sua figlia Trudy a Firenze  Due vite in musica  danza” (Angelo   editore Pontecoboli Firenze 2025)  

20 maggio 2025

CONVALESCENZA di Han Kang

 

Ancora una volta Han Kang torna a esplorare i temi a lei più cari: la leggerezza e l’essenza dell’essere femminile, la sua incorporeità, la fatale attrazione verso il mondo vegetale e le sue leggi, fino alla completa assimilazione e dissoluzione dell’identità umana. Temi che affondano le radici nella sofferenza del vivere e che l’autrice sovverte attraverso una sorta di metamorfosi catartica.

Suddiviso in due racconti, il libro narra le vicende di due donne - ancora una volta figure femminili - all’apparenza fragili, ma determinate nel perseguire fino in fondo le proprie volontà.

Nel primo, il rapporto conflittuale tra la protagonista e la sorella malata di tumore, apre interrogativi insoluti nella vita della donna sopravvissuta.

Nel secondo, la protagonista è una donna infelice che rifiuta il cibo, in un graduale percorso di annientamento che la conduce verso una trasformazione radicale: diventare una pianta.

Un libro che ancora una volta stupisce, per l’intensità della sofferenza interiore, per la spietatezza e la volontà di scelte estreme, e il paradosso di trovare in esse, un senso di estasi e pace.

Una scrittura asciutta, tagliente, vera, che conferma ancora una volta l’autrice come un’esploratrice lucida e profonda dell’anima.

“Convalescenza” di Han Kang ( Adelphi 2019)

18 maggio 2025

COME D’ARIA di Ada D’Adamo

 

«Spesso la malattia separa, allontana, distrugge. Qualche volta invece genera, allaccia, moltiplica l’amore»

Un libro forte, toccante, bellissimo (e uso questo aggettivo di proposito, perché di bellezza si parla in questo lettura) che affronta temi scottanti come la malattia e la disabilità. Un memoir scritto in prima persona sotto forma di lettera aperta alla figlia Daria, nata con una malattia rara, la oloprosencefalia, una importante disabilità che non le permette alcuna indipendenza ed espressione comunicativa se non attraverso un sorriso o un lamento.

Daria è la figlia desiderata, la cui iniziale”D”si pone nel nome dell’autrice, tra Ada e Alfredo, anello di congiunzione simbolico e affettivo dei genitori. Daria è il frutto della propria fertilità, motivo di gioia ma anche di rabbia e sconforto perché è impossibile non farsi carico delle mancanze e sofferenze di chi è sangue del tuo sangue.

Ada riesce con un linguaggio chiaro ed essenziale, senza vittimismo o pietismo, a descrivere tutta la diversità del suo «altro mondo», un mondo scomodo, costruito sulla completa dedizione, fatto di sacrifici e rinunce che trovano un senso solo nella parola “amore”.  

Una storia di disabilità e di malattia incurabile, che porta a una consapevolezza profonda, in cui «col tempo si smette di accanirsi a cercare risposte, di affannarsi, di voler andare altrove. Non rassegnazione, piuttosto una forma di accettazione attiva: si smette di combattere “contro”. Si risparmiano energie e si pensa a combattere “per”.

Una storia che riapre la tanto discussa questione dell’aborto terapeutico, una scelta soprattutto femminile  che genera mille interrogativi spesso senza risposta «Sono forse per la morte io?[...] Di quale vita si parla? Della mia? Della tua?[...]Quante sofferenze ti aspettano? Chi può decidere se una vita vale la pena di essere vissuta?[... ]Solo il bisogno di rivendicare per tutte il diritto alla scelta, anche per quelle che avevano scelto diversamente».

Ma anche un atto di denuncia sociale contro un mondo a misura di persone sane, che spesso non favorisce la disabilità assegnandole un ruolo marginale. Per fortuna non sempre è così: esistono professionisti, «persone che non perdono tempo a rimpiangere quel che ti manca ma sfruttano quel poco che hai», istituzioni che cercano nonostante le barriere logistiche e culturali di andare oltre e offrire qualcosa di più.

Una storia di solitudine profonda perché «avere un figlio invalido significa essere soli. Irrimediabilmente, definitivamente soli. Indietro non si torna. Uguale a prima non sarà mai più».

Una storia di malattia, il tumore di Ada che irrompe all’improvviso, rompendo l’equilibrio complesso madre – figlia, aprendo un importante interrogativo sul futuro di Daria e di chi rimane.

Ecco emergere l’importanza delle Disposizioni Anticipate di Trattamento, strumento poco conosciuto, utile per pianificare e dare continuità e senso alla propria vita e a quella di chi rimarrà.

“Come d’aria” è soprattutto la storia di una donna – figlia, ballerina, scrittrice, moglie, madre, amica – che ha lottato per la vita fino alla fine (anche se non ha mai amato la parola “battaglia”) e nonostante sia morta a soli cinquantasette anni, ha vissuto una vita piena e degna di essere vissuta.

Una scrittura intensa, magistrale quasi poetica: parole e frasi che dalla logica arrivano dritte al cuore, come aghi sottili scuotendoci dalla stasi emotiva. Impossibile non addolorarsi con lei, non commuoversi alle sue strategie di sopravvivenza, non piangere ai suoi tentativi falliti di risalita. Impossibile restare in silenzio e non applaudire alla grande Donna che è stata: Ada D’Adamo, Ada, figlia del primo uomo.

Come d’aria di Ada D’Adamo (ed Elliot 2023)

02 maggio 2025

L’ANNIVERSARIO di Andrea Bajani

 


Una scrittura davvero potente, lucida e spietata, in cui lo scrittore affronta una tematica difficile come quella dei rapporti familiari e delle loro dinamiche, analizzandoli come alla lente di un microscopio, con minuzia e attenzione. Un romanzo originale dal punto di vista stilistico, ricco di sequenze riflessive – quelle che piacciono a me – che scavano, indagano nella psiche dei personaggi riconsegnandoceli nella loro complessità e interezza.

Narrato in prima persona dal protagonista- scrittore, la prima domanda che da lettrice mi sono fatta è: “Ma è autobiografico?” Anche se, in fondo, questo elemento non è così indispensabile. Ogni autore si prende il diritto di rappresentare ciò, quando, dove e come vuole: rendere una storia reale e vera anche quando non lo è. È questa la grande magia della scrittura.

Il tema fondamentale, già presente nell’incipit, è la separazione, il distacco improvviso (all’apparenza) di un figlio quarantenne che taglia i ponti con la famiglia d’origine. L’immagine sulla soglia di casa della madre che chiede: «Tornerai a trovarci?» con l’acuto presentimento che qualcosa si è rotto definitivamente è potente. Tutto il romanzo ruota attorno a questa rottura, fonte di paura se non terrore, sviscerata, demonizzata, sperata, con quell’uscita di scena semplice ma tanto sofferta.

Perché una separazione così innaturale? Che mostro nasconde questa famiglia piccolo- borghese, trasferitasi negli anni Settanta da Roma in un paese poco distante da Torino? Sono domande  che il lettore fin dalle prime pagine non può fare a meno di porsi.

L’autore ci risponde,  descrivendo, con giusta suspence e delicatezza, ciò che si nasconde a volte anche nella “migliore” famiglia: episodi di violenza domestica, quella poco rumorosa, capace però di provocare  danni profondi, a volte irreparabili.

Andrea Bajani affronta questa tematica – purtroppo così attuale  – senza spettacolarismi né vittimismi ma rappresentando in modo oggettivo i fatti, illustrandoli nella loro concretezza, approfondendone i meccanismi, cercando motivazioni  e possibili vie di uscita.

Ne emerge un quadro estremamente realistico in cui si toccano questioni basilari come l’emancipazione femminile, il potere del patriarcato e la gabbia emotiva in cui alcune persone restano imprigionate e compromesse forse, per troppa sensibilità.

Nel romanzo ha un ruolo di spessore la madre, analizzata, scomposta in tanti frammenti con uno studio accurato ma distaccato, quasi fosse un’estranea. Emerge una donna eterea, priva di sostanza, che come un fantasma si muove ai margini dell’ambiente familiare, all’ombra del marito, sempre un passo dietro. Un’esistenza invisibile,  senza una propria identità, vissuta in funzione degli altri: moglie, madre, figlia e mai donna, se non in sporadici tentativi subiti repressi.

A seguire il padre: luce accecante che mette in ombra tutto il resto, una figura pesante, autoritaria, ingombrante.

Infine la sorella, che sceglie l’assenza e il rimprovero al fratello sulla sua presa di posizione nei confronti  del padre.

Tocca al protagonista assumersi tutto il fardello di incomprensione familiare, dall’esterno, quasi non facesse parte della stessa istituzione, per acquisire consapevolezza,  serenità e fare finalmente pace con sé stesso.

Ma chi è davvero il vincitore, se di vincita o sconfitta si può parlare? Chi rivendica il proprio diritto con la violenza o chi invece lo fa col silenzio e la remissione? Chi aspira a qualcosa di più o chi si accontenta? Chi resta o chi se ne va? Quale anniversario c’è da festeggiare, in un simile contesto?

Lo scoprirete voi, lettori, se leggerete questo meraviglioso romanzo, una lettura impegnativa per struttura e tematica, una sintassi  originale, costruita su periodi articolati ma efficaci. Un libro destinato a coloro che amano l’introspezione nella narrativa, meritevole della candidatura al Premio Strega.

L’anniversario” di Andrea Bajani ( ed Feltrinelli 2025)

27 aprile 2025

I MIEI GIORNI ALLA LIBRERIA MORISAKI di Satoshi Yagisawa

 

Una lettura facile, scorrevole, coinvolgente soprattutto per chi come me ama i libri: il loro profumo, la sonorità delle parole, il mistero del messaggio che custodiscono come un tesoro.

La trama è semplice, articolata in due atti, scritta in prima persona. Protagonista Takako, una ragazza che dopo una delusione amorosa, si licenzia e si stabilisce dallo zio Satoru, a Jinbōchō, il quartiere delle librerie di Tokyō.

Qui, occupandosi della libreria di famiglia in assenza dello zio, scoprirà una nuova passione: l’amore per i libri, ritrovando la strada per riprendere in mano la sua vita.

Alla sua storia si intreccia quella di Satoru e della moglie Momoko, scomparsa cinque anni prima, senza spiegazioni. Su esortazione dello zio, Takako indagherà sulle motivazioni di quella fuga, impegnandosi a ricucire quel legame spezzato.

Un romanzo delicato, stimolante per i riferimenti ad autori giapponesi (in gran parte sconosciuti), ma che manca a mio avviso di maggiore approfondimento e introspezione dei personaggi, elemento per me imprescindibile, affinchè un libro possa meritare un posto d’onore nella mia libreria.

Un  libro  scritto bene, piacevole, ricco di atmosfere suggestive, un successo editoriale in Giappone e non solo, dal quale è stato tratto anche un film. Non leggerò il sequel -  e  questo, forse, dice già tutto.

“I miei giorni alla libreria Morisaki”  di Satoshi Yagisawa

12 aprile 2025

LE CATILINARIE di Amélie Nothomb

 

Terza lettura della Nothomb, e ancora non mi ha stancato, grazie alla sua scrittura sottile, pungente, ironica, insomma una garanzia che continuerò a esplorare.

Ancora una volta l’autrice ci sorprende col titolo. Leggo su Treccani a proposito del significato di catilinaria: “Violenta e acerba invettiva scritta o pronunciata contro qualcuno” in riferimento alle quattro orazioni di Cicerone contro Catilina. E proprio di attacchi verbali e molto di più si parla in questo breve ma intenso romanzo della scrittrice.

Due coniugi anziani, Émile professore di latino in pensione e Juliette, decidono di trascorrere gli ultimi anni di vita in campagna in una casetta isolata dal resto del mondo, definita da loro stessi la Casa, con la maiuscola. Solo un’altra abitazione al di là del fiume, dove vivono un medico e la moglie. Poco disturbo, anzi, considerando i vantaggi nel caso di un bisogno terapeutico.

I due cominciano il loro idilliaco soggiorno nella nuova dimora, felici come non mai, per la pace e la serenità conquistate. Ma la quiete presto sarà turbata dal medico, Palamède Bernardine, sorprendentemente obeso e taciturno, che ogni pomeriggio alle 16, senza spiegazione alcuna, fa irruzione nella loro Casa, piazzandosi sulla poltrona del soggiorno, accettando la cortesia di una tazza di tè, fino alle 19 in punto. Non c’è fine al peggio, momento in cui entrerà in scena anche la signora Bernardine, anch’essa obesa e con qualche problema in più.

Ma chi è questo vicino così ingombrante e anomalo per essere un medico e quali ragioni regolano il suo assurdo comportamento? Non ci aiuta certo a capirlo il dialogo che Émile tenta di instaurare con lui, le cui risposte categoriche, sì e no, fomentano ancor di più l’angoscia e le perplessità del povero Émile. In questa spietata invasione, il protagonista si interroga, analizza i suoi e i comportamenti altrui, facendo insolite scoperte.

Scritto in prima persona dal punto di vista di Émile, il racconto procede con ritmo e tensione, coinvolgendo e mantenendo viva e costante l’attenzione del lettore.

Un libro ironico, tipico della scrittrice, che non si limita a narrare e rappresentare i fatti ma che scava nella psiche dei suoi personaggi restituendoceli poliedrici, reali, profondamente umani nella loro complessità. Una storia davvero intrigante che ci tiene sospesi fino alla fine, nonostante la semplicità della trama, e che ci conferma ancora una volta la capacità narrativa e stilistica della scrittrice.

Consigliato a chi ama la letteratura che gioca con il non detto e trasforma l’ordinario in inquietante.

Le Catilinariedi Amélie Nothomb ( ed. Guanda 1995)         

25 marzo 2025

BETTY di George Simenon

 

Parigi. Una giovane donna seduta è al bancone di un bar, beve whisky. Sono giorni che vaga senza meta, distante da tutto e da tutti, non si sente triste, «da un pezzo aveva superato la tristezza». Il suo unico interesse è riempire il bicchiere davanti a sé e svuotarlo fino a non reggersi più in piedi. Betty, il suo nome, lo rivelerà a una frequentatrice del bar, Laure, che si prende cura di lei, accogliendola nel suo albergo e offrendole rifugio, cibo, riposo.

Ma chi è questa bella ragazza all’orlo del baratro, che sembra fuggire da qualcosa e qualcuno, capace di trovare conforto solo nell’alcool?

Ce lo svela lo scrittore con la sua brillante maestria, mantenendoci in sospeso, svelandocelo un po’ per volta, attraverso frasi e dettagli buttati qua e là nella conversazione confidenziale che si va instaurando tra le due donne. Una matassa di informazioni che in prima lettura non è facile sbrogliare, ma che lentamente prendono forma delineando la storia. Una storia femminile in cui l’autore scava nella psiche del personaggio, rivelandocelo in tutta la sua apparente fragilità, ma ricco di una grande determinazione e forza interiore.

È un libro al femminile, in cui l’attenzione è focalizzata sulla sua figura, sui suoi desideri, convinzioni e contraddizioni, su ciò che sogna al di là di ciò che gli altri si aspettano da lei. Un’eroina, una “Karenina” francese, contemporanea, che sfida le convenzioni inseguendo il suo istinto e le sue pulsioni al di là delle conseguenze.

Anche la maternità non è vista come un dovere sacro e e assoluto: Betty non la antepone a sè stessa, confessandolo apertamente a Laure: «Dando la vita a un altro essere umano, avrei pagato in un modo o nell’altro, con la sofferenza o con la mia stessa vita, oppure restando invalida per il resto dei miei giorni». Un pensiero che si riflette inevitabilmente sul rapporto coniugale, sulle dinamiche di coppia che cambiano con l'arrivo dei figli, svelando il peso delle aspettative sociali e il fragile equilibrio tra desiderio e responsabilità.

Ancora una volta Simenon ci regala un romanzo intenso e penetrante, capace di scandagliare le ombre dell'animo umano con il suo stile essenziale e affilato. Sullo sfondo, una Parigi notturna e sregolata prende vita con la sua malinconica bellezza, popolata da personaggi inquieti in cerca di redenzione che forse non arriverà mai.

 

 “Betty” di George Simenon (ed.Gli Adelphi 1992)              

16 marzo 2025

STUPORE E TREMORI di Amélie Nothomb

 

“Finché esisteranno le finestre, l’essere umano più umile della terra avrà la sua parte di libertà”

Stupore e tremore nell’antico protocollo imperiale nipponico, era il giusto atteggiamento con cui i sudditi si dovevano rivolgere all’Imperatore. La stessa postura è quella che assume la protagonista del romanzo, la stessa Amélie Nothomb, trattandosi di un racconto autobiografico.

La venticinquenne Amélie, di origine belga ma nata a Kōbe, viene assunta a contratto per un anno, in una grande azienda giapponese Yumimoto. Qui conoscerà la rigida piramide gerarchica, ne scoprirà le regole comprenderà il suo posto e i meccanismi del sistema giapponese. Attraverso una attenta e scrupolosa osservazione, intuirà chi si nasconde dietro il prestigio dei suoi superiori, ne scoprirà la forza e la debolezza, la cattiveria e la bontà, la bassezza e la magnanimità.

Nel suo lento e ostacolante inserimento, subirà continue retrocessioni, ma solo all’apparenza: «Il colmo del sadismo del sistema sta nella sua contraddizione: rispettarlo porta a non rispettarlo». Amélie, asseconda i suoi persecutori, accetta le loro assurde richieste, i loro capricci, la loro convinzione che sia un’incapace, addirittura stupida. Viene umiliata per la sua occidentalità, esclusa, isolata. Anche la stessa Fabuki, suo capo diretto, invece di sostenerla (anche per solidarietà femminile) coglie invece ogni pretesto per denigrarla, deriderla e sottometterla. Solo pochi impiegati negli uffici collaterali riconoscono il valore di Amélie, e tentano di farla crescere, finendo a loro volta puniti dai superiori che continueranno nella loro battaglia oltraggiosa in modi sempre più spietati.

Amélie incassa i colpi, trovando un modo tutto suo di reagire, esaltandosi per ogni angheria subita, trovando il lato positivo in ogni cosa. Come quando si affaccia alle bellissime ed enormi vetrate del quarantaquattresimo piano, dominando tutta la città e immaginandosi in volo da quella’altezza vertiginosa. Quante defenestrazioni in quell’anno di lavoro!

Amélie affronta ogni compito con sarcasmo e ironia , anche quelli più assurdi e inutili, fino all’ultimo, il più degradante. Ma ancora una volta riuscirà a non soccombere, preparandosi alla rivincita.

In tutto il libro pervade un sottile sarcasmo. Nonostante le ingiustizie che fanno stringere i pugni al lettore, è impossibile non sorridere davanti ai geniali espedienti di sopravvivenza della protagonista.

Non mancano colpi di scena a pareggiare e riportare in equilibrio questo sistema perverso. Se volessimo trovare un esempio di resilienza, questo racconto potrebbe esserne la metafora perfetta.

Il libro offre un vivido spaccato della realtà giapponese degli anni Ottanta, esplorando la mentalità nipponica, il loro rigore, la condizione della donna in un mondo maschile che la vuole repressa, bella, parsimoniosa, madre e sempre disposta al sacrificio, anche se la riconosce intelligente. Tra i pochi diritti femminili «In Giappone il suicidio è un atto molto onorevole» ricorda la protagonista, alias Nothomb e rivolgendosi alle donne: «Se può consolarti, nessuno ti considera meno intelligente di un uomo. Sei brillante, la cosa è sotto gli occhi di tutti, anche di quelli che ti trattano tanto bassamente. A pensarci bene, però, è davvero una consolazione? Almeno se ti ritenessero inferiore, il tuo inferno avrebbe una spiegazione… ». Mentre per l’uomo: «il nipponico maschio, lui non è represso… possiede uno dei diritti umani fondamentali: quello di sognare, di sperare».

Ancora una volta Amélie Nothomb non mi ha delusa, anzi, in questo romanzo ho scoperto una scrittura ancor più originale, ironica, pungente rispetto all’ultima lettura Cosmetica del nemico.  

Continuerò a seguirla, con stupore e tremore, perché no?.

“Stupore e tremori” di Amélie Nothomb ( ed.Guanda 2000)

11 marzo 2025

I QUADERNI BOTANICI di MADAME LUCIE di Mélissa Da Cost

 

 


“Ho bisogno di tempo… ho bisogno di libertà. Solo un foglio bianco che mi ricordi il mio obiettivo, la ragione che mi spinge a fare un passo avanti”

Amande ha trent’anni, un marito che ama, una figlia in arrivo, progetti grandiosi per il futuro. Ma un incidente le strappa via il suo Benjamin, e con lui la piccola Manon nata prematura e incapace di sopravvivere. Sconvolta dal dolore Amande si rifugia in campagna  (quella che insieme a Benjamin aveva immaginato di abitare insieme), e sceglie la solitudine. Si allontana dal lavoro e dal mondo cercando conforto nel silenzio e nel tempo.

Ma la vita, con la sua forza inarrestabile, la spinge lentamente a riemergere. Attraverso il susseguirsi delle stagioni e l’osservazione della natura che la circonda, Amande trova piccoli appigli per riscoprire il senso delle giornate. Scopre i vecchi appunti della precedente proprietaria, Madame Lucie, che annotava su quaderni e calendari le attività dell’orto, consigli gastronomici e pensieri quotidiani. Quei semplici gesti, ripetuti nel tempo, diventano per Amande una guida, un invito a ricominciare. A darle ulteriore conforto è l’arrivo di un gatto che la sceglie come compagna, dimostrandole che, anche nella solitudine, si può essere in connessione con il mondo.

In questa nuova dimensione, Amande imparerà il valore dell’amicizia, della famiglia – persino di una madre che ha sempre sentito distante – e di una spiritualità che non si limita ai confini di una chiesa, ma si esprime nell’armonia con la natura. Il suo percorso di elaborazione del lutto si snoda attraverso quattro fasi che lei stessa annota sul calendario: Lascia entrare - Celebra - Condividi - Lascia andare Prima accoglie il dolore nella sua totalità, poi permette a un raggio di luce di filtrare nelle tenebre. Celebra la vita nelle sue piccole sorprese quotidiane – il cielo azzurro, un nido di pettirossi, un gatto affettuoso – fino a sentire il desiderio di condividere il proprio mondo con gli altri. Infine, comprende che non può restare ancorata alla sofferenza: per guarire, deve lasciare andare e aprirsi a nuove esperienze, senza dimenticare il punto di partenza.

Lo stile di Mélissa Da Costa è semplice e lineare, senza virtuosismi, ma capace di affrontare con delicatezza temi profondi come la perdita e la rinascita. Questo romanzo ci ricorda come la natura possa avere un potere salvifico e come il legame con chi ci ama possa aiutarci a ritrovare la strada.

 

 

 I quaderni botanici di Madame Lucie” di Mélissa da Costa

06 marzo 2025

IL BALLO DELLE PAZZE di Victoria Mas

 

Parigi 1855. Il manicomio di Salpêtrière è un’ istituzione storica: nato come fabbrica di polvere da sparo, divenne poi ricovero per vagabondi, emarginati, donne reiette. Qui vengono recluse le alienate, isteriche, prostitute, ribelli che non si conformano alle regole imposte dalla società. Come la protagonista del romanzo, Eugénie, ragazza di famiglia borghese, internata dal padre perché diversa, in quanto percepisce una realtà invisibile agli altri: vede gli spiriti e parla con loro.

Salpêtrière le accoglie tutte, come in una grande famiglia, oggetto di curiosità e di studio del grande luminare Charcot e del suo seguito di medici e studenti, che sperimentano su di loro il valore terapeutico della ipnosi. A vegliare su di loro, Geneviève, la sopraintendente, nubile dedita al lavoro con passione e abnegazione, che rispetta la scienza sopra ogni cosa, convinta che solo il metodo razionale possa dare ordine al caos. Cresciuta professionalmente all’interno del manicomio, vive in un appartamento poco distante dall’ospedale, concentrando tutta la sua esistenza in quel raggio di chilometri, salvo visite saltuarie al padre, medico in pensione, dal quale ha appreso tutto l’amore per lo studio e la scienza. Ma l’incontro con Eugénie cambierà il suo modo di vedere il mondo, incrinando le sue certezze e mettendo in discussione tutto ciò in cui ha creduto finora.

Il ballo delle pazze, da cui il titolo, è l’evento dell’anno, una serata in cui tutte le pazienti vengono esibite davanti alla società, un’occasione per mostrare il progresso della medicina e ostentare il potere maschile sull’essere femminile, ritenuto fragile, inferiore, da controllare. Un potere che nonostante i secoli trascorsi continua a lasciare tracce profonde nella nostra società. La cronaca ce lo ricorda ogni giorno, purtroppo.

Nel mondo chiuso e opprimente della Salpêtrière si intrecciano dolore, solidarietà, speranza. È impossibile restare indifferenti di fronte alle loro storie.

Un libro che scuote le certezze e rafforza il dubbio, motore della crescita e del cambiamento. Una lettura che fa indignare, commuovere e che ci rende consapevoli che il passato non è poi così lontano.

Lo stile è scorrevole e diretto, con una narrazione che ha il ritmo di una sceneggiatura, non a caso ne è stato tratto un film diretto da Mélanie Laurent. Grazie alla solida documentazione storica, il libro offre uno spaccato vivido di un'epoca in cui scienza e il patriarcato si intrecciavano in modo inquietante.

Una lettura che lascia il segno, perché costringe a chiederci: quanto siamo davvero cambiati?

“Il ballo delle pazze” di Victoria Mas (ed e/o 2019)

28 febbraio 2025

LA LINEA VERTICALE di Mattia Torre

 

LA LINEA VERTICALE di Mattia Torre

Peccato aver visto prima la fiction, sebbene sia un’ottima e fedele trasposizione del libro.

Luigi, giovane quarantenne, felicemente sposato, con una figlia e un altro in arrivo, a seguito di una visita urologica per un episodio di ematuria e successivi accertamenti, riceve una diagnosi di tumore al rene.

Occorre operare. Subito. La malattia all’improvviso cambia le carte del gioco. «Il cielo si spacca e tutto si capovolge […] si capovolge lo studio che perde contorni e pareti, si ribaltano nozioni, concetti, pensieri e ricordi, tutto cade all’indietro […] tutto è via, ci sono Luigi e la malattia in un immenso spazio bianco».

C’è un mondo di professionisti che si muove intorno a Luigi, e l’autore ce lo descrive molto bene, attraverso il punto di vista di Luigi dal suo letto numero 205. Interessante e intelligente l’emergere l’unicità dei personaggi che va oltre il ruolo e la professionalità, conferendo quindi alla narrazione un tocco leggero, divertente e ironico, che si affianca alla drammaticità del contesto.

Ecco allora, la caposala, eccessiva nei modi e nel linguaggio, ma che sa il fatto suo; Giusy l’infermiera avvenente, ciociara sguaiata ma efficace; Anna, l’infermiera “quella brava”; Gorislav, infermiere russo, ginecologo ma la cui laurea non è riconosciuta in Italia; il dottor Policari , che ama più la musica della medicina; il dottor Barbieri sempre dietro alle sottane in particolare quella della Giusy; la dottoressa Borghi sempre ben disponibile verso i pazienti; il dottor Rapisarda, che mantiene Luigi digiuno di cibo e acqua per una Tac quando non sarebbe stato necessario; la dottoressa Minà, l’anatomopatologa col triste compito di comunicare spesso brutte notizie; l’oncologo Aliprandi, con la Morte al suo seguito, con mantello nero e falce sempre pronti; e poi c’è Zamagna, il dio, amato da tutti incondizionatamente, l’essere perfetto, il luminare, il chirurgo medico che ogni paziente vorrebbe: ama il suo lavoro e lo fa con passione e dedizione, eccellente in tutto, sa relazionarsi, sa parlare e ascoltare, accogliere, è empatico.

Accanto il mondo dei pazienti, che l’autore divide in categorie umane «il paziente cupo, l’ottimista, l’ipocondriaco e il peggiore il competente delirante… accomunati da una cosa: l’intima e profonda dipendenza dai medici». C’è Amed, vicino di letto, somalo borghese col quale Luigi si relaziona; Beppe, operato d’urgenza, recidivo del reparto, che nessuno ricorda; Marcello, che trascorre il suo tempo imitando i medici, facendo diagnosi, dispensando consigli e commentando il decorso delle loro patologie; c’è Pino il vecchio, Sabino, Costa il cappellano che si ritrova all’improvviso dall’altra parte della barricata, operato anche lui d’urgenza per una massa sospetta, che lo metterà in crisi profonda, facendo vacillare ogni certezza e la stessa fede.

Protagonista è anche l’ospedale « istituzione totale, un luogo in cui gruppi di persone risiedono e convivono per un certo periodo di tempo… la vita è organizzata secondo regole precise: qualcun altro decide a che ora ti svegli, cosa mangi, come ti vesti e quando esci. Ma a differenza di un carcere o di un manicomio, in ospedale ti identifichi con le intenzioni e le finalità della struttura, perché hai scelto di starci». Anche se si tratta di una scelta obbligata, aggiungo io.

L’ospedale è come un teatro, e le azioni routinarie che vengono compiute, si esprimono spesso in tutta la loro teatralità. Come il giro visite, per esempio «È un rito che si ripete identico, giorno dopo giorno. Il medico sa di avere a disposizione pochi secondi per rispondere. Non deve dare vita a una conversazione: la deve chiudere». Da ciò tutta la frustrazione e confusione nell’animo del paziente che rimane con gli stessi e peggiori dubbi perché non ha avuto modo di spiegarsi, di intendersi.

Le frasi fatte, “facciamo un passo alla volta”, “dipende tutto dai vasi”, “è tutta questione di testa”, recitate e ripetute come un copione, che si ripete ogni giorno, sono il mantra che regola le leggi dell’ospedale, e sulle quali non si replica. Fra le altre regole non scritte c’è anche quella che « ti devi alzare dal letto, prima possibile per non lasciarti andare, per dare un segnale al tuo organismo». Quanta verità dietro queste frasi, chi è stato ricoverato almeno una volta in ospedale non può fare a meno di sorridere a queste raccomandazioni.

In ospedale si crea solidarietà tra i pazienti, perché la condizione e condivisione della malattia è un bel collante che unisce, dando «una forza incredibile». L’ospedale livella le persone, le assottiglia all’essenza, che è poi l’espressione della loro volontà e desiderio di vivere: «i pazienti sono tutti uguali. Non c’è classe sociale, età, reddito formazione culturale, orientamento politico o religioso che faccia la differenza. I pazienti cercano solo una cosa: la salvezza».

In ospedale si è soli. Nonostante le visite dei parenti, amici, conoscenti, che nonostante gli sforzi non riusciranno mai a capirti veramente. La solitudine è una compagna costante, con la quale parlare della malattia, del proprio destino, di quanto sei stato sfortunato.

La rabbia, è un altro sentimento sempre presente, che si confonde e scontra con la frustrazione delle figure professionali che lavorano in ospedale e che sfogano tutto il risentimento su coloro che non sono la causa. L’insoddisfazione alla base di tutto, economica, motivazionale, legata alla stanchezza per un lavoro usurante, che condiziona e impatta sul paziente costretto a stare in ospedale. La rabbia, dice l’autore, viene «scaricata sempre verticalmente, verso il basso, e mai orizzontalmente o verso l’alto».

La verticalità è una tematica ricorrente nel libro: verticale è lo sfogo della rabbia, dall’alto al basso; verticale è la linea del test di gravidanza di Elena la moglie, fatto mesi prima a testimoniare il nuovo figlio in arrivo; è ciò che Amed dice a Luigi in una delle tante conversazioni: «Devi vivere in asse, centrato, come su una linea verticale, occorre essere centrati, devi stare in piedi, centrato, verticale […] Orizzontale sei morto. Verticale sei vivo».

Momento culminante del romanzo è la conoscenza e la consapevolezza della propria malattia: sapere o decidere di non sapere, conoscere tutto diagnosi, prognosi, aspettativa di vita o no? Oggi c’è una legge che dice che è il paziente a decidere, è lui al centro della cura, e in quanto tale, può decidere o meno di essere informato. Bellissimo e cruciale il passaggio in cui i due coniugi si parlano e Luigi chiede alla moglie: «C’è qualcosa che tu sai che io non so?». E lei giustamente gli risponde con un ulteriore interrogativo : «Tu vuoi sapere tutto?». Momenti di narrativa davvero intensi e commoventi.

Suddiviso in capitoli, in giornate, come una sorta di diario, che scandiscono il tempo che non è più tempo - perché in ospedale anche questo cambia connotazione.

 

Palese il messaggio chiave del libro, ovvero trasformare un’esperienza negativa come la malattia, in un valore aggiunto, un’opportunità di miglioramento e crescita, espresso in maniera esaustiva nel finale: «La malattia è arrivata in maniera esplosiva e deflagrante, ha cambiato tutto, e anche se difficile dirlo, ha cambiato tutto in meglio […]quando ho saputo di avere un tumore sono morto all’istante. E poi, da quel momento, ogni minuto trascorso, ogni ora, giorno, mese, è stato sorprendente e inaspettato. È stato un dono, come un morto a cui si dice: puoi vivere ancora, non si sa quanto, ma puoi vivere ancora. Basta fare un passo alla volta».

Una scrittura diretta che procede per immagini, come una scenografia appunto da molteplici punta di vista anche se lo sguardo principale è quello di Luigi.

La linea verticale non è solo un romanzo sulla malattia, ma una straordinaria riflessione sulla fragilità umana e sulla capacità di trovare senso anche nei momenti più bui. Con un stile asciutto ma potente, Mattia Torre riesce a farci ridere, sorridere, emozionare, e riflettere, ricordandoci che ogni giorno , anche il più difficile, è un dono. Non c’è certezza, non c’è garanzia ma c’è la possibilità di restare in piedi, di resistere. Perché vivere è questo. Rimanere su una linea verticale, centrati, vivi.

 “La linea verticale” di Mattia Torre ( ed. Baldini & Castoldi 2017)