LA LINEA VERTICALE di
Mattia Torre
Peccato aver visto prima la fiction, sebbene sia un’ottima e
fedele trasposizione del libro.
Luigi, giovane
quarantenne, felicemente sposato, con una figlia e un altro in arrivo, a
seguito di una visita urologica per un episodio di ematuria e successivi
accertamenti, riceve una diagnosi di tumore al rene.
Occorre operare. Subito. La malattia all’improvviso cambia le carte del gioco. «Il cielo si spacca e tutto si capovolge […]
si capovolge lo studio che perde contorni e pareti, si ribaltano
nozioni, concetti, pensieri e ricordi, tutto cade all’indietro […]
tutto è via, ci sono Luigi e la malattia in un immenso spazio bianco».
C’è un mondo di professionisti che si muove intorno a Luigi,
e l’autore ce lo descrive molto bene, attraverso il punto di vista di Luigi dal
suo letto numero 205. Interessante e intelligente l’emergere l’unicità dei personaggi che va oltre il
ruolo e la professionalità, conferendo quindi alla narrazione un tocco leggero,
divertente e ironico, che si affianca alla drammaticità del contesto.
Ecco allora, la caposala,
eccessiva nei modi e nel linguaggio, ma che sa il fatto suo; Giusy l’infermiera
avvenente, ciociara sguaiata ma efficace; Anna, l’infermiera “quella brava”;
Gorislav, infermiere russo, ginecologo ma la cui laurea non è riconosciuta in
Italia; il dottor Policari , che ama più la musica della medicina; il dottor
Barbieri sempre dietro alle sottane in particolare quella della Giusy; la
dottoressa Borghi sempre ben disponibile verso i pazienti; il dottor Rapisarda,
che mantiene Luigi digiuno di cibo e acqua per una Tac quando non sarebbe stato
necessario; la dottoressa Minà, l’anatomopatologa col triste compito di
comunicare spesso brutte notizie; l’oncologo Aliprandi, con la Morte al suo
seguito, con mantello nero e falce sempre pronti; e poi c’è Zamagna, il dio,
amato da tutti incondizionatamente, l’essere perfetto, il luminare, il chirurgo
medico che ogni paziente vorrebbe: ama il suo lavoro e lo fa con passione e
dedizione, eccellente in tutto, sa relazionarsi, sa parlare e ascoltare,
accogliere, è empatico.
Accanto il mondo dei pazienti,
che l’autore divide in categorie umane «il
paziente cupo, l’ottimista, l’ipocondriaco e il peggiore il competente
delirante… accomunati da una cosa: l’intima e profonda dipendenza dai medici». C’è Amed, vicino di letto, somalo borghese col quale Luigi si
relaziona; Beppe, operato d’urgenza, recidivo del reparto, che nessuno ricorda;
Marcello, che trascorre il suo tempo imitando i medici, facendo diagnosi, dispensando
consigli e commentando il decorso delle loro patologie; c’è Pino il vecchio,
Sabino, Costa il cappellano che si ritrova all’improvviso dall’altra parte
della barricata, operato anche lui d’urgenza per una massa sospetta, che lo
metterà in crisi profonda, facendo vacillare ogni certezza e la stessa fede.
Protagonista è anche l’ospedale
« istituzione totale, un luogo in cui gruppi
di persone risiedono e convivono per un certo periodo di tempo… la vita è
organizzata secondo regole precise: qualcun altro decide a che ora ti svegli,
cosa mangi, come ti vesti e quando esci. Ma a differenza di un carcere o di un
manicomio, in ospedale ti identifichi con le intenzioni e le finalità della
struttura, perché hai scelto di starci».
Anche se si tratta di una scelta obbligata, aggiungo io.
L’ospedale è come un teatro, e le azioni routinarie che
vengono compiute, si esprimono spesso in tutta la loro teatralità. Come il giro
visite, per esempio «È un rito che si
ripete identico, giorno dopo giorno. Il medico sa di avere a disposizione pochi
secondi per rispondere. Non deve dare vita a una conversazione: la deve
chiudere». Da ciò tutta la
frustrazione e confusione nell’animo del paziente che rimane con gli stessi e
peggiori dubbi perché non ha avuto modo di spiegarsi, di intendersi.
Le frasi fatte, “facciamo
un passo alla volta”, “dipende tutto
dai vasi”, “è tutta questione di
testa”, recitate e ripetute come un copione, che si ripete ogni giorno,
sono il mantra che regola le leggi dell’ospedale, e sulle quali non si replica.
Fra le altre regole non scritte c’è anche quella che « ti devi alzare dal letto, prima possibile per non lasciarti andare,
per dare un segnale al tuo organismo».
Quanta verità dietro queste frasi, chi è stato ricoverato almeno una volta in
ospedale non può fare a meno di sorridere a queste raccomandazioni.
In ospedale si crea solidarietà
tra i pazienti, perché la condizione e condivisione della malattia è un bel
collante che unisce, dando «una
forza incredibile».
L’ospedale livella le persone, le assottiglia all’essenza, che è poi
l’espressione della loro volontà e desiderio di vivere: «i pazienti sono tutti uguali. Non c’è classe sociale, età, reddito
formazione culturale, orientamento politico o religioso che faccia la
differenza. I pazienti cercano solo una cosa: la salvezza».
In ospedale si è soli. Nonostante le visite dei parenti, amici,
conoscenti, che nonostante gli sforzi non riusciranno mai a capirti veramente. La
solitudine è una compagna costante, con
la quale parlare della malattia, del proprio destino, di quanto sei stato
sfortunato.
La rabbia, è un altro sentimento sempre presente,
che si confonde e scontra con la frustrazione delle figure professionali che
lavorano in ospedale e che sfogano tutto il risentimento su coloro che non sono
la causa. L’insoddisfazione alla base di tutto, economica, motivazionale,
legata alla stanchezza per un lavoro usurante, che condiziona e impatta sul
paziente costretto a stare in ospedale. La rabbia, dice l’autore, viene «scaricata sempre verticalmente, verso il
basso, e mai orizzontalmente o verso l’alto».
La verticalità è una tematica ricorrente nel libro: verticale è lo
sfogo della rabbia, dall’alto al basso; verticale è la linea del test di
gravidanza di Elena la moglie, fatto mesi prima a testimoniare il nuovo figlio
in arrivo; è ciò che Amed dice a Luigi in una delle tante conversazioni: «Devi vivere in asse, centrato, come su una
linea verticale, occorre essere centrati, devi stare in piedi, centrato,
verticale […] Orizzontale sei morto. Verticale sei vivo».
Momento culminante del romanzo è
la conoscenza e la consapevolezza della propria malattia: sapere o decidere di
non sapere, conoscere tutto diagnosi, prognosi, aspettativa di vita o no? Oggi c’è
una legge che dice che è il paziente a decidere, è lui al centro della cura, e
in quanto tale, può decidere o meno di essere informato. Bellissimo e cruciale
il passaggio in cui i due coniugi si parlano e Luigi chiede alla moglie: «C’è qualcosa che tu sai che io non so?». E lei giustamente gli risponde
con un ulteriore interrogativo : «Tu
vuoi sapere tutto?». Momenti
di narrativa davvero intensi e commoventi.
Suddiviso in capitoli, in giornate, come una sorta di diario,
che scandiscono il tempo che non è più tempo - perché in ospedale anche questo
cambia connotazione.
Palese il messaggio chiave del
libro, ovvero trasformare un’esperienza negativa come la malattia, in un valore
aggiunto, un’opportunità di miglioramento e crescita, espresso in maniera
esaustiva nel finale: «La malattia è
arrivata in maniera esplosiva e deflagrante, ha cambiato tutto, e anche se
difficile dirlo, ha cambiato tutto in meglio […]quando ho saputo di avere un tumore sono
morto all’istante. E poi, da quel momento, ogni minuto trascorso, ogni ora, giorno,
mese, è stato sorprendente e inaspettato. È stato un dono, come un morto a cui
si dice: puoi vivere ancora, non si sa quanto, ma puoi vivere ancora. Basta
fare un passo alla volta».
Una scrittura diretta che procede per
immagini, come una scenografia appunto da molteplici punta di vista anche se lo
sguardo principale è quello di Luigi.
La linea verticale non è solo un romanzo sulla malattia, ma
una straordinaria riflessione sulla fragilità
umana e sulla capacità di trovare
senso anche nei momenti più bui. Con un stile asciutto ma potente, Mattia
Torre riesce a farci ridere, sorridere, emozionare, e riflettere, ricordandoci
che ogni giorno , anche il più difficile, è un dono. Non c’è certezza, non c’è
garanzia ma c’è la possibilità di restare in piedi, di resistere. Perché vivere
è questo. Rimanere su una linea verticale, centrati, vivi.
“La linea verticale” di Mattia Torre ( ed. Baldini & Castoldi
2017)