28 febbraio 2025

LA LINEA VERTICALE di Mattia Torre

 

LA LINEA VERTICALE di Mattia Torre

Peccato aver visto prima la fiction, sebbene sia un’ottima e fedele trasposizione del libro.

Luigi, giovane quarantenne, felicemente sposato, con una figlia e un altro in arrivo, a seguito di una visita urologica per un episodio di ematuria e successivi accertamenti, riceve una diagnosi di tumore al rene.

Occorre operare. Subito. La malattia all’improvviso cambia le carte del gioco. «Il cielo si spacca e tutto si capovolge […] si capovolge lo studio che perde contorni e pareti, si ribaltano nozioni, concetti, pensieri e ricordi, tutto cade all’indietro […] tutto è via, ci sono Luigi e la malattia in un immenso spazio bianco».

C’è un mondo di professionisti che si muove intorno a Luigi, e l’autore ce lo descrive molto bene, attraverso il punto di vista di Luigi dal suo letto numero 205. Interessante e intelligente l’emergere l’unicità dei personaggi che va oltre il ruolo e la professionalità, conferendo quindi alla narrazione un tocco leggero, divertente e ironico, che si affianca alla drammaticità del contesto.

Ecco allora, la caposala, eccessiva nei modi e nel linguaggio, ma che sa il fatto suo; Giusy l’infermiera avvenente, ciociara sguaiata ma efficace; Anna, l’infermiera “quella brava”; Gorislav, infermiere russo, ginecologo ma la cui laurea non è riconosciuta in Italia; il dottor Policari , che ama più la musica della medicina; il dottor Barbieri sempre dietro alle sottane in particolare quella della Giusy; la dottoressa Borghi sempre ben disponibile verso i pazienti; il dottor Rapisarda, che mantiene Luigi digiuno di cibo e acqua per una Tac quando non sarebbe stato necessario; la dottoressa Minà, l’anatomopatologa col triste compito di comunicare spesso brutte notizie; l’oncologo Aliprandi, con la Morte al suo seguito, con mantello nero e falce sempre pronti; e poi c’è Zamagna, il dio, amato da tutti incondizionatamente, l’essere perfetto, il luminare, il chirurgo medico che ogni paziente vorrebbe: ama il suo lavoro e lo fa con passione e dedizione, eccellente in tutto, sa relazionarsi, sa parlare e ascoltare, accogliere, è empatico.

Accanto il mondo dei pazienti, che l’autore divide in categorie umane «il paziente cupo, l’ottimista, l’ipocondriaco e il peggiore il competente delirante… accomunati da una cosa: l’intima e profonda dipendenza dai medici». C’è Amed, vicino di letto, somalo borghese col quale Luigi si relaziona; Beppe, operato d’urgenza, recidivo del reparto, che nessuno ricorda; Marcello, che trascorre il suo tempo imitando i medici, facendo diagnosi, dispensando consigli e commentando il decorso delle loro patologie; c’è Pino il vecchio, Sabino, Costa il cappellano che si ritrova all’improvviso dall’altra parte della barricata, operato anche lui d’urgenza per una massa sospetta, che lo metterà in crisi profonda, facendo vacillare ogni certezza e la stessa fede.

Protagonista è anche l’ospedale « istituzione totale, un luogo in cui gruppi di persone risiedono e convivono per un certo periodo di tempo… la vita è organizzata secondo regole precise: qualcun altro decide a che ora ti svegli, cosa mangi, come ti vesti e quando esci. Ma a differenza di un carcere o di un manicomio, in ospedale ti identifichi con le intenzioni e le finalità della struttura, perché hai scelto di starci». Anche se si tratta di una scelta obbligata, aggiungo io.

L’ospedale è come un teatro, e le azioni routinarie che vengono compiute, si esprimono spesso in tutta la loro teatralità. Come il giro visite, per esempio «È un rito che si ripete identico, giorno dopo giorno. Il medico sa di avere a disposizione pochi secondi per rispondere. Non deve dare vita a una conversazione: la deve chiudere». Da ciò tutta la frustrazione e confusione nell’animo del paziente che rimane con gli stessi e peggiori dubbi perché non ha avuto modo di spiegarsi, di intendersi.

Le frasi fatte, “facciamo un passo alla volta”, “dipende tutto dai vasi”, “è tutta questione di testa”, recitate e ripetute come un copione, che si ripete ogni giorno, sono il mantra che regola le leggi dell’ospedale, e sulle quali non si replica. Fra le altre regole non scritte c’è anche quella che « ti devi alzare dal letto, prima possibile per non lasciarti andare, per dare un segnale al tuo organismo». Quanta verità dietro queste frasi, chi è stato ricoverato almeno una volta in ospedale non può fare a meno di sorridere a queste raccomandazioni.

In ospedale si crea solidarietà tra i pazienti, perché la condizione e condivisione della malattia è un bel collante che unisce, dando «una forza incredibile». L’ospedale livella le persone, le assottiglia all’essenza, che è poi l’espressione della loro volontà e desiderio di vivere: «i pazienti sono tutti uguali. Non c’è classe sociale, età, reddito formazione culturale, orientamento politico o religioso che faccia la differenza. I pazienti cercano solo una cosa: la salvezza».

In ospedale si è soli. Nonostante le visite dei parenti, amici, conoscenti, che nonostante gli sforzi non riusciranno mai a capirti veramente. La solitudine è una compagna costante, con la quale parlare della malattia, del proprio destino, di quanto sei stato sfortunato.

La rabbia, è un altro sentimento sempre presente, che si confonde e scontra con la frustrazione delle figure professionali che lavorano in ospedale e che sfogano tutto il risentimento su coloro che non sono la causa. L’insoddisfazione alla base di tutto, economica, motivazionale, legata alla stanchezza per un lavoro usurante, che condiziona e impatta sul paziente costretto a stare in ospedale. La rabbia, dice l’autore, viene «scaricata sempre verticalmente, verso il basso, e mai orizzontalmente o verso l’alto».

La verticalità è una tematica ricorrente nel libro: verticale è lo sfogo della rabbia, dall’alto al basso; verticale è la linea del test di gravidanza di Elena la moglie, fatto mesi prima a testimoniare il nuovo figlio in arrivo; è ciò che Amed dice a Luigi in una delle tante conversazioni: «Devi vivere in asse, centrato, come su una linea verticale, occorre essere centrati, devi stare in piedi, centrato, verticale […] Orizzontale sei morto. Verticale sei vivo».

Momento culminante del romanzo è la conoscenza e la consapevolezza della propria malattia: sapere o decidere di non sapere, conoscere tutto diagnosi, prognosi, aspettativa di vita o no? Oggi c’è una legge che dice che è il paziente a decidere, è lui al centro della cura, e in quanto tale, può decidere o meno di essere informato. Bellissimo e cruciale il passaggio in cui i due coniugi si parlano e Luigi chiede alla moglie: «C’è qualcosa che tu sai che io non so?». E lei giustamente gli risponde con un ulteriore interrogativo : «Tu vuoi sapere tutto?». Momenti di narrativa davvero intensi e commoventi.

Suddiviso in capitoli, in giornate, come una sorta di diario, che scandiscono il tempo che non è più tempo - perché in ospedale anche questo cambia connotazione.

 

Palese il messaggio chiave del libro, ovvero trasformare un’esperienza negativa come la malattia, in un valore aggiunto, un’opportunità di miglioramento e crescita, espresso in maniera esaustiva nel finale: «La malattia è arrivata in maniera esplosiva e deflagrante, ha cambiato tutto, e anche se difficile dirlo, ha cambiato tutto in meglio […]quando ho saputo di avere un tumore sono morto all’istante. E poi, da quel momento, ogni minuto trascorso, ogni ora, giorno, mese, è stato sorprendente e inaspettato. È stato un dono, come un morto a cui si dice: puoi vivere ancora, non si sa quanto, ma puoi vivere ancora. Basta fare un passo alla volta».

Una scrittura diretta che procede per immagini, come una scenografia appunto da molteplici punta di vista anche se lo sguardo principale è quello di Luigi.

La linea verticale non è solo un romanzo sulla malattia, ma una straordinaria riflessione sulla fragilità umana e sulla capacità di trovare senso anche nei momenti più bui. Con un stile asciutto ma potente, Mattia Torre riesce a farci ridere, sorridere, emozionare, e riflettere, ricordandoci che ogni giorno , anche il più difficile, è un dono. Non c’è certezza, non c’è garanzia ma c’è la possibilità di restare in piedi, di resistere. Perché vivere è questo. Rimanere su una linea verticale, centrati, vivi.

 “La linea verticale” di Mattia Torre ( ed. Baldini & Castoldi 2017)

23 febbraio 2025

COSMETICA DEL NEMICO di Amélie Nothomb

 

“Il rischio è la vita stessa. Non si può rischiare altro che la propria vita. E se non la rischi, non la vivi”.

Amélie Nothomb è stata una sorprendente scoperta. Questa scrittrice belga contemporanea, che vive a Parigi, ha dato vita a un romanzo dal titolo enigmatico, il cui senso sfugge a una prima lettura, ma che risuona con una certa musicalità. La “Cosmetica” a cui la Nothomb si riferisce non è quella del make up che migliora l’estetica di un volto, ma «la scienza dell’ordine universale, la morale suprema che determina il mondo». In altre parole, principi, valori e convinzioni che muovono un individuo, nella fattispecie,  un nemico.

24 marzo 1999. In aeroporto un uomo d’affari, Jérôme Angust, ascolta all’altoparlante il ritardo del proprio volo per Barcellona. Esasperato per la prospettiva di rimanere in attesa per un tempo indefinito, aprirà un libro con la speranza di dimenticare l’imprevisto, ma la voce ossequiosa di un passeggero sedutosi accanto, lo distoglierà dall’intento. Lo sconosciuto si presenta come Textor Texel e da quel momento Jérôme  sarà catturato da lui, senza riuscire più a interrompere quella fastidiosa e irriverente conversazione, condotta con sagacia dal misterioso personaggio. Chi è Textor Texel, dal nome tanto bizzarro, così sfrontato da confessare anche le sue colpe, aver violentato e ucciso una donna? Eppure non è un folle, lo dimostra la sua consapevolezza «Per me un pazzo è un individuo i cui comportamenti sono inspiegabili. E i miei li posso spiegare tutti». Perché sembra conoscere così bene Jérôme? Un vecchio compagno di scuola, forse? Oppure un malato di mente, un maniaco di cui lui sarà la prossima vittima?

Sono interrogativi che noi lettori ci chiederemo fino alla fine, quando si svelerà finalmente l’enigma. Eppure qualche indizio la Nothomb prova a darcelo attraverso le parole del molestatore stesso. «Io credo nel nemico […]. Le prove dell’esistenza del nemico interiore sono evidenti e quelle del suo potere schiaccianti. Credo nel nemico perché, tutti i giorni e tutte le notti, lo incontro sul mio cammino». Oppure: «C’è solo un sistema legale di farmi tacere: è parlare. Non se lo dimentichi. Questo potrebbe salvarla».

Un thriller sottile psicologico (e filosofico) che ci tiene sospesi fino all’ultima pagina.  

Una storia ben costruita dove il dialogo concitato tra i due interlocutori tocca vertici alti; un dialogo sulla vita e sulla morte che sembrano non conoscere confine, sulla lotta tra il bene e il male, sulla natura dualistica dell’uomo, sulla spiritualità.

Il dialogo è la sequenza predominante se non assoluta del romanzo, un botta e risposta serrato, un’alternarsi di battute, essenziali per capire, senza capirlo, il sorprendente epilogo, una rivelazione tragica, drammatica che tocca alte punte di ironia, cinismo, fino al paradosso.

Una scrittura potente, diretta e incisiva, essenziale. L’ho amata e sono certa che amerò anche le prossime letture dell’autrice, che ho già a disposizione.

Cosmetica del nemico” di Amélie Nothomb ( ed Voland 2003)

09 febbraio 2025

YOGA di Emmanuel Carrère


“Per vivere c’è bisogno di una storia”

Non è facile definire questo libro di Emmanuel Carrère – un saggio sulle discipline orientali, un romanzo autobiografico, un flusso continuo di coscienza in cui trovano ampio spazio l’introspezione insieme ai ricordi e alla narrazione di avvenimenti reali e di finzione, nello specifico quelli che hanno segnato tappe fondamentali nella vita dello scrittore? – un testo comunque che al di là della classificazione, vale la pena leggere.

Un romanzo sui generis, con una trama tematica direi, che segue un percorso inusuale e poco prevedibile – lo dice lui stesso che l’ ha iniziato con un’intenzione per poi finirlo in tutt’altro modo – apprezzabile per la ricchezza artistica e culturale, per la fluidità del linguaggio e per la sincerità della narrazione, priva di pregiudizio o paure nel manifestare le proprie debolezze. Un aspetto questo, il raccontare se stesso – la sua depressione, le pulsioni ossessive, il bipolarismo – senza veli o edulcoranti, che rendono l’autore lodevole e ammirevole ai miei occhi di lettrice.

Il romanzo è diviso in cinque capitoli, ovvero cinque contesti, scelti a pretesto per narrare la storia che non è una storia, in cui lo yoga è il tema base (e non principale) che sempre ritorna e al quale tutto ci riconduce.

Il libro inizia con nozioni, citazioni dei grandi yogin, definizioni dello yoga e della meditazione, tanto da farlo sembrare di primo acchito un manuale sulla pratica, con continui e suggestivi riferimenti personali. La permanenza nel luogo di ritiro dove lo scrittore, insieme ad altri adepti pratica Vipassana, interrotta però prematuramente, è solo l’inizio della narrazione, dalla quale si passa al ricovero nella clinica psichiatrica di Sainte- Anne,(agli elettroshock per la cura del suo “disturbo bipolare di tipo II”), dove l’autore ha passato una parentesi importante della sua vita. «Sono sprofondato più spesso di quanto avrei voluto in quell’abisso che si spalanca in certi momenti della vita e chiamiamo depressione o pazzia».

Non meno importante il tragico attentato di Charlie Hebdo, in cui perde la vita un caro amico, il soggiorno nell’isola di Leros coi rifugiati politici orientali e africani, le numerose amicizie, le donne amate e poi perdute di vista, gli amori possibili e impossibili, l’amore sempre presente, quello per la scrittura, che sarà salvifica, anche nel momento in cui deciderà di smettere di digitare con un solo dito sulla tastiera, imparando a farlo con tutte le dieci dita.

Il libro è l’espressione di ogni verità e il suo contrario: il bene e il male, il giorno e la notte, il bianco e il nero, la vita e la morte, perché la realtà è fatta dei due opposti, Yin e Yang, che regolano le nostre esistenze portandoci alla conclusione che non ne esiste una sola, unica e assoluta, ma tante che possono vivere nell’armonia dell’insieme; una «vita finalmente reale, sottratta all’illusione, la vita in cui vediamo le cose come sono».

La meditazione, fra le tante e innumerevoli definizioni è anche questo: «L’esperienza della meditazione, quando va bene, è un modo incondizionato di stare bene. Stai bene perché sei lì. Stai bene perché in nessun altro posto staresti meglio che lì dove sei [] Ti senti vivere. Non fare qualcosa: soltanto vivere».

Ecco se il lettore cerca azione, una lettura di tensione, credo che questo non sia il miglior libro dell’autore.

Si apprezza invece per lo stile, scorrevole, chiaro, semplice nella complessità dell’argomento, per la natura sincera dell’autore che si mostra al pubblico per quello che è, senza false etichette ma come uomo vulnerabile, perché è nella sua natura la fragilità e la grandezza sta nel riconoscerla, nel prendere consapevolezza e adoperarsi per migliorare. La scrittura in questo percorso può essere un ottimo strumento: «forse non posso guarire dal male da cui sono affetto, ma posso raccontarlo».

“Yoga” di Emmanuel Carrère ( Adelphi 2020)


26 gennaio 2025

SE I GATTI SCOMPARISSERO DAL MONDO di Kawamura Genki

 

«C’è una cosa altrettanto inevitabile quanto la morte, ed è la vita»

Un romanzo coraggioso che affronta argomenti difficili e tabù come la malattia, la morte e il lutto in maniera originale e “leggera” come si trattasse di una favola senza però esserlo.

Il protagonista – senza nome – conduce una vita piuttosto ordinaria, svolge il lavoro di postino, vive in un appartamento con la sola compagnia del gatto, Cavolo. A seguito di una visita medica per un raffreddore persistente, gli viene diagnosticato un tumore al cervello, con una prognosi al massimo di una settimana. Da quel momento la sua esistenza non sarà più quella di prima. Non fa in tempo a stilare la lista delle ultime cose da fare prima di morire, che gli si presenta il Diavolo in persona. Sarà con lui che stringerà un patto: un giorno di vita in più in cambio della scomparsa di qualcosa dal mondo, per sempre. Ma sarà il Diavolo a dettare le regole.

Inizieranno così a scomparire i telefonini, i film, gli orologi – oggetti di rilevanza sociale, culturale, relazionale – motivo di crisi, di riflessione sul loro valore effettivo ed affettivo, ma anche di maggiore consapevolezza di se, del mondo e degli affetti che davvero contano.

Accetterà infine l’ultima proposta del Diavolo, ovvero far scomparire tutti i gatti dal mondo?

Impossibile anche noi lettori non porci domande come queste: “Come sarebbe la nostra vita se all'improvviso sapessimo che ci rimane un solo giorno da vivere? E se potessimo sacrificare qualcosa per avere in cambio un giorno in più?”

Una storia di fantasia, ma che appare molto realistica – che si avvicina molto alla narrativa di Haruki Murakami – un viaggio interiore attraverso il ricordo, sul senso della vita che si palesa proprio quando si sta per perderla. «Solo adesso che sapevo di avere poco tempo ma ero stato gettato in un mondo senza tempo cominciavo a guardare per la prima volta al futuro».

Un libro che ci fa soffermare, riflettere, interrogare sulle nostre nostre scelte di vita, restituendoci colore, suono, sapore, bellezza, anche quando tutto intorno sembra statico e monotono.

Il libro, spassoso e divertente pur toccando argomenti tristi, ci fa riflettere su quelli che sono i reali valori dell'esistenza, su ciò che vale la pena aver provato, sentito, visto... prima di lasciare questo mondo e dirsi davvero appagati e felici. Anche se la felicità non è altro che un punto di vista: «le persone possono scegliere di essere felici o infelici. Dipende dalla prospettiva con cui osservano le cose […] Siamo tutti destinati a morire, gli esseri umani hanno un tasso di mortalità del cento per cento. Dunque se una morte è felice o infelice dipende sostanzialmente dal modo in cui si è vissuta la propria vita».

Ogni fine può avere un senso, può essere meno dolorosa se si riesce a dare significato alla propria esistenza,  a superare i rimpianti, ad accettare il fato e dire a se stessi: «Sono contento di essere chi sono, di essere qui è non altrove».

Un libro davvero incantevole che si legge tutto d’un fiato, dal linguaggio semplice e preciso, alternato tra la prima e la seconda persona, rivolto e dedicato al padre, in un messaggio di amore e riconciliazione, svelato dal potere della memoria.

 

Se i gatti scomparissero dal mondo” di Kawamura Genki ( Einaudi 2019)

21 gennaio 2025

BAUMGARTNER di Paul Auster

 

Ultima opera del grande autore americano scomparso appena lo scorso anno, in cui si raccolgono tutte le tematiche della sua scrittura magistrale e calamitante.

Seymour Baumgartner è un ex professore di filosofia, settantenne che vive da solo nella propria abitazione del New Jersey, dopo aver trascorso una vita appagata e felice con sua moglie, Anna Blum, morta dieci anni prima travolta dalle onde dell’Oceano Atlantico, nonostante le sue qualità di esperta nuotatrice. Una donna colta, intelligente, poetessa e scrittrice, di cui S.B si è innamorato già dal primo incontro, contraccambiato a sua volta con lo stesso amore e trasporto.

Un’assenza, che invade l’appartamento – vuoto di figli ma saturo di libri e del comune amore per lo studio, la letteratura, la filosofia, le arti – una perdita che, S.B. descrive bene con la metafora della sindrome dell’arto fantasma, sentendosi adesso «un moncone umano, un mezzo uomo che ha perso metà di sè stesso che lo rendeva intero […] e sì, gli arti mancanti ci sono ancora, e fanno ancora male,così male che a volte gli sembra che il suo corpo stia per prendere fuoco e incenerirsi all’istante».

Una mancanza, che ha anche il sapore della nostalgia, di certe abitudini che al presente non trovano più spazio, perché manca il fuoco che le alimenta, come il ticchettio dei tasti sulla macchina da scrivere di Anna al mattino quando lui ancora sonnecchiava, «tanto che a volte entrava nello studio, si sedeva davanti alla macchina muta e scriveva qualcosa – qualunque cosa – solo per risentirli».

In tutto il libro si assiste all’elaborazione del lutto, attraverso tutte le sue fasi, fino all’accettazione, consapevole che la sua esistenza non sarà più come prima. «Vivere è provare dolore, si era detto, e vivere con la paura del dolore significa non volere vivere». Accettare significa sentire e vivere ancora con quel dolore, ma senza avere più paura.

Il destino, la casualità, le coincidenze affiorano in frasi potenti come queste cercando risposta: «Perché proprio a me? Perché a me no? Le persone muoiono. Muoiono giovani, muoiono vecchie e muoiono a cinquantotto anni».

Non manca la grande domanda e curiosità di cosa ci sia oltre il confine della morte, e qui il protagonista/ autore ce ne dà una bellissima interpretazione attraverso il monologo intenso e commovente di Anna all’altro capo di un telefono che squilla nel cuore della notte. E sarà proprio questa allucinazione/sogno la scintilla che darà inizio alla rinascita, alla speranza e a una nuova possibilità di redenzione, in cui la moglie non è cancellata, ma compresa nel suo nuovo mondo. Una realtà dove ci sarà spazio anche per nuove storie, altre donne, che in molti aspetti gliela ricordano.

Il tempo, dopo l’evento tragico, ha cambiato connotazione per S.B. – Kronos è stato sostituito da Kairos. Per questo ha lasciato il lavoro, per dedicarsi appieno a ciò che gli preme davvero, all’opera filosofica che sta scrivendo “Misteri del volante”, «perché ormai il tempo stringe, e lui non ha idea di quanto gliene resti».

Scritto al presente, dal punto di vista onnisciente, comprende sbalzi temporali senza un filo cronologico, attraverso flashback che in maniera naturale, pertinente e fluente svelano la storia, senza didascaliche narrazioni. Impossibile perdersi o non capire, la chiarezza è un elemento fondamentale della scrittura di Auster.

Non mancano riferimenti concreti all’arte dello scrivere, che ritroviamo nella narrazione sottoforma di racconti, scritti, lettere, commenti che si inseriscono nella trama principale.

Un libro degno del grande Auster col quale chiude davvero in delicatezza e bellezza, una scrittura fluida, stimolante, ben dosata nella gestione delle sequenze – narrativa, dialogica, descrittiva e riflessiva – e che nonostante alcune anticipazioni non perde di colore e pathos.

Una scrittura semplice –  all’apparenza – nitida e forte che abbraccia l’universo intero, gli affetti – padre, madre, nonni, moglie, amanti, amici, colleghi, sconosciuti – l’amore in tutte le sue coniugazioni, i grandi valori e i sentimenti umani, tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta e soprattutto raccontata. Un’opera che sembra farsi sintesi e commiato dell’autore , consapevole del termine del suo viaggio.

“Baumgartner” di Paul Auster ( Einaudi 2023)

16 gennaio 2025

RITRATTO IN PIEDI di Gianna Manzini

 

«La terra come il cielo deve essere di tutti: è già troppo quella che uno occupa con la cassa da morto».

Una lettura senza dubbio assai originale, una modalità nuova e sperimentale di offrire al lettore l’immagine di un uomo che con la sua salda ideologia anarchica, dette un importante contributo socio politico culturale alla sua epoca.

Chi era Giuseppe Manzini, nato nell’ottobre del 1853 a Pistoia?

Ce lo presenta così l’autrice, in una delle non molte descrizioni fisiche del padre che ricorda con amore, ripercorrendo con dichiarata difficoltà, le tappe del loro vissuto insieme.

Un uomo la cui «giacca di velluto marrone, sbottonata, lascia molto scoperta la camicia. I calzini sono vecchi logori, ma ben sostenuti da una cintura di cuoio. Non porta cravatta[….] Ha le spalle larghe il babbo. È sempre stato diritto. Tiene, al solito, la testa alta. Un atteggiamento non di alterigia; ma di sfida ,sì. Lealtà e chiarezza dichiarate esponendo la fronte spaziosa[…] Gli occhi sono marrone; e, a causa di tanta concentrazione, non sembrano grandi. Si negano così il lusso di essere grandi».

Ritratto in piedi più che la biografia di un anarchico, la narrazione delle vicende politiche, sovversive e umanitarie che hanno caratterizzato la sua vita, vuole essere soprattutto commemorazione, valorizzazione di un uomo attraverso le parole della figlia, una figlia che – come ben spiega in queste pagine – è tormentata dai sensi di colpa, dalla vergogna di essersi allontanata da lui preferendo strade più facili e frivole che la società le proponeva; dal rimpianto per non aver trascorso maggior tempo con lui , di non aver alimentato il loro rapporto con lo stesso entusiasmo che animava la bambina di un tempo.

È un libro testimonianza, un libro in cui l’autrice si espone e narra di sé oltre che del padre, con la volontà di ricordarlo, senza una sequenza cronologica precisa, ma attraverso le emozioni suscitate da luoghi, eventi, persone, accadimenti; una sorta di riconciliazione, forse, un modo, per esprimere la sua riconoscenza e l’orgoglio nei confronti del padre e alleggerire il suo senso di colpa nutrito per lungo tempo.

Gianna Manzini è un’attenta osservatrice del dettaglio, del microcosmo ( come l’osservazione della formica durante il pranzo con la famiglia materna), sa intrattenere il lettore con bellissime metafore, esprimere le sfumature delle emozioni che la abitano, attraverso immagini e sensazioni come questa: «Ascoltandolo, divenni via via come un seme perduto fra le pieghe della terra: adagio la mia fisica ottusità parve sfogliarsi; ma erano fogli pesanti, compatti, quasi marmorei… riuscii a presentire quanto può pesare un dolce bambino in collo; sì che mi dolevano vagamente non solo le braccia, ma le reni e l’inguine».

Del Manzini anarchico si trovano alcuni passaggi, come lo sciopero a capo degli operai nella fabbrica del cognato – motivo della rottura con la famiglia materna – , i discorsi e le pubblicazioni anarchiche, l’amicizia con Malatesta, il suo esilio nell’Appennino pistoiese fino alla morte per infarto a seguito di un’ intimidazione fascista. Quello che prevale invece nella narrazione è l’aspetto emotivo, sentimentale, morale dell’uomo che l’autrice riesce a far emergere tanto da renderlo memorabile.

La lettura non è facile, nonostante la musicalità dei periodi che risultano assai articolati e complessi. La Manzini si concede la libertà di osare, di compiere salti temporali e spaziali, di vagare nel suo scrigno di ricordi, sentimenti ed emozioni intorno alla figura del padre, immaginare dialoghi, colloqui, incontri raccontati e forse mai testimoniati.

Risultato una grande prosa di qualità, dove si avvisa la ricerca della parola, una scrittura senza dubbio elegante, unica, raffinata. Un arcobaleno continuo di ampie metafore ma ben assortite, una lettura, come ripeto, difficile  ma che vale la pena di conoscere.

“Ritratto in piedi” di Gianna Manzini (Oscar Mondadori 2024)

29 dicembre 2024

INVENTARIO DI QUEL CHE RESTA DOPO CHE LA FORESTA BRUCIA di Michele Ruol

 

« Ci sono cose che non si cureranno mai… tutto quello che fa il tempo è concedere di assistere a nuove fioriture a chi ha la pazienza di aspettare»

Un libro bellissimo e coraggioso - per il contenuto poco commerciale - per tutti, ma destinato solo a coloro che cercano nella lettura occasione di intimità e dialogo con sé stessi.

Un libro dalla struttura piuttosto originale, in cui sono gli oggetti a narrare la storia, novantanove oggetti nell’appartamento di una famiglia sconvolta da un tragico evento: la morte dei due figli.

E proprio come una sorta di inventario di ciò che resta dopo l’incendio che coincide con l’incidente stradale dei ragazzi, l’autore ci presenta in maniera dettagliata ogni cosa – il pentolino da latte, la penna stilografica Pelikan MK10, lo stradario, cartellina in pelle, rasoio elettrico a testine rotanti, scatole di cartone (IM.) e (IN.)… – raccontando attraverso le stesse, tappe dell’esistenza di Padre e Madre, il loro incontro, il matrimonio, la nascita di Maggiore e Minore, la loro crescita, i successi e i fallimenti, i momenti di gioia o di difficoltà, la routine familiare… muovendosi nello spazio e nel tempo con abilità sorprendente, in uno stile narrativo diretto e fluente.

Presenze nell’assenza, che rievocano ciascuna un ricordo, un tassello di vita per chi resta e che nonostante tutto deve continuare a vivere.

Come possono due genitori andare avanti dopo una sciagura così invalidante? Dove possono trovare la forza per non crollare? Quale motivazione che non sia la fede può tenerli ancora legati alla vita? Il libro ci offre una delle tante soluzioni possibili, perché anche nel peggior dolore e sofferenza insieme alla consapevolezza e all’irreversibilità della perdita, esiste sempre una via di uscita. In questo, il tempo può essere un grande alleato.

Una lettura che affronta il tema del lutto, senza autocommiserazione, ma con grande lucidità e forza, spalancando le porte alla speranza.

Grazie a questo spiraglio di luce si assiste alla rinascita, proprio come fanno i corbezzoli, i primi a germogliare dopo un incendio, stimolati dall’acidità del terreno «piante speciali, capaci di fare contemporaneamente fiori e frutti: grappoli di campanelle bianche e bellissime bacche rosse e arancioni».

Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” di Michele Ruol (Terrarossa edizioni 2024)

15 dicembre 2024

IL TEMPO DI BLANCA di Marcela Serrano

 

“Affinchè tu non mi dimentichi” – titolo originale– ci fa già intuire che è il ricordo la ruota trainante del libro, la memoria col suo potere di mantenere sempre vivo ciò che davvero ha significato, ciò che non dobbiamo scordare, mai.

Blanca, quarantenne attraente dal carattere candido come il suo nome, moglie, madre e figlia, conduce una vita agiata, estranea alla realtà socio politica culturale di un Cile, appena uscito dalla dittatura di Pinochet. Sarà la conoscenza e l’amicizia con Victoria e con Gringo ex perseguitati politici, a determinare la sua sostanziale trasformazione, oltre all’ictus che le toglierà parte della capacità di movimento ma soprattutto la parola. Afasia, il termine clinico. Sceglierà un nuovo linguaggio per comunicare: «Da oggi i miei occhi parleranno per me. E con questi occhi voglio narrare la mia storia».

Un romanzo che si sviluppa come un flusso di coscienza, con la voce e il punto di vista della protagonista Blanca, in un susseguirsi continuo di flashback e flashforward, intercalati anche dalla narrazione in seconda persona di Sofia amica di Blanca.

Una storia senza dubbio ben strutturata dove non mancano gli elementi necessari a una buona narrazione – emozioni, suspence, colpi di scena, cambi di punti di vista, finale aperto, ecc… – e tutte le tematiche esistenziali per definirlo un libro davvero ricco.

Una scrittura fluida, dove la componente riflessiva e interiore – che tanto apprezzo nella letteratura –  predonima e portando di conseguenza il lettore a soffermarsi e meditare sui grandi quesiti o situazioni che la vita ci propone o impone, costringendoci alla trasformazione.

È anche la storia del Cile, post Pinochet. Senza parlarcene in maniera diretta, l’autrice ne coglie gli aspetti più inquietanti e crudeli, descrivendoci appunto le conseguenze, le cicatrici che tale dittatura lasciò in coloro che sopravvissero e “non sparirono”al regime. Attraverso un’espediente assai efficace – narrandolo dal punto di vista di Blanca, una donna che non ha vissuto dentro quella realtà perché appartenente a un ceto diverso – ce lo restituisce con un effetto ancora più stridente. Lo si coglie bene nelle parole del Gringo: «Il dolore è rimasto chiuso nel mio mondo interiore. Questo fa la tortura, Blanca: la morte o l’estraniazione».

Non mancano valori che animano la Storia, le storie…

L’amicizia, soprattutto quella femminile, la solidarietà fra tre donne, Blanca, Victoria e Sofia, così diverse tra loro per estrazione sociale e vissuto, ma unite da una sensibilità e umanità comuni.

 L’emancipazione femminile, frutto di maturità individuale e di evoluzione sociale.

L’amore in tutte le sue sfaccettature: l’amore coniugale, che il tempo deteriora se non sapientemente alimentato; l’amore passionale, quello di Blanca per il suo Gringo, sostenuto da un profondo malcontento e dal suo bisogno di sentirsi ancora amata, desiderata, considerata; l’amore filiale, sentimento primordiale in cui si insinua il conflitto della scelta tra un figlio o l’altro; l’amore universale, quello verso l’umanità tutta, animali e cose, forte peculiarità di Blanca, che costituisce il motore della sua carità verso i deboli, gli svantaggiati, i meno fortunati (motivo per cui conoscerà Victoria e il Gringo).

La famiglia, come radice e struttura di ancoraggio e stabilità che può rappresentare allo stesso tempo un ostacolo alla crescita e all’evoluzione. Apprezzabile il sostegno a Blanca da parte dei fratelli al momento della separazione dal marito. L’infedeltà, interpretata come risposta a una mancanza emozionale di cui una giovane donna sente necessità e urgenza.

La malattia di Blanca è solo una svolta della sua vita, l’imprevisto che cambia e rivoluziona all’improvviso le carte nel gioco, i progetti che perdono il proprio connotato e rimettono in discussione ogni cosa, bloccando la strada a suo tempo pianificata.

E infine a conclusione, il senso della morte , come liberazione da un dolore fisico quanto spirituale ancora più difficile da contenere. La conosce bene Victoria questa sofferenza, tanto da confidare il suo segreto a Blanca, offrendole un’ulteriore percorso, una possibilità che dovrà essere lei stessa a scegliere e intraprendere.

Un romanzo davvero completo.Com’è possibile trattare tante tematiche, tante sfumature emozionali in un una sola trama? mi sono chiesta. Marcela Serrano ci è riuscita, con maestria, senza stancare il lettore, senza impartire lezioni morali, senza condannare o assolvere. In questo, a mio parere sta lo spessore di questa lettura.

Il tempo di Blanca” di Marcela Serrano ( Ed Feltrinelli 1998)

09 dicembre 2024

IL RACCONTO DELL’ANCELLA di Margaret Atwood

 

“Per istituire un sistema totalitario efficace o invero un qualsiasi sistema, è necessario offrire qualche beneficio e qualche libertà, almeno a pochi privilegiati, in cambio di ciò che viene loro tolto”

Il racconto dell’ancella è un romanzo distopico, scritto nel 1985, ambientato negli USA,  proiettato negli attuali anni.  Anche se non rientra nei mie gusti di genere letterario, l’ho scelto intenzionalmente (ogni tanto occorre uscire dalla propria zona di comfort) e in effetti, la lettura mi ha ampiamente soddisfatta nonostante le tematiche assai inquietanti, se interpretate nell’ottica realistica in cui l’autrice le rappresenta.

Altrettanto interessante è stata la scoperta del suo stile narrativo, una scrittura sobria, essenziale, diretta, anche se non priva a tratti di dettagli e particolari. La struttura del romanzo invece è assai complessa e articolata, nella riproduzione di una nuova realtà politica, religiosa, culturale e sociale, che l’autrice gestisce con maestria e competenza.

Anni Duemila. USA. Un colpo di stato, instaura la Repubblica di Galaad, un regime totalitario, teocratico e maschilista in cui vengono sovvertite molte precedenti leggi e regole. Al vertice del potere sono i Comandanti, aiutati da altri esponenti maschili, i Custodi, gli Occhi, ognuno con un preciso compito di sorveglianza e controllo. A fianco c’è il mondo femminile le Ancelle, donne in età fertile destinate esclusivamente alla procreazione, le Mogli dei Comandanti, donne sterili che assistono al coito tenendo in grembo l’ancella (come citato in un passo dell’antico Testamento), le Zie addette all’indottrinamento, le Marte le inservienti, le Nondonne, scarto della società, esseri inutili destinati  perciò alle Colonie, ai lavori più sporchi, come la pulizia dai rifiuti, sostanze tossiche e radioattive. Ogni donna ha perciò il proprio ruolo, sottomessa alla volontà e al potere dei Comandanti che dirigono il gioco politico, in nome del regime e della religione. Ogni forma di libertà individuale è soppressa se non a pochi eletti. Alle Ancelle, ruolo della protagonista  Difred, è proibito leggere, fumare, parlare, esprimere opinioni, ragionare, tutto ciò che esula dalla sua funzione, quella di fare figli da donare ai Comandanti e alla società, per contrastare il fenomeno di denatalità, osteggiato dal nuovo governo.

L’autrice ci inserisce gradualmente in questo mondo apocalittico ma verosimile, narrato dalla protagonista stessa come testimonianza autobiografica (che giustifica e corona l’epilogo) alternando i flashback della precedente esistenza - arricchita dall’affetto della figlia, dell’ amante e della madre - con l’ attuale condizione che al confronto stride e angoscia ancor di più.

Senza aggiungere altro della trama, ricca di sottotrame e colpi di scena, posso concludere che Il racconto dell’ancella dal quale hanno tratto anche una famosa serie televisiva e un film, è un libro che deve essere senz’altro letto e conosciuto, oltre che per un arricchimento personale letterario, soprattutto come spunto di attenzione e riflessione sul pericolo della dittatura, del potere di massa (alimentato a sua volta da concetti e distorsioni di carattere religioso e dogmatico) che cancella ogni principio democratico, etico e di libertà individuale.

Rimane per me comunque una lettura inquietante ed emotivamente grave, nonostante lo spiraglio finale di risoluzione, forse per il pensiero che tutto ciò potrebbe anche accadere un giorno (la Storia nemmeno cento anni fa ce l’ha dimostrato).

Ma forse sono proprio i libri come questi che devono continuare a far eco nelle nostri menti, affinchè temiamo ogni tipo di regressione (e anche di progresso mal gestito), tenendo  gli occhi sempre bene aperti sul futuro, consapevoli, fiduciosi e umani nel rispetto reciproco, senza dimenticare ciò che la Storia ci ha insegnato,proprio  per non ripetere e non compiere gli stessi e nuovi errori.

Il  racconto dell’ancella” di Margaret Atwood (ed. Ponte alle Grazie 2004)

13 novembre 2024

L’ORA DI GRECO di Han Kang

 

Dopo La vegetariana, sapevo che sarei andata incontro a una lettura non facile, ma non avrei mai immaginato di ritrovarmi un testo così articolato, da leggere un po’ alla volta, a piccoli sorsi come una bevanda troppo calda che rischia di bruciarti la gola. Sì, perché ho trovato L’ora di greco un libro assai complesso, almeno nella struttura anche se si deve forse a questa peculiarità parte del merito e della bellezza.

A differenza del libro precedente (dal quale non posso separarmi) che aveva una forma più definita e chiara – perché diviso in tre parti, di cui ciascuna descriveva il punto di vista di un personaggio – qui la struttura invece appare stravolta, perché l’autrice sembra avanzare più per sensazioni che per logica, creando un puzzle di immagini, suoni, profumi, odori e sensazioni tattili legate alle vicende, che il lettore stesso deve essere abile a ricomporre, per seguire la trama delle storie in una Seoul indistinta.

Lo stile è caratteristico e audace. L’autrice si destreggia con maestria passando velocemente dalla terza alla prima persona, per infine inserire anche la seconda persona (nei monologhi del professore con l’amico Joachim Gründel e con la sorella Ran) mantenendo però sempre fermi i punti di vista dei protagonisti.

Due sono i personaggi principali, semplicemente la “donna”e l’“uomo”, due esseri umani senza l’ importanza del nome – nonostante la loro forte individualità – due esistenze simili che incrociano i loro destini segnati dalle loro specifiche mancanze: la vista per lui, la parola per lei.

E nell’ aula – dove lui, il professore, insegna greco mentre lei segue le sue lezioni – tra le strade di Seoul, nell’appartamento senza luce e vuoto di lei, si muovono le loro storie, frammentate dai ricordi di un passato, ora dell’uno ora dell’altra, che ricompongono lentamente il quadro complesso delle loro esistenze.

Ognuno di loro porta con sé il peso del proprio dramma, che la scrittrice sa svelarci con maestria, riproponendo quelli che sono i temi a lei più cari: la famiglia – i rapporti fraterni, coniugali, filiali – l’amore, la solitudine e l’impossibilità di entrare in relazione con l’altro, la diversità o meglio l’unicità, la malattia, la fragilità

Nei personaggi di Han Kang è profondamente radicato “il male di esistere”, come un sintomo che necessita di una cura da ricercare per essere gestito e placato; oppure si va oltre, dove c’è una completa separazione tra il corpo e lo spirito, fino al paradosso di una completa fusione senza più un confine: «A volte, più che una persona, ha l’impressione di essere una sostanza di qualche tipo, un solido o un liquido in movimento. Se sta mangiando del riso caldo, le sembra di essere riso caldo. Se si sta lavando la faccia con acqua fredda, le sembra di essere acqua fredda. Allo stesso tempo, sa benissimo di non essere né riso, né acqua, bensì una materia resistente, spietata, che si rifiuta di mescolarsi con qualunque altra forma di esistenza».

Han Kang sa regalare al lettore (se la sa cogliere) una chiave di lettura nuova, spalancando la porta su un mondo dove le angosce, le paure, le sofferenze diventano immagini, suoni, profumi, trasformando l’emozione in materia e la materia stessa in emozione. Una prosa che in molti tratti si fa poesia.

A testimonianza può bastare questo passaggio nella caratterizzazione della “donna”: «Da quando ha perso l’uso della parola, a volte ha l’impressione che le sue inspirazioni ed espirazioni siano un po’ come il linguaggio. Intaccano il silenzio con altrettanta audacia della voce». Oppure nel parlare del suo mutismo: «Non era un problema di corde vocali o di capacità polmonare. Semplicemente non le piaceva appropriarsi dello spazio» dove si legge tutta la sua ostinazione a non volersi relazionare col mondo; e ancora «Ognuno occupa un certo spazio fisico che corrisponde esattamente al volume del proprio corpo, ma la voce si propaga molto oltre. Lei non voleva espandere la propria presenza».

Interessante la fusione dei sensi, lo sguardo che si sostituisce alla parola e nel caso dell’uomo, la parola che si sostituisce là dove gli occhi non possono più comunicare. E sarà proprio questa combinazione a creare lo spiraglio di luce nel dramma delle loro vite, una possibile riconciliazione col mondo. Un poetico lieto fine (che nel precedente libro mancava) che apre il cuore alla speranza.

 “L’ora di greco di Han Kang” ( Adelphi 2023)

29 ottobre 2024

IO, BEATRICE CENCI una ragazza romana di Nicoletta Manetti

 



IO, BEATRICE CENCI una ragazza romana di Nicoletta Manetti

«Leggo giusto l’introduzione dell’avvocato Paola Pasquinuzzi  – donna affabile ed empatica che ho avuto il piacere recentemente di ascoltare in una conferenza sulla violenza di genere – e poi chiudo» mi sono detta per rispetto a tutti i libri impilati sul comodino che attendono il proprio turno di lettura. Da quella son passata al sonetto di Marco Vichi «Giusto una pagina e chiudo davvero» ma da lì è stato facile lasciarsi travolgere dalla scrittura magistrale di Nicoletta Manetti, scivolare nella narrazione «Chi è questa Beatrice, dal volto così angelico?». Le pagine si susseguivano una dopo l’altra, difficile arrestare la caduta.

Sì perché non si può fare a meno di rimanere coinvolti nella storia di questa ragazza romana, così indifesa e fragile all’apparenza, ma al contempo forte, determinata e tenace, che a soli venti anni, condusse una battaglia impossibile per il suo tempo.

Pochi ne conoscono la vita  breve e infelice, forse per questo l’autrice ha voluto riportarla in luce, allo sguardo e all’attenzione di una società che continua a commettere gli stessi e assai peggiori errori.

Una storia perciò, che ha bisogno di essere raccontata e in questa, Nicoletta sensibile a ogni ingiustizia, ha voluto prestare voce e cuore. Una vicenda tremendamente attuale che ci fa riflettere e constatare che poco è cambiato in tutti i secoli trascorsi, solo il contesto e le modalità.

Nasce così una testimonianza accorata – narrata in prima persona – in cui si dispiegano gli eventi della vita della protagonista: la nascita nella nobile famiglia Cenci, l’infanzia spensierata dalle suore francescane insieme alla sorella, e poi il baratro nelle fauci del mostro, suo padre; le fughe e le strategie di alleanza con la matrigna Lucrezia – anche lei vittima del marito – e con Marzio e Olimpo uomini al suo servizio e amanti; l’illusione di riscatto e la promessa di amore con l’abate Guerra; la reclusione alla Rocca di Petrella sul Salto; il parricidio, la galera e il lungo processo che la vide colpevole di un atto che era solo risposta di difesa e sopravvivenza.

L’autrice ci propone questa tragica storia con una delicatezza straordinaria, da togliere il peso della violenza e brutalità, valorizzando invece il desiderio di amore e di vita di Beatrice. Il tutto in maniera precisa, dettagliata e documentata, come è suo solito.

Ritrovarsi all’ultima pagina  è un attimo: succede sempre così coi libri di Nicoletta, rimane la nostalgia della lettura terminata insieme all’ eco e all’emozione della storia, come un buon cibo di cui non si è mai sazi e che mantiene vivo il piacere dell’ultimo boccone.  

Una lettura davvero appassionante, un racconto drammatico e struggente che ci rivela tutta la forza e fermezza di una donna che a soli vent’anni, lottò con tutta se stessa per la Giustizia e il riconoscimento di un diritto – quello di vivere – e di un’assoluzione che la stoltezza della sua epoca non vollero riconoscere.

Io , Beatrice Cenci Una ragazza romana” di Nicoletta Manetti ( Angelo Pontecorboli Editore Firenze 2024)

28 ottobre 2024

13 ottobre 2024

GERTRUDE STEIN E ALICE B.TOKLAS A FIRENZE di Nicoletta Manetti

 



Ancora una volta Nicoletta Manetti ci regala un prezioso gioiello che, come i precedenti volumi della stessa collana sui “forestieri” a Firenze, risulta essenziale per comprendere il fermento dell’attività letteraria e delle arti figurative del primo Novecento, non solo nella nostra città, ma anche in Europa e Oltreoceano.

E dopo le coppie famose – Anja e Dostoevskij, D.H. Lawrence e Frieda – non potevano mancare all’appello Gertrude Stein e Alice Toklas, «due donne diversissime, ma uguali: entrambe americane di origine ebraica e tedesca, entrambe appassionate di arte e cultura, tanto da supplire alla loro scarsa avvenenza con ben altra bellezza che le riempie e totalizza» e che proprio a Firenze si dichiararono il loro amore.

In queste righe non voglio approfondire il personaggio di Gertrude Stein – vi sono 140 e più pagine a disposizione che vi invito a leggere – ma ribadire quanto questa donna, «sacerdotessa del cubismo», fulcro e accentratrice dei maggiori esponenti dell’Arte del Novecento, abbia avuto un ruolo determinante per lo sviluppo artistico e letterario del suo e del nostro tempo.

Lo afferma l’autrice stessa, «si parla poco oggi, di Gertrude, pochissimo»; è forse, per questo scarso riconoscimento che sente il bisogno attraverso un percorso biografico di riportarla in luce e farla rivivere in queste pagine? Potrei azzardare la risposta affermativa, ma sarebbe riduttivo, perché alla storia della protagonista principale si intrecciano altre vicende, aneddoti, esistenze di donne e uomini che caratterizzarono il secolo con la propria arte; compresa la storia della stessa autrice che si inserisce nella narrazione stessa con sensibilità e delicatezza.

Passato e presente si intrecciano generando una narrativa fluente e gradevole che si legge con meraviglia e incanto, godendosi ogni parola, ogni frase, ogni scoperta. Una prosa accurata nel dettaglio, nella descrizione dei luoghi, dei personaggi, dei tempi, perché scrupolosamente documentata ed elaborata, caratteristica tipica dell’autrice che cerca, osserva, esplora, perlustra e … trova. Un resoconto emotivo e sensuale,  e non un asettico racconto biografico, tra saggio e romanzo, dove la presenza rispettosa dell’autrice arricchisce l’opera.

Ringrazio perciò doppiamente Nicoletta, per avermi fatto riscoprire Gertrude Stein – incontrata la prima volta in Midnight in Paris, film di Woody Allen credendo si trattasse di un personaggio di sua invenzione – una personalità  eclettica, affascinante e generosa, insieme a una realtà storica così ricca ed effervescente di cui molto ignoravo.

«Gertrude Stein e Alice Toklas a Firenze» di Nicoletta Manetti ( Angelo Pontecorboli Editore - Firenze 2024)

LA NOTTE NON FA PAURA di Kathryn Mannix

 

«Nessuno di noi è comune, anzi ciascuno è straordinario alla propria maniera»

Una lettura molto interessante, più romanzo che saggio, che ci porta a riflettere sul fine vita, su come un giusto, consapevole approccio alla morte sia fondamentale per viver meglio e soprattutto per affrontare in modo valorizzante il processo del morire.

Kathryn Mannix, medico palliativista, specializzata in Terapia Cognitiva Comportamentale, ci offre in questo libro l’opportunità di compiere questo viaggio, nella buia realtà che spaventa molti, perché rappresenta l’ignoto, la perdita, la scomparsa e con ciò la sofferenza, sostantivi tutti che implicano un vuoto oggettivo a cui nessuno ha saputo mai dare risposta.

Cosa c’è dopo la morte?

Ecco la Mannix ci propone una soluzione, offrendoci le informazioni di cui è a conoscenza, grazie alla sua esperienza e al contatto costante col fine vita, conducendoci nell’esplorazione e apprendimento di un momento così unico e difficile.

In maniera magistrale, da clinico esperto e da attenta osservatrice e narratrice, ci esorta a riflettere attraverso le storie ben descritte e documentate dei suoi pazienti - di cui per convenzione maschera nomi e luoghi -, sul valore della vita, della nascita e della morte (così simili e complementari), offrendo anche a noi lettori gli strumenti per “partecipare” all’evento finale delle persone care, descrivendo in modo oggettivo e tecnico lo schema del morire, ovvero la trasformazione della sfera fisica, emotiva e spirituale che, come un protocollo, molto spesso avviene in questo momento chiave. Tutto ciò, senza tralasciare il contesto di emozioni, sentimento e calore che vi ruota attorno.

«Osservare il processo del morire è come osservare un parto: in entrambi i casi esistono fasi riconoscibili in una progressione di cambiamenti che portano al risultato previsto […] Vi sono solo due giorni che durano meno di ventiquattro ore nel corso della vita, posti come dei fermalibri alle estremità della nostra esistenza; uno lo celebriamo ogni anno, ma è l’altro a rendere la vita preziosa».

Molto concreta è l’affermazione in cui nella morte «vi è ben poco da temere e molto da organizzare». Un viaggio molto interessante che nella società attuale, proprio per il tabù che lega questo evento, oggi è precluso a molti.

Vivere la propria morte - sembra un ossimoro - ma è proprio la maniera più efficace di dare un senso alla propria vita. L’evento del morire può rappresentare allora un’ epifania, l’espressione massima e conclusiva di una vita, la risoluzione di un enigma irrisolto, che come un finale di un romanzo ben scritto, lasci in eredità un buon ricordo, un lascito emozionale positivo per chi resta. Per questo sono pienamente convinta che non sia affatto vantaggioso evitare il pensiero della morte (dei nostri cari, la nostra), in quanto pensarci e parlarne in modo realistico, sicuramente migliora anche il nostro vivere quotidiano.

E a conclusione, voglio citare proprio una frase che implica e riassume il messaggio dell’opera stessa: “La vita è preziosa e forse riusciamo ad apprezzarla meglio quando la viviamo consapevoli della sua fine”. Per cui, anche alla luce dell’anno di Master appena terminato, aggiungo e sostengo che sia davvero giunto il tempo di crescere, comprendere e non aver più paura del buio.

La notte non fa più paura” di Kathryn Mannix ( ed.Corbaccio 2018)