22 luglio 2024

IL BABBO DI PINOCCHIO di Paolo Ciampi

 

Siete proprio sicuri di conoscere il babbo di Pinocchio, il burattino più famoso nel mondo, dal naso “animato” ogni volta che diceva una bugia? Non fate il mio stesso errore credendo si parli di Geppetto, il povero falegname che lo modellò da un pezzo di pino. Sicuramente anche lui, ma in questo libro il babbo di Pinocchio è Carlo Lorenzini, per tutti Collodi e credo proprio che (come me) dopo averlo letto vi renderete conto di quanto poco ne sapevate.

Ce lo descrive molto bene l’autore, nel suo cilindro calcato sul cranio calvo, in abito elegante, gambe incrociate, mani infilate sul panciotto [… ] l’aria  di chi sarebbe propenso al dolce far nienteun pigro indaffarato», seduto su una panchina ad osservare la sua Firenze, « la  città di Acchiappacitrulli» – come ripete più volte all’autore che gli si è seduto accanto –- « degradata, sporca, affollata di accattoni e poveracci. Eppure bella».

È la notte di San Lorenzo, notte magica di stelle cadenti, e tutto può accadere passeggiando per la città festeggiante e affollata di turisti. Anche di incontrare un uomo così speciale.

I due iniziano una conversazione fitta e concitata alternando «silenzi e discorsi che aspiravano alla reciproca sottomissione» aggrovigliando le riflessioni per poi recuperare « il filo della matassa». Non mancano le affinità, punti di incontro e argomenti di interesse comune, fra cui la professione, il legame con la città e l’amore per le parole, « parole che cambiano il corso degli eventi».

E fra una bevuta di birra e un’altra, gli autori si raccontano.

 Carlo Lorenzini, «per tutti  Collodi» narra di sé, delle sue umili origini a fianco della nobiltà, della sua “indolenza” rispetto al fratello Paolo invece più determinato ed equilibrato, del suo lavoro di giornalista, della sua ideologia patriottica … Si scopre in questo dialogare, il vero Lorenzini, un uomo di grande humour, amante dell’alcool e del gioco, « uomo di sfumature, linee d’ombra, confini incerti».

Non mancano le riflessioni e le battute su Firenze e i fiorentini, la Firenze capitale del suo tempo e quella contemporanea, città vetrina affollata di turisti che si abbuffano nei punti ristoro di cui la città è piena o in fila sotto il sole cocente per ammirare i capolavori del Rinascimento, incapaci di abbracciare con lo sguardo la vera bellezza della città. O come puntualizza Carlo Lorenzini stesso: «Una città, dove ogni casa ha la sua eco e le mura filtrano voci. Dove tutti sembrano sapere di tutto e presumono di poterlo raccontare a modo loro. Dove due terzi delle cose si sanno e l’altro terzo si tira a indovinare, ed è quello che davvero conta».

 Non mancano tanti aneddoti, verità e curiosità legati ai luoghi e ai personaggi che li abitano – vera e propria peculiarità stilistica dell’autore – che riescono sempre a meravigliarci.

Un libro indispensabile per conoscere davvero Pinocchio, perché senza la conoscenza del suo “babbo” si apprezza solo in parte il valore dell’opera. E poi c’ è quel nome, Collodi, uno pseudonimo che gli ha portato fortuna certo, ma che suona alle sue orecchie come una condanna, un velo destinato a celare  in modo indelebile la sua vera identità..

Una lettura semplicemente deliziosa, colloquiale – scritta in seconda persona –  scorrevole come acqua dell’Arno, in cui noi lettori come silenziose farfalle abbiamo il privilegio di assistere e seguire i due scrittori nel loro viaggio per vivere la stessa magica avventura, alla scoperta di curiose verità.

E se credete che vi abbia svelato troppo, niente di più sbagliato, c’è ancora molto da sapere, non per ultimo a chi è rivolta questa lunga e interessante chiacchierata.

Il babbo di Pinocchio” di Paolo Ciampi (ed. Arkadia 2023)

04 luglio 2024

MATTINO E SERA di Jon Fosse

 

«Oggi niente è com’è sempre stato, deve essere successo qualcosa, ma che cosa?».

"Mattino e sera," inizio e fine, nascita e morte, e nel mezzo la Vita.

Il protagonista del romanzo è Johannes, un uomo – marito, amante, padre, amico – che vive di pesca in un paesino della Norvegia, dove il rigido inverno spesso non mette cibo in tavola. L’autore è bravo a presentarcelo, svelandocelo con parsimonia; e lo fa attraverso i dialoghi (con la moglie, l’amico Peter, la figlia), i suoi pensieri e le descrizioni che fanno da caposaldo alla narrazione, illustrandoci un mondo interiore, una intimità e sensibilità così delicate e vere che sembra di vederle, toccarle per l’intensità in cui sono rappresentate. Si ripercorrono così gli eventi più significativi della sua vita: l’amore, la famiglia, gli affetti, le amicizie, il lavoro.

Una storia senza tempo o dove il tempo non ha tempo, perché si dilata e si restringe nell’infinità dell’essere.

Una scrittura dallo stile unico e all’apparenza complesso, tanto che non è facile all’inizio calarsi nella pagina e avviare quel processo di decodificazione della frase e del periodo senza l’ausilio di una punteggiatura (il punto nello specifico) a chiusura di un discorso, di un argomento. Incredibile come l’autore sia riuscito alla fine a regalarci un testo così appassionante, mantenendo la prosa comprensibile e sorprendentemente scorrevole (una volta entrati nel ritmo), anzi assai di più senza l’interruzione della punteggiatura. Una narrazione continua come un flusso di pensiero - in terza persona, dal punto di vista di Johannes - in equilibrio assoluto tra spazio e punteggiatura.

Una prosa pulita, essenziale e chiara. Una lettura “leggera” ma che nasconde una grande profondità di sentimento.

Un libro sulla vita, sul valore delle piccole cose.

Un libro sulla morte, sulla “buona morte,” quella che dà un senso alla vita come fine di un percorso di auspicabile e tranquilla serenità.

Un libro che apre le porte alla speranza: «Dove andremo adesso, non è nessun posto e per questo motivo non possiede neppure un nome […] Pericoloso è una parola, non esistono parole dove andremo […] Non esistono corpi dove andremo, quindi non esiste dolore […] Non esiste nessuna sofferenza, nessun tu e io dove andremo […] Non si sta né bene né male, ma è grande e tranquillo e vibrante e luminoso […] Tutto è uno e allo stesso tempo diverso, è uno eppure è proprio quello che è, tutto è diviso eppure senza divisione e tutto è tranquillo».

Una lettura che rimane attaccata alla pelle anche a libro chiuso e che penetra negli strati più profondi della coscienza, come un balsamo che evapora lentamente ma che rilascia le sue proprietà benefiche. Una lettura che fa riflettere sulla nascita e sulla morte, certezze uniche dell’esistenza alle quali nessuno può sottrarsi, restituendocele in tutto il loro valore intrinseco, in una dimensione di pienezza, gioia, serenità e dignità.

Un libro che tutti dovrebbero leggere per acquisire conoscenza e conferire la giusta connotazione all’evento più naturale e certo che è il fine vita.

“Mattino e sera” di Jon Fosse ( ed.La Nave di Teseo 2023)


23 giugno 2024

IL DOTTOR SEMMELWEIS di Louis- Ferdinand Céline

 

“Il pericolo di voler troppo bene agli uomini”

Una storia vera, di passione e dedizione, di coraggio e determinazione ma anche di incomprensione e ipocrisia, questa riportata da Céline (autore francese del Novecento) che si dedicò allo studio del personaggio tanto da farne argomento della propria tesi di Medicina.

Chi era Ignazio Semmelweis, uomo sconosciuto a molti?

Ce lo ritrae molto bene l’autore in questo piccolo libro, ripercorrendo passo passo la sua vita osteggiata e difficile. «Egli era di quelli, troppo rari, che possono amare la  vita in ciò che essa ha di più semplice e di bello: vivere. L’amò oltre il ragionevole».

Ignazio Filippo Semmelweis (1818-1865) –  medico ungherese, dedito alla Medicina e soprattutto alla cura dei suoi pazienti, uomo sensibile, audace e coraggioso, ostinato contro la stupidità degli uomini del suo tempo -  fu il precursore dell’antisepsi e della microbiologia, il primo “a toccare i microbi senza vederli” come dice Celine stesso. Pasteur cinquant’anni dopo ne scoprì l’esistenza, documentandola col microscopio.

 A Semmelweis si deve l’importante intuizione dell’esistenza di agenti mortali e dannosi (invisibili all’occhio umano), che attraverso le mani possono trasmettersi da un individuo a un altro. Nello specifico, S. capì che le morti eccessive delle puerpere ricoverate in ospedale erano correlate alle visite ginecologiche effettuate dai medici che con le stesse mani avevano toccato i cadaveri per le autopsie. Perciò capì l’importanza di “sanificarle”, attraverso un accurato lavaggio delle mani, impiegando cloruro di calce. Fu  schernito, deriso, ostacolato, tanto da essere etichettato “pazzo” e  allontanato dalla pratica clinica. Morì in grande sofferenza, per setticemia, dello stesso male scoperto, a causa di un taglio con un bisturi infetto.

Si prova tanta rabbia e indignazione di fronte a simili vicende, quando l’ottusità e l’ignoranza  unite al potere, non solo ostacolano le verità ma addirittura sono talmente letali da portare alla morte menti così eccelse.

Una narrazione fluida, quasi colloquiale, che ha il registro di una storia narrata al calore di un focolare.

Un grande omaggio che l’autore ha reso a un uomo tanto talentuoso quanto incompreso, dandogli memoria e spessore «perché le grandi opere sono quelle che risvegliano il nostro genio, i grandi uomini sono coloro che sanno dargli forma».

Il dottor Semmelweis” di Louis- Ferdinand  Céline ( Adelphi 1975)

22 giugno 2024

DIARIO DI UN DOLORE di C.S.Lewis

 

Diario di un dolore è un libro di interesse comune che tutti dovrebbero leggere, perché è pressoché impossibile nella vita di ciascuno di noi, non sperimentare il dolore, nonostante la sua soggettività. Il dolore come il piacere, fa parte del nostro quotidiano di esseri umani e sensibili, riveste un ruolo fondamentale e condizionante nel relazionarci con l’esterno, influenzando ogni sfera del nostro essere, fisica, mentale e spirituale.

Lo scrittore ha perso la moglie, il cancro se l’è portata via con sofferenze atroci. Questa opera, sotto forma di diario, partendo dal tragico evento, nasce come elaborazione della perdita, come risposta reattiva al dolore del lutto, della mancanza, nel tentativo di dargli forma, consistenza e valore, per poterlo superare forse, e dargli un senso, una connotazione..

L’autore però va oltre, riuscendo a penetrare il dolore e a descriverlo nelle molteplici sfumature: il dolore come una sbronza; il dolore come una arma puntata contro che incute paura e angoscia; il dolore che impigrisce inibendo ogni azione; il dolore come entità individuale ed esclusivamente personale « La debolezza dell’altro, la sua paura, la sua sofferenza non puoi farle tue. Potrai aver paura e soffrire anche tu. […] Ma sarebbe pur sempre un soffrire diverso», per quanto siamo vicini a chi soffre, ognuno conosce davvero soltanto il proprio dolore; il dolore come mistero: «Perché la separazione (per non dire altro) che tanto strazia chi rimane dovrebbe essere indolore per chi se ne va?»; il dolore che fa perdere il significato della vita stessa: «La gente non esiste, non è mai esistita. La morte non fa che rivelare il vuoto che c’era da sempre»; il dolore prolungato per la persona perduta che può allontanare l’affetto per la persona stessa «l’abbandono al dolore, invece di legarci ai morti, ce ne distacca».

E poi Il lutto, vissuto dai figli come imbarazzo, dal congiunto come assenza, come perdita di un’abitudine che svela orizzonti diversi e sconosciuti: « Il dolore di un lutto è come una lunga valle, una valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio affatto nuovo».

Il concetto della morte, come un tabù da sfatare: «La morte esiste. E tutto ciò che esiste ha importanza»; la morte come approdo e non come l’arrivo.

Non mancano le riflessioni sull’esistenza di un’altra dimensione spaziale e temporale dopo la morte: «Dov’è lei ora? Ossia in quale luogo è lei in questo momento? Ma se H. non è un corpo,… H. non è in nessun luogo […]. Se i morti non sono nel tempo, o non sono nel tempo che noi conosciamo, esiste una chiara differenza, quando parliamo di loro, tra “era”, “è” e “sarà”? La risposta che prova a darsi è: «H è con Dio. Almeno in un senso, questo è certissimo. Essa è, come Dio, incomprensibile e immaginabile».

Questo lungo percorso sul dolore si rivela alla fine una sublimazione, un salto spirituale, una modalità saggia (anche se dolorosa) per approfondirsi, crescere, evolversi.

L’autore attua questo processo in maniera stoica, alternando la razionalità all’emozione, in una gamma di stati d’animo, anche contraddittori a volte, in cui mette in discussione la fede stessa, criticando e analizzando il suo Dio: «È razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l’idiota malevolo?».

Non manca la riconciliazione con «Lui come il donatore e con lei come dono… amarla è diventato, nella sua misura, come amare Lui», che riaccende la speranza capace di lenire ogni sofferenza.

Un libro intenso e coraggioso che mette in luce gli aspetti complessi del dolore – fisico, psichico e spirituale –  che porta noi lettori a soffermarci e a confrontarci anche con il proprio, a dargli un significato, trovando molti punti in comune, sebbene la soggettività e l’unicità dell’esperienza stessa.

Un libro che terrò nella biblioteca del mio cuore.

“Diario di un dolore” di  C.S.Lewis ( ed. Adelphi 1990)

11 giugno 2024

FAUSTO E ANNA di Carlo Cassola

 

Un inno all’amore contro la guerra

Anni Trenta, la storia si svolge tra Volterra, Val di Cecina e Grosseto. Anna e Fausto due giovani di estrazione borghese, si innamorano e si amano. Anna, ragazza semplice, vivace, spigliata, leggera ma non superficiale, intraprendente e sentimentale; Fausto aspirante scrittore, romano d’origine, intellettuale, ateo, più misurato perché concentrato “sul recitare la parte”, riflessivo e con un mondo interiore ricco e complesso abitato dalle influenze e dagli ideali politici del suo tempo. Una relazione un po’ movimentata la loro, che dopo ripetuti alti e bassi, si interromperà, portandoli alla separazione. Fausto tornerà a Roma e Anna conoscerà Miro e si sposerà. Fausto avrà altre donne (conosciute nelle case di tolleranza) senza incontrare il vero amore (idealizzato in Anna)e si dedicherà alla politica, diventando partigiano.

Il romanzo appare diviso in due: una prima parte idilliaca, in cui prevale la favola d’amore, l’atmosfera incantevole della relazione tra i due giovani sebbene a tratti altalenante, in una Volterra bucolica, ben rappresentata e descritta. La seconda parte invece, si fa più cruda, più realistica, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale che trasforma lo scenario in una campo di battaglia, vedendo Fausto, impegnato politicamente nella Resistenza, come partigiano insieme ad altri compagni.

Un romanzo di formazione (considerando e il percorso di maturazione e lo sviluppo ideologico dei due protagonisti), dal carattere sociale e storico, ma anche autobiografico, in cui riconosciamo in Fausto, l’autore stesso che si affiancò anch’egli ai partigiani, partecipando attivamente alla Resistenza contro il governo nazifascista. ». Un percorso di crescita e maturazione ideologica, in cui l’esperienza  ci insegna e ci trasforma, proprio come accade ai nostri protagonisti.

Cassola però non ci mostra il movimento in maniera eroica ed esaltante, bensì, in una dimensione molto più realistica, piena di incertezze e dubbi, come quando ci descrive Fausto di ritorno fra i partigiani e «ne ebbe l’impressione della prima volta, un’ impressione di tristezza, di squallore, di sciagurataggine», tanto da non credere «che il comunismo potesse rendere migliore il mondo

L’autore fu anche accusato in questo libro di schierarsi contro la Resistenza, critica smentita da lui stesso nella nota a fine romanzo. Un testo particolarmente difficile per lo scrittore, che fu costretto più volte a correggerlo e revisionarlo dal punto di vista stilistico e ideologico perché rifiutato dalle molte case editrici.

Personalmente ci ritrovo questo suo sentire, il valutare in maniera oggettiva la sua epoca, riflettere e vedere senza esagerate celebrazioni, orientamenti politici, ideali e tendenze, riportate invece in maniera concreta e con sincera passione e coinvolgimento intellettivo ed emotivo.

Una prosa fluida, dai dialoghi chiari, semplici ma ben strutturati che alleggeriscono la narrazione a tratti anche troppo dilatata e particolareggiata.

Una lettura comunque fortemente attuale, un inno all’amore contro la guerra, un monito che non dovremo mai stancarci di ripetere:« La guerra distrugge, non produce. Come mai  i capi non capiscono? Non dovrebbero mai fare la guerra. Non ci dovrebbero esser guerre. Ciascuno a casa sua, a lavorare in pace».

Come le commoventi parole del partigiano caduto, che sembrano uscire dalle sue labbra ormai immobili: «Era un gioco molto bello, questo della guerra […] Ma, vedete, non era un gioco la guerra. Ci siamo sbagliati. Guardate i miei occhi vitrei, la bava sanguigna che mi esce dalla bocca, e quest’orribile colore giallo sparso per tutto il mio corpo! Credevamo di giocare, ed era invece una cosa terribile, spaventosa! Smettete, ragazzi, voi che siete in tempo!».

“Fausto e Anna” di Carlo Cassola ( Oscar Mondadori 2012)

21 maggio 2024

LA BANDA DEI PITBULL di Carlo Giannone

 

Se amate il giallo, La Banda dei pitbull è una lettura assolutamente da non perdere, e lo dice una che non ama particolarmente il genere (come più volte ho già detto) ma che di fronte a una narrativa così appassionante e completa, deve ricredersi.

Sì, perché al di là dell’indagine, in questo romanzo c’è molto di più, non per ultima la città di Firenze che fa da sfondo e cornice in maniera puntuale e minuziosa  alla narrazione. 

Gaetano Mancuso, Commissario della Pubblica Sicurezza della città sta indagando su un caso assai angosciante: il cadavere di un giovane è stato ritrovato lungo il torrente Mugnone, ucciso dall’assalto di uno o più cani Pitbull, come conferma il veterinario che effettua le analisi. Purtroppo non sarà un evento sporadico, ma seguiranno altre vittime, sempre giovani e di sesso maschile, a opera dei cani, sicuramente guidati da un folle omicida che non ama sporcarsi le mani. Perché una  tale ferocia? Perché tutti quei giovani e solo uomini? Un caso drammatico e complesso che Mancuso saprà condurre meticolosamente avvalendosi dei suoi preziosi collaboratori, Angelo il vicecommissario e l’affascinante Simona, agente scelto, che non nasconde il debole che nutre per il suo superiore.

Un romanzo complesso, tanti i personaggi e ben caratterizzati (e ringrazio l’autore per il promemoria introduttivo che ne facilita la memoria), una narrazione fluida e piacevole che incolla il lettore fino all’ultima pagina. Un giallo che si tinge anche di altre tonalità, riportandoci anche su una dimensione più quotidiana e umana, dove insieme all’indagine si muove una realtà brulicante di necessità e problemi ma anche di sentimenti ed emozioni. Affascinante la figura del commissario, di cui l’autore sa cogliere ed esaltare l’aspetto umano, oltre a quello di pubblico ufficiale, restituendoci il padre, il marito, il collega, l’amico, l’amante, nelle sue molteplici identità. Ed è proprio questa caratteristica che più ho apprezzato, perché ci conduce nel mondo oggettivo e interiore del protagonista, ci fa simpatizzare,  affliggere, gioire, preoccupare, odiare e amare insieme a lui,accompagnandolo nel suo cammino verso la risoluzione e non solo investigativo.

Una lettura coinvolgente, tremendamente attuale, in cui non manca l’occasione di riflettere (e sconvolgersi) per come l’uomo possa arrivare a essere tanto crudele e feroce e come il perdono (in qualsiasi contesto) sia un sentimento e un percorso davvero raro e difficile da intraprendere.

La banda dei pitbull” ( Ed. incipit 23, 2023)

12 maggio 2024

PASSIONE SEMPLICE di Annie Ernaux

 

«Calcolavo quante volte avevamo fatto l’amore. Avevo l’impressione che, ogni volta, qualcosa di più si fosse aggiunto alla nostra relazione, ma anche che era questo stesso accumulo di gesti e di piacere che ci avrebbe sicuramente allontanato l’uno dall’altra. Si esauriva un capitale di desiderio. Ciò che si guadagnava in fatto di intensità fisica, lo si perdeva in ordine di tempo».

Entriamo nel vivo della storia con questa frase emblematica del rapporto che lega Lei, donna matura e indipendente, e Lui  molto più giovane, e “straniero”, che compare e scompare dalla sua vita come un gioco di prestigio, in una continua altalena di attese e illusioni, di tensione e resa, di pensiero e azione, di energia e inerzia. «Vivevo il piacere come un futuro dolore» ci informa l’autrice congedandosi da Lui. 

Una passione tutt’altro che semplice, un’attrazione fisica travolgente, un sentimento/tormento per Lei che non riesce a sottrarsi al magnetismo di tale fenomeno uscendone spossata e priva tutte le volte di ogni stimolo .

Una lettura piacevole, una storia di passione e amore, descritta con assoluta oggettività, un rapporto animato che dà tanto ma toglie anche tanto, che carica d'energia quando c’è, ma che ne toglie altrettanta nell’assenza.

Racconto lungo più che romanzo breve, Passione semplice è soltanto una di alcune letture dell’autrice (Nobel per la Letteratura 2022), in cui ancora una volta ritrovo il suo stile inconfondibile, l’essenzialità del discorso unita alla profondità di pensiero, la narrazione autobiografica e autentica, la ricerca esatta e precisa della parola in una narrazione che scaturisce sincera e spontanea come flusso incessante di pensiero

Una grande penna, uno stile, che al di là dell' attrattività  del tema e della storia non delude mai.

«Passione semplice» di Annie Ernaux  ( ed. Rizzoli 1992)

08 maggio 2024

TROPPA MEDICINA - Un uso eccessivo può nuocere alla salute di Marco Bobbio

 

 

TROPPA MEDICINA - Un uso eccessivo può nuocere alla salute di Marco Bobbio

Fare di più non significa fare meglio

La medicina ha migliorato di gran lunga la nostra vita, grazie ai progressi della tecnologia, dell’informatica, della ricerca clinica e scientifica ma di pari passo non c’è stato sempre in maniera proporzionale, altrettanto beneficio e benessere in termini di qualità e dignità di vita. Infatti il progresso può rivelarsi anche un vincolo, una catena che ci lega ancor di più mani e piedi, che immobilizza il corpo oltrepassando il suo naturale e fisiologico processo, se non usata con sapienza e intelligenza. Come dice Bobbio, troppa medicina può danneggiarci anziché farci star bene, «può provocare effetti peggiori di quelli che si sarebbe voluto evitare».

Il problema è che la medicina è nata per guarire, e là dove questa attribuzione gli è impossibile, si defila dall’incarico. Dice Bobbio, citando le parole di Richard Smith direttore di una importante rivista americana: «Non fa male ricordare che la morte è inevitabile, che la maggior parte delle malattie non può essere guarita».

Fare sempre qualcosa è davvero la miglior cosa da fare? Il nuovo, le procedure più sofisticate sono sempre le migliori? Risolveranno davvero ogni problema di salute? Anticipare la diagnosi può essere sempre utile? I rischi potenziali vanno sempre trattati con farmaci? Dobbiamo sempre ostinarci al trattamento o c’è un momento in cui dobbiamo fermarci? Questi e altri quesiti popolano il libro, esortandoci a riflettere sulle nostre insicurezze e paure, a ponderare la cura e l’assistenza, a confrontarci in una visione sempre più centrata sui reali bisogni della persona.

La Slow Medicine, di cui Marco Bobbio fa parte (membro del Gruppo direttivo), risponde molto bene a questi interrogativi, e lo fa con tre parole, aggettivi chiave: medicina sobria, rispettosa, giusta.

Una medicina contenuta, misurata senza eccessi inutili (oltretutto sfavorevoli alla persona).

Una medicina rispettosa, che considera la volontà della persona, in linea con le risorse disponibili, di buona qualità.

Una medicina giusta, appropriata, su misura della persona, che riduca gli sprechi per garantire equità delle cure e sostenibilità.

Purtroppo non sempre è facile adottare il sobrio, rispettoso e giusto atteggiamento, anche se condiviso dal medico, perché subentra la paura di eventuali sanzioni e provvedimenti disciplinari, se il medico incorre in errori per omissione di esami a conferma di diagnosi, per esempio. La medicina difensiva è proprio questo, prescrivere esami, farmaci, trattamenti inutili per evitare contenziosi più che per reale necessità, senza un effettivo vantaggio per la persona. «La medicina difensiva peggiora la qualità dell’assistenza sanitaria, incoraggiando procedure inutili e un crescendo difficilmente controllabile di risultati ambigui o falsamente positivi».

La ricerca della certezza, al quale viene dedicato un intero capitolo, dice Bobbio,  può essere deleteria, non solo in termini di costi e sprechi, ma soprattutto per integrità della persona, che non “si dà pace” senza una diagnosi, o una cura a risoluzione del suo problema. Su questo mi viene da riflettere su quanto la certezza sia un valore fluttuante e mai assoluto nella durata della vita stessa, di certo non esiste niente, ciò che è vitale è mutabile per sua natura, trasformabile e quindi in antitesi con la certezza, stabile, sicura, ferma.

Purtroppo il sistema consumistico ci ha portato a un apprezzamento della quantità a scapito della qualità: siamo progettati per fare, sempre di più, sono i numeri che contano, più dei contenuti del messaggio da dare.

C’è una mancanza di formazione inerente alla comunicazione tra medico e paziente nello stimolare le sue capacità decisionali. Non solo, il medico è impreparato a gestire l’emotività dell’altro.

«I medici farebbero meglio ad accompagnarli (i pazienti) nella decisione, aiutandoli a mettere insieme le numerose tessere, spesso molto personali, che caratterizzano sempre una scelta complessa».

«È più facile fare che non fare.  La rinuncia è sinonimo di abbandono, abdicazione, astensione, cedimento, cessione, digiuno, distacco, forfait, mortificazione, privazione, resa, rifiuto, ritirata, sacrificio, vendita». Tutti questi aggettivi parlano da soli, e ce la dicono lunga sull’accezione negativa del termine.

Eppure a volte è bene arrendersi, accettare, constatare che è il momento di fermarsi; il che non significa che dobbiamo lasciare il campo, interrompere e terminare il gioco, anzi, è questo il momento giusto per cominciare a fare qualcos’altro. E il gioco cambia prospettiva e direttiva, non più nell’ottica della guarigione ma in quella della presa di coscienza dei propri limiti, della consapevolezza del proprio essere, nel contenimento dei sintomi invalidanti e scomodi, quali il dolore cronico, in una visione realistica e oggettiva. Le cure palliative rientrano in questo raggio d’azione.

Mi piace la frase: «L’equilibrio tra accanimento e abbandono è delicato, i medici dovrebbero assimilare il concetto che “rinunciare non è sempre un male”; in molti casi può essere una scelta conveniente per quella persona […] una rinuncia può essere una scelta positiva, consapevole e rispettabile. Magari, l’unica accettabile per quel paziente».

Sugli screening di prevenzione non mi trovo invece molto d’accordo. Sono una persona che cerca di condurre uno stile di vita sano ed equilibrato, di fare tutto quello che è nelle mie facoltà per mantenere l’equilibrio del  corpo, in uno stato di benessere fisico, psichico e sociale che so bene non essere completa assenza di malattia. Insomma, credo che dobbiamo volerci bene, e fare il possibile per onorare questa impalcatura che ci è stato offerta, proprio come un dono. So bene che questo non mi esonererà da problemi futuri, che potrò ammalarmi anch’io di patologie i cui fattori favorenti ho cercato di scansarli n tutti i modi, ma almeno potrò dire alla fine della storia di aver fatto del mio meglio, cercando e scegliendo la strada dell’amore e del rispetto. Per questo mi sottopongo volentieri agli screening, forse come testimonianza e valutazione del mio impegno. Ovviamente pagandoli non tolgo spazio e tempo a nessun altro che può avere più bisogno di me.

Ma condivido l’ osservazione dell’autore: «Uno screening è utile quando all’aumento del numero di diagnosi corrisponde una riduzione della mortalità per quella patologia[…] lo screening è invece inutile quando svela patologie irrilevanti. La mortalità non varia anche se i tumori vengono scoperti e trattati. Lo screening è addirittura dannoso, quando all’aumento della diagnosi, non corrisponde una mortalità specifica».Il problema a questo punto è: «Ma come facciamo a sapere a quale delle tre categorie apparteniamo?»

Concordo sull’idea che ci sono davvero troppi conflitti d’interesse e ritorni economici che fanno muovere il mercato della sanità, ambito in cui non dovrebbero proprio mettere il naso.

Sul tema degli sprechi quanta verità, e non solo nell’ambito della sovraprescrizione e sovratrattamento!

Insomma per concludere anch’io la mia analisi, più che una recensione, sottolineo di nuovo i punti di forza di questa nuova concezione di approccio alla medicina e termino con questa citazione a parer mio riassuntiva ed esauriente: « Il compito del medico, che dispone di un numero sempre crescente di strumenti, è anche quello di capire quando è meglio attenersi alle regole generali, quando deviare e addirittura quando consigliare di non procedere […] la non- cura è tanto efficace quanto la cura». E ancora:« non ci possiamo illudere che la medicina garantisca lo stato di perfetta salute, ma aspettarci che riduca il più possibile lo stato di malattia senza provocarci altri problemi».

Da questa riflessione si capisce quanto è importante il rapporto di fiducia tra medico e paziente e il dialogo volto a captare i desideri, valori, la volontà della persona, ciò che è giusto per lei.

Un libro ben scritto, dettagliato, corredato di casi e studi clinici a supporto delle teorie dell’autore.

Concludo con le parole appropriate, quelle che vorrei risuonassero come un’ eco per chi è arrivato fino in fondo a queste righe e che sono la sintesi di tutto questo mio lungo discorso:

 Sobrietà, Rispetto e Giustizia, tre parole ma un mondo immenso intorno.

 

 

Troppa medicina - Un uso eccessivo può nuocere alla salute di Marco Bobbio (ed. Einaudi 2017)

07 maggio 2024

IL RIFRULLO DEL DIAVOLO di Andrea Improta

 


Il Rifrullo del Diavolo è un romanzo che definire “giallo” sarebbe davvero riduttivo. Vero che ha tutte le peculiarità per catalogarlo nel genere – c’è un femminicidio, un assassino, un commissario, un’ indagine in corso – ma c’è molto di più a mio parere, sconfinando, in territori che lo accomunano anche ad altre tipologie di narrazione, “rosa” per il bisogno inesauribile di amore dei personaggi, “rosso” per le note piccanti ed erotiche, “noir” per l’impronta grottesca e truce di alcune ambientazioni e situazioni, realtà purtroppo sempre più attuale. Insomma si potrebbe definire un’opera davvero completa, capace di soddisfare anche il lettore più esigente (come me che non amo le note particolarmente gialle e noir) avvalendosi del genere che più predilige.

L’aspetto assai peculiare del libro è che l’autore ci svela già all’inizio l’omicida, ma la cosa ancor più sorprendente è che nonostante la rivelazione, la tensione non manca, anzi aumenta man mano si procede nella lettura. Forse perché, come dicevo poco prima, il romanzo non è solo basato sull’aspetto investigativo, ma su una narrazione che si avvale di altri elementi importanti, quali l’intreccio e l’attrattività della storia legata all’ottima strutturazione dei personaggi (tanti e sapientemente ideati), alla fluidità dialogica, e non per ultimo all’ambientazione, Firenze che fa da sfondo in maniera sublime alle complesse vicende umane.

Giulia, una ragazza venticinquenne viene trovata uccisa nel proprio appartamento, riversa nuda sul divano, palesemente violentata e maltrattata. Marco Manfredi, commissario di Polizia Giudiziaria di Firenze, conduce il caso non facile, in quanto man mano che l’indagine prosegue, affiorano sempre nuovi fantasmi nel vissuto della ragazza, aprendo piste e possibilità ulteriori.

Accompagnano l’investigazione le storie d’amore e passione delle due coppie protagoniste: Manfredi e Alice alla ricerca continua di serenità e amore, quello che condivide il caffè del mattino, le facce assonnate e non solo il letto; e di Sauro e Martina, pedine secondarie ma non meno importanti in questo complicato gioco di delitto, amore e passione.

Non aggiungo altro per non togliere al lettore il gusto della scoperta. L’autore, Andrea Improta che ho il piacere di conoscere, ha la grande capacità di sapere scegliere le parole e collocarle nel punto giusto, di attribuire loro spessore e significato, rendendole verità e restituendo suggestione ed emozione. Ciò che sanno fare i bravi scrittori.

Una prosa ricca di dettagli del panorama umano e quotidiano, fluida e trascinante, come una musica che si armonizza col respiro dell’ascoltatore, tanto che si arriva alla fine stupiti da come abbiamo divorato tutte quelle pagine, senza accorgerci del tempo trascorso.

E il titolo? Cos’è il Rifrullo del Diavolo e cosa c’entra con questa storia?

Confesso, anch’io non conoscevo la leggenda, è stata una piacevole sorpresa. I “più” fiorentini sicuramente la conoscono, agli altri non resta che leggere il libro.

 

“Il rifrullo del diavolo” ( ed. Incipit23 – 2022)

01 maggio 2024

LE RAGAZZE DI SANFREDIANO di Vasco Pratolini

 

Leggere “Le ragazze di Sanfrediano” più che una lettura, è un’esperienza virtuale nel quartiere di Sanfrediano nel dopoguerra, in una nazione appena liberata dal fascismo, animata e sostenuta dagli ideali partigiani, di libertà, democrazia e giustizia sociale. San Frediano è il rione Diladdarno, dove la vita scorre frenetica nelle strade e nei vicoli, nelle botteghe artigiane, sulla soglie delle case, tra schiamazzi di ragazzini e massaie che dialogano dalle finestre spalancate delle abitazioni, tra il frastuono delle motociclette e i rintocchi  delle campane del Cestello che scandiscono le ore.

Bob, il cui vero nome è Aldo Sernesi, ma che si fa chiamare Bob per la somiglianza con il divo Robert Taylor, fa strage di cuori nel quartiere «che è tutta la sua vita, una riserva di caccia tutta sua particolare». Le ragazze - Gina, Bice, Mafalda, Silvana, Tosca e Loretta - gli corrono dietro come api al miele, e lui, intreccia una relazione con ciascuna di loro, «perché le ragazze rappresentano il suo vero sport, la sua arte, e la sua religione» pronto però a dimenticarsene non appena la ragazza in questione esce dal suo campo visivo. Bob sembra sincero quando dichiara il suo amore, sente di amarle tutte e nessuna, ma non sa decidersi a scegliere «poiché Bob, ormai, si riteneva dotato di un’immensa riserva di affetto che una sola donna sarebbe stata incapace di accettare e esaurire».

Ma le ragazze di Sanfrediano non si lasciano incantare, sono donne determinate e orgogliose, «non prendono i rifiuti di nessuno», ognuna col proprio carattere e peculiarità, con l’impronta genetica della resistenza proverbiale del rione saprà, unita con le altre per giusta causa, dare la meritata lezione al presuntuoso damerino.

Ecco allora interi capitoli dedicati a ciascuna di loro: Tosca «una creatura che la vita dovrà ingegnarsi per riuscire ad umiliarla, e forse non ci riuscirà»; Gina snella, piacente [… ]con quella gentilezza di modi che se non era più innocenza, era tuttora il suo carattere e la sua virtù»; Mafalda la rossa, «dal corpo solido e plebeo» risoluta e intraprendente; Bice «quieta, credula, ottimista, incapace di sentimento assaltante come di un affetto eroico e di un sacrificio meditato, squisitamente femminile, limitata e paziente»; Silvana «manidifata» la contesa; Loretta ultima arrivata, che nonostante il recente innamoramento, non si tira indietro per seguire le altre.

Protagonista in questo romanzo, come già altri hanno individuato, non è soltanto Bob intorno al quale si tesse la trama, ma le tutte donne e soprattutto il quartiere.

Un messaggio di solidarietà femminile che emerge a risoluzione di questa scrittura fortemente scenica (dal quale è stato tratto il film di Valerio Zurlini che per l’occasione mi sono rivista) e che si afferma in modo rudimentale e grezzo, a dimostrare l’emancipazione femminile e la  parità dei diritti di genere. Ma non solo aggiungerei, soprattutto il diritto al rispetto e alla dignità della persona.

Una prosa popolare, dai termini e detti “fiorentini”, testimonianze di tradizione e costume, che hanno risuonato in me (…non m’è rimasto attaccato neanche un’ugna, mi gingillo, …ha corso la cavallina, …è tanto che mi struggo,… un pirulino, …una sugna,… una mezzasega, …togliere l’olio dai fiaschi) e che colorano e arricchiscono il testo, lo animano, rendendolo vero e appetibile.

Un libro meno impegnativo rispetto ad altre sue opere, ma che ogni fiorentino (e non solo) dovrebbe conoscere, per apprezzare e ritrovare i sapori, odori, suoni di un tempo nemmeno tanto lontano che ha fatto la nostra Storia.

«Le ragazze di Sanfrediano» di Vasco Pratolini (ed. Bur Rizzoli 2011)


27 aprile 2024

LE CAMPANE DI BICÊTRE di Georges Simenon

 

Come può sentirsi un uomo all’età di cinquantaquattro anni, direttore di un importante giornale parigino, nel pieno della sua attività lavorativa, sociale e affettiva, che all’improvviso si ritrova in un letto di ospedale, in un corpo che non risponde più ai comandi, costretto a una dipendenza fino allora sconosciuta, in balia di una schiera di persone che pensano, decidono e agiscono in vece sua, convinti di conoscere la sua volontà?

Ce lo spiega molto bene Georges Simenon in questo suo romanzo datato 1963, in cui ancora una volta ci delizia con la sua narrativa accattivante e coinvolgente, capace di sviscerare e captare il moto anche più sottile e recondito dell’animo umano, questa volta nell’autoanalisi di un uomo malato.

Renè Maugras, persona influente, giornalista affermato a livello nazionale, durante la cena con il gruppo di amici abituali (anch’essi personaggi di spessore nell’entourage parigino) viene colpito da un ictus nella toilette del ristorante. Si risveglierà in seguito in clinica, constatando l’ inevitabile realtà che non è più come prima, che non può muoversi, parlare, interagire, attaccato a una flebo di glucosio che lo alimenta al posto del suo apparato digerente. La sua mente capisce tutto e capisce anche molto bene che gli altri parlano per lui, si sostituiscono a lui, alle sue parole, pensieri, sentimenti e perfino emozioni. Chi sono per arrogarsi tale diritto? Come mai sono così sicuri di sapere quello che lui sta provando? Lo conoscono davvero tanto bene? Questi e altri interrogativi popolano il romanzo, che si muove alla continua ricerca di una spiegazione, di un senso, di una o molteplici realtà che ruotano attorno alla vita di quest’uomo.

Ecco allora che dalla forzata pausa di inattività fisica nella sua camera di degenza, germoglia un’intensa attività mentale ed emotiva, che porta Maugras a catturare anche il più piccolo dettaglio, a soffermarsi su ogni singola azione compiuta dagli altri, a prestare attenzione a quel microcosmo in cui è costretto a vivere (e che in fondo non gli dispiace), che nella sua limitatezza nasconde verità mai viste o immaginate.

Nel letto d’ospedale il suo ruolo di direttore, la sua autorità e autorevolezza, pur essendogli ancora riconosciute, cambiano tonalità, espressione, dovendosi riadattare alla nuova condizione: « (i medici) si rivolgono a lui come a un essere umano […] è anche vero che, contemporaneamente, lo trattano come un oggetto». Si perché la malattia lo ha catapultato in un’altra dimensione adesso, «lui ha superato una barriera invisibile e adesso si trova in un altro universo», un universo in cui non si sente più un soggetto con autonomia operativa e decisionale, ma un essere la cui sopravvivenza adesso dipende da altri, dai medici che si occupano della guarigione, dalle infermiere che lo vigilano e assistono nei suoi bisogni, notte e giorno.

Interessante è il suo pensiero da emiplegico, antitetico al precedente di persona sana, che poi è ciò che fa cadere in errore tutti coloro che gli stanno attorno, «che vogliono pensare al posto suo» mentre «Come potrebbe spiegar loro che lo disturbano, che lui è rassegnato, che non ha bisogno d’incoraggiamenti, che quello che gli succede doveva succedere, e che lo accetta, anzi gli dà sollievo …». Per questo anche i tentativi dell’infermiera, la signorina Blanche, di distrarlo dalla presunta angoscia non lo interessano. È soltanto una forma di inganno che lui non gradisce.

In questo romanzo, sebbene datato, emerge forte l’aspetto del rapporto medico - paziente, e quanto spesso sia difficile la componente relazionale della cura, il mettersi a fianco della persona in ascolto, per capire ciò che davvero sente, prova, vuole e questa interessante domanda retorica ne esprime appieno il senso: «Per certi medici il sogno non sarebbe la malattia senza il malato?».

«Medici e specialisti hanno una visione ristretta del problema», per questo non vedono la realtà nella totalità, non si sforzano di capire la volontà del paziente, e proprio come un oggetto, lo escludono dai loro sguardi come se quello che sta accadendo in lui non lo riguardasse.

La malattia interrompe un cammino idealizzato, cambia le regole del gioco, con l’annuncio di una diagnosi «si diventa un malato che non vedrà mai più la vita sotto la stessa luce».

Ma la malattia per Renè è anche occasione di riflessione, la maniera di rallentare, di fare chiarezza, di interessarsi agli altri «di cui sente il bisogno di raschiare via la superficie, convinto, se ci riesce, di arrivare a vedere più chiaro in se stesso».

Ecco allora l’analisi del rapporto con la moglie Lina, alla ricerca continua di sicurezze e serenità che solo l’alcool sembra concederle momentaneamente; con la figlia disabile, l’unica che sa affrontarlo da pari, capace forse di capirlo meglio di tutti gli altri; con gli amici più intimi con i quali adesso disprezza la compagnia; con il professor Besson, l’amico medico che vuole ricacciarlo in fretta nel mondo di prima; col suo collaboratore, così imbarazzato quando viene a trovarlo, da parlare ininterrottamente, per non lasciare spazi vuoti al suo silenzio.

Tutti lo spronano a collaborare, perché è forte e il ritorno alla salute di un tempo dipende da lui. Ma è davvero così scontato e ovvio che un uomo malato anche se curabile, voglia guarire in fretta? Ciò che gli altri pensano e credono giusto per lui  è verità universale e soprattutto coincide sempre con ciò che è bene per la persona? Ancora una volta volontà, desideri, tempistiche, aspettative non sono quelli del malato ma del sistema che vi gira intorno.

Un taccuino, sul quale annota ogni giorno non senza difficoltà anche solo una parola, gli sarà di aiuto in questa fase di ricerca di comprensione.

Un libro indimenticabile che metto in cima alla lista delle scritture dell’autore, forse perché parla del mio mondo professionale, della malattia, della cura e assistenza, del non facile percorso di recupero della salute, il tutto permeato da un’intensa narrativa introspettiva, capace di sciogliere nodi per permettere la ripresa dell’imprevedibile  e incredibile viaggio chiamato Vita.

Un’opportunità per tutti i lettori - grazie al personaggio di Renè divertente e stimolante che riesce nella tragicità a strapparci sempre un sorriso o una risata -, di immedesimarsi in una situazione di infermità invalidante, di avvicinarci alla malattia senza disperazione ma con lucidità, come un cambiamento (fisico, mentale, spirituale) e sicuramente come possibilità di crescita e di evoluzione.

Le campane di Bicêtre” di Georges Simenon ( Adelphi Edizioni 2009)

18 aprile 2024

OSCAR E LA DAMA IN ROSA di Eric - Emmanuel Schmitt

 

«La vita è uno strano regalo»

Perché è tanto difficile relazionarsi in maniera empatica con un bambino di soli dieci anni, affetto da una forma di leucemia che non risponde alle terapie, e che a breve lascerà il suo posto letto a un altro piccolo paziente con la speranza di una diagnosi migliore? È per il fatto, forse, che troviamo innaturale, ingiusta e violenta una tale condanna sulla testa di un innocente? È davvero così impossibile parlare e rispondere con sincerità a domande che desiderano risposte autentiche, anche se dolorose, dettate da un’incredibile e straordinaria autoconsapevolezza?

Per Nonna Rosa non lo è, anzi, le viene proprio spontaneo affrontare il problema di petto, come faceva un tempo, quando era una lottatrice di catch ed era soprannominata la Strangolatrice del Languedoc. È per questo che Oscar la preferisce agli altri adulti (medici, infermieri e gli stessi genitori) che lo fanno sentire inadeguato, frustrato e deluso per non rispondere bene alla terapia, per non riuscire a guarire nonostante i loro sforzi e tentativi. Eppure «La malattia è come la morte. È un fatto. Non è una punizione».

Gli adulti eludono le sue domande, non sorridono, non giocano, fingono, sempre nascosti dal velo della serietà, che gli restituisce solo pena e tristezza.

«Ma perché non mi dicono semplicemente che morirò?» si chiede Oscar. È davvero incredibile la lucidità di questo  ragazzino, che come un adulto sa porsi grandi domande e darsi anche grandi risposte: «Se dici morire in un ospedale, nessuno sente. Puoi star sicuro che ci sarà un vuoto d’aria e che si parlerà d’altro».

Sì, non è facile parlare della propria morte con una persona adulta, figuriamoci con un bambino! Ma se sappiamo metterci a fianco della persona e la si sa ascoltare, ecco che avviene il prodigio ed escono fuori immense verità.

Oscar è intelligente, sente che la morte gli è vicina. Disprezza le persone che lo allontanano dai suoi pensieri, che gli negano una realtà evidente e ineluttabile. Il fatto di essere in ospedale con una malattia incurabile ne è la conferma: «Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire» e la frase di Nonna Rosa pur nella sua durezza, lo sostiene: «Dimentichiamo che la vita è fragile, friabile, effimera. Facciamo tutti finta di essere immortali».

Ma la dama in rosa non si limita solo a sostenerlo nella triste scoperta di verità infauste, gli fa dono di una strategia che gli permette di continuare a vivere con gioia, curiosità e sorpresa. Gli propone un gioco: «A partire da oggi, osserverai ogni giorno come se ciascuno contasse per dieci anni» in modo che Oscar possa vivere ogni fase della vita, le turbolenze e le gelosie dell’adolescenza, l’innamoramento, il matrimonio, la maturità, l’abbandono e la vecchiaia, concentrando il suo tempo, dandogli valore non in termine quantitativo ma di qualità.

Nel fine vita, la spiritualità, che può coniugarsi nella fede, religione o semplicemente nella speranza, assume un posto di rilievo assoluto. Per questo Nonna Rosa esorta Oscar a tenere un diario, o meglio a scrivere lettere a Dio «per sentirti meno solo». 

«Bisogna distinguere due pene, Oscar, la sofferenza fisica e la sofferenza morale. La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si sceglie» è così che gli apre le porte a quella visione spirituale in cui sottolinea in maniera metaforica l’importanza della scelta: «All’idea di morire, non sei obbligato ad avere male. Non sai che cos’è. Dipende dunque da te». Parole così semplici che anche un bambino può capire ma tanto difficili per la maggior parte delle persone che non vogliono capire e affrontare l’argomento del fine vita.

Ma cosa è che ci fa più paura? L’ignoto o la perdita delle persone che amiamo?

Ci risponde proprio Oscar prima di compiere “i suoi cento anni”: «Bisogna sempre conservare la speranza».

E visto che morire è inevitabile per tutti, qual è il miglior modo per accettarlo? Ancora una volta è sempre lui a illuminarci.

«Quello che penso io , Nonna Rosa, è che l’unica soluzione per la vita sia vivere» o come invece Dio ci rivela in segreto: «Ogni giorno guarda il mondo come se fosse la prima volta».

Un piccolo libro con grandi verità, toccante, coinvolgente, commovente (lo ammetto, alla battuta finale ho avuto un groppo in gola e le lacrime), un modo semplice e diretto per parlare di un tema tabù, che evitiamo, esorcizziamo per allontanarlo dalla nostra vita, mentre come ci insegna Oscar, sarebbe proprio l’inclusione e la consapevolezza della propria morte a renderci più vivi, aperti e curiosi alla vita. 

“Oscar e la dama in rosa” di Eric-  Emmanuel Schmitt ( ed. Bur 2005)


31 marzo 2024

LA CURA di Hermann Hesse

 


«Perché la vita non è un conto o una figura matematica, ma un prodigio»

Già in questa frase così incisiva, si può ben intuire il valore de “La cura” di Hermann Hesse, scritta nel 1925, successiva di pochi anni a “Siddartha”, in cui l’autore esplora, sebbene in maniera assai diversa, le tematiche a lui care.

La cura”, romanzo breve ma di un’intensità straordinaria, può considerarsi anche una sorta di diario - appunti di un soggiorno presso Baden in una lussuosa stazione termale, che lo scrittore cinquantenne si concesse per le cure di una sciatalgia - per la scrittura intima, riflessiva, introspettiva, che come un flusso di coscienza si sviluppa e si mantiene costante in tutta la narrazione, con un sottotesto che ci rivela l’intento dell’autore, di non lasciare il manoscritto chiuso in un cassetto, ma destinarlo a un lettore, ai suoi lettori, per la chiarezza nell’esporre, spiegare, analizzare i pensieri che sgorgano impetuosi dalla sua mente vivace e curiosa.

Un percorso di cura, volto al benessere del corpo, della mente e dello spirito, occasione per riflettere e approfondire attraverso gli aspetti del quotidiano, il suo “sentire”, i moti dell’ anima irrequieta e smaniosa, alla ricerca continua delle verità. Hermann Hesse è un chirurgo del corpo e dell’anima, seziona, sviscera, esamina ogni sentimento ed emozione per capire e per capirsi. Ecco allora le analisi accurate sulla sua apatia mattutina, sull’insonnia con la quale convive da anni, sulla sua indole solitaria, sulla trappola del piacere scaturito dal cibo e dal gioco, sulle asserzioni del cinematografo e della musica frivola, sul consumismo imperante che schiavizza l’umanità inventandosi futili necessità … su una foglia secca entrata al volo dalla finestra «di cui respiro lo straordinario memento della caducità, che ci fa rabbrividire ma senza il quale non ci sarebbe nulla di bello».

E qui si riallaccia la sua visione dualistica dell’uomo stesso, il suo essere buono e cattivo, virtuoso e vizioso, ordinato e caotico, assennato e folle,… nel continuo oscillare tra materialismo e idealismo, perché non può esistere niente di assoluto e perfetto, «che un uomo, per tutta la vita, possa venerare sempre lo spirito disprezzare sempre la natura, essere sempre rivoluzionario e mai conservatore o viceversa, mi sembra, sì, una gran prova di virtù, di carattere e di fermezza, ma mi sembra anche, e non meno, una cosa esiziale, folle e ripugnante, come se uno volesse sempre solo mangiare o dormire».

Un dualismo che non può esistere ed esprimersi senza la coscienza dell’ unità, come riconciliazione, ritorno, redenzione: «Noi non possiamo credere alla fine nel senso di distruzione ma solo nel senso di metamorfosi […]Nessun’altra idea mi è più sacra di quella dell’unità, l’idea che l’intero cosmo è una divina unità e che tutto il dolore, tutto il male consistono solo nel fatto che noi, singoli, non ci sentiamo più come parti inscindibili del Tutto, che l’io dà troppo importanza a se stesso».

Hesse indirizza il suo“occhio cosmico” alla ricerca di quell’unicità che nasce dalla molteplicità della realtà, «sotto il cui sguardo non c’è più nulla di piccolo, di sciocco, di brutto, di malvagio, ma tutto è santo e venerabile». E questa realtà non è altro che la Natura stessa, che ci salva dall’artificio e dall’illusione. Niente di più vicino anche al mio sentire.

L’ovvio diviene straordinario, in un continuo dialogo con se stesso, sulla nostra ineluttabile transitorietà: «È meraviglioso come la bellezza e la morte, il piacere e la caducità si esigano e si condizionino a vicenda!».

Anche il dolore, questa esperienza invisibile, multifattoriale, non quantificabile, quasi impossibile da descrivere, da dimostrare, acquista per lui un valore diverso se contrapposto al piacere, e che sembra addirittura alleggerirsi se condiviso con gli altri.

La cura è perciò non solo finalizzata al miglioramento fisico e mentale, ma soprattutto alla consapevolezza che la malattia deve avere un posto marginale nella vita di una persona.

«Il paziente Hesse, grazie a Dio, è morto e non ci riguarda più. Al suo posto c’è di nuovo un Hesse del tutto diverso: anche questo con la sciatica, ma ora la possiede anziché esserne posseduto».

La malattia non si combatte ma la si vive, facendosela compagna di viaggio e non protagonista assoluta di vita. «Io abbandono la malattia a se stessa, non sono mica al mondo per farle la corte tutto il santo giorno».

Perseguire la salute totale quando gli anni avanzano e gli acciacchi si sommano è un utopia, e Hesse lo dice chiaramente «Preferiamo soltanto guarire a metà, ma vivere in cambio in modo un po’ più piacevole e divertente, noi non siamo giovinetti che pretendono l’assoluto da se stessi e dagli altri, ma persone anziane, profondamente implicate nei condizionamenti dell’esistenza e perciò abituate a lasciare un po’ correre. No, non vogliamo essere perfettamente guariti, non vogliamo vivere in eterno» Un pensiero sorprendentemente attuale, considerando che è datato un secolo.

Una lettura che continua a risuonare anche a libro chiuso, che vede il segreto di tutta la felicità racchiuso nell’ equilibrio dell’amore « possibilità di amare senza restare in debito ora in questo, ora in quello, un amore di se stessi che non ruba niente a nessuno, un amore per gli altri che però non diminuisce né violenta il nostro io!».

Un libro pieno di pillole di saggezza - che non ho potuto fare a meno di citarle di nuovo e commentarle, perdonatemi - un’ottima “cura” per coloro che hanno voglia di interrogarsi e di riflettere su ciò che veramente conta.