23 agosto 2024

PIOGGIA NERA di Georges Simenon

 

Inserire tra le letture programmate un libro di Simenon è una strategia sempre vincente, un modo piacevole e appagante di rilassare la mente tra generi e stili diversi. Anche Pioggia Nera non ha tradito l’ assioma personale e soprattutto le mie aspettative.

Ambientato nella Normandia di metà secolo scorso, Pioggia nera ha il sapore, profumo e colore  ̶  per le atmosfere cupe e buie  ̶  del romanzo gotico, senza esserlo.

Il romanzo è una narrazione nella narrazione, perché è il protagonista adulto che rievoca con la madre una storia del passato: la caccia all’uomo, un anarchico, padre dell’amico Albert, abitante la casa di fronte. Narrato dal punto di vista di Jérôme ragazzetto di sette anni, si apprezza tutta la freschezza, ingenuità, bontà tipiche dell’età, unite al suo acume, intelligenza e sensibilità. Affacciati anche noi alla finestra a mezzaluna del suo appartamento, dove il piccolo ama trattenersi e giocare con la fervida fantasia della sua mente e il suo sguardo innocente, ascoltiamo le chiacchiere della madre con le clienti nella bottega di stoffe al piano inferiore, partecipiamo alla vita del mercato in strada, intuiamo chi e cosa si muove dietro le tende bicolori della casa dell’amico e di sua nonna, la signora Rambures.

Un fantastico mondo immaginifico turbato dall’arrivo della zia Valérie, un’imponente, superba e ingombrante figura che si inserirà nella vita regolare della famiglia Lecœur e che stravolgerà ogni abitudine e certezza del ragazzino.

Una storia dalla trama semplice ma piena di buon sentimento, una scrittura magistrale, essenziale e precisa, una lettura che coinvolge e appassiona, marchio di garanzia dell’autore.

“Pioggia nera” di Georges Simenon ( ed. Adelphi  2002)

18 agosto 2024

VORTICI di Marco Mannucci

 

Premetto, sono di parte nel recensire “Vortici”, perché conosco lo scrittore  ̶  ho già apprezzato le sue capacità letterarie nei racconti e in “Ai tempi del Biondo” ̶  conosco il medico, ma soprattutto conosco la persona. Marco Mannucci, una volta incontrato non lo si dimentica, grazie alla sua affabilità, gentilezza ed empatia. Ciò vale anche per la sua scrittura, altrettanto avvolgente, espressiva ed elegante dalla penna precisa, corretta, pulita.

Veniamo al libro, e cercherò di non spoilerare, pur parlandone.

Rocco Mazzoni , protagonista del romanzo, è un uomo di umili origini, ex poliziotto, sposato con figli, dall’indole semplice e moderata (all’apparenza) ma un vulcano di pensieri, sentimenti ed emozioni. Fiorentino “adottato” come ama definirsi, ma ugualmente innamorato della Città come ogni cittadino nativo.

L’autore, con maestria e dovizia di particolari, introdurrà noi lettori nella sua vita; al suo fianco vedremo i luoghi abitati dalla sua infanzia, maturità e poi vecchiaia; percorreremo insieme le strade della Firenze rinascimentale, le viuzze di acciottolato, ci fermeremo a chiacchierare nei bar rionali; passeggeremo sulle colline di Firenze, sconfinando anche oltre la Toscana, fino al lago di Bracciano; vivremo storie di amore, affetti, amicizie ritrovate e poi perdute; conosceremo il suo mondo interiore, pensieri, dubbi e paure alimentate da un virus crudele che sta mietendo vittime; entreremo nel suo cuore, pieno di amore ma anche di tanta nostalgia, ricordo di un tempo che non potrà più tornare.

Un viaggio nella Firenze e dintorni, arricchito da una miscellanea di profumi, sapori, suoni, sensazioni tattili unite a descrizioni minuziose che ci calano in maniera realistica nei luoghi menzionati.

Una storia costruita sulle relazioni umane, sui valori dell’amicizia, dell’amore e della famiglia, valori immortali, fondati sul rispetto condiviso. Non manca l’amore per la Viola, molto più di una semplice passione sportiva, ma un’ ulteriore conferma di solidarietà con la Città stessa.

Ma cosa sono i vortici da cui il libro prende il titolo? Mi piace interpretarli come tutte le circostanze impreviste (e nel romanzo non mancano), quelle che con l’irruenza e la forza di un tornado, travolgono e stravolgono la vita di ciascun essere umano, risucchiandolo e trasportandolo in un altrove non scelto. Purtroppo, a volte sono davvero tante e inimmaginabili: compito di ognuno è ricercare comunque la strada che riporta a casa.

“Vortici” è una lettura che rimane dentro per l’intensità dei sentimenti espressi, una prosa dove il passato e il presente si alternano con continui flashback e flashforward, ricca di similitudini, metafore e ossimori nel raccontare in modo originale una realtà “creata”, con un linguaggio appropriato, luminoso e raffinato. Il risultato: una narrativa che profuma di poesia. 

05 agosto 2024

UNA FAMIGLIA LEGGERA di Maria Pia Perrino

 

Rosa, protagonista del romanzo, donna semplice e indipendente, vive precocemente il lutto del marito per un incidente stradale. La sorte benevola le ha lasciato in grembo il suo seme che le farà dono, dopo nove mesi, di una splendida bimba, Eva. Nel romanzo seguiremo la sua crescita, dall’infanzia, adolescenza fino al suo essere donna. Ma Rosa, dal rapporto con Renzo, ha ereditato anche una grande amicizia, quella di Marta e Arturo, una coppia che non la lascerà mai sola e vivendo sotto lo stesso tetto condividerà la routine familiare, nella buona e cattiva sorte. I quattro cresceranno insieme, rappresentando una vera e propria istituzione familiare, anche se diversa, “leggera” appunto, perché non vincolata dagli obblighi della consanguineità ma solo da sentimenti spontanei di affetto, amore e benevolenza.

Non mancheranno anche nell’insolita routine, colpi di scena, repentini cambiamenti, svolte improvvise, come si conviene nell’arte del romanzo, momenti di gioia e tristezza tutti ben ponderati e superati alla luce di un grande e profondo amore per la vita stessa.

La famiglia “leggera” è tutt’altro che superficiale, ma una modalità diversa e nuova di interpretare il legame affettivo nel nucleo più prossimo e intimo identificato solitamente nella parentela tradizionale.

Una lettura che procede spedita per la fluidità, appropriatezza e piacevolezza del linguaggio, costruito con frasi e periodi brevi che come foto istantanee, mostrano la narrazione.

Un libro che, come anche il titolo riporta, si legge con leggerezza, motivo ricorrente nella storia, che non significa affatto superficialità, ma una maniera appropriata giusta e intelligente di approcciarsi e interpretare la realtà.

Una lettura che consiglio, in spiaggia o sotto l’ombra di un albero, all’alba o al tramonto, per lasciarsi trasportare dal sentimento e dall’ emozione, per alleggerire e rinfrescare queste giornate super afose.

Una famiglia leggera” di Maria Pia Perrino ( Ed. Scatole parlanti 2023)

22 luglio 2024

IL BABBO DI PINOCCHIO di Paolo Ciampi

 

Siete proprio sicuri di conoscere il babbo di Pinocchio, il burattino più famoso nel mondo, dal naso “animato” ogni volta che diceva una bugia? Non fate il mio stesso errore credendo si parli di Geppetto, il povero falegname che lo modellò da un pezzo di pino. Sicuramente anche lui, ma in questo libro il babbo di Pinocchio è Carlo Lorenzini, per tutti Collodi e credo proprio che (come me) dopo averlo letto vi renderete conto di quanto poco ne sapevate.

Ce lo descrive molto bene l’autore, nel suo cilindro calcato sul cranio calvo, in abito elegante, gambe incrociate, mani infilate sul panciotto [… ] l’aria  di chi sarebbe propenso al dolce far nienteun pigro indaffarato», seduto su una panchina ad osservare la sua Firenze, « la  città di Acchiappacitrulli» – come ripete più volte all’autore che gli si è seduto accanto –- « degradata, sporca, affollata di accattoni e poveracci. Eppure bella».

È la notte di San Lorenzo, notte magica di stelle cadenti, e tutto può accadere passeggiando per la città festeggiante e affollata di turisti. Anche di incontrare un uomo così speciale.

I due iniziano una conversazione fitta e concitata alternando «silenzi e discorsi che aspiravano alla reciproca sottomissione» aggrovigliando le riflessioni per poi recuperare « il filo della matassa». Non mancano le affinità, punti di incontro e argomenti di interesse comune, fra cui la professione, il legame con la città e l’amore per le parole, « parole che cambiano il corso degli eventi».

E fra una bevuta di birra e un’altra, gli autori si raccontano.

 Carlo Lorenzini, «per tutti  Collodi» narra di sé, delle sue umili origini a fianco della nobiltà, della sua “indolenza” rispetto al fratello Paolo invece più determinato ed equilibrato, del suo lavoro di giornalista, della sua ideologia patriottica … Si scopre in questo dialogare, il vero Lorenzini, un uomo di grande humour, amante dell’alcool e del gioco, « uomo di sfumature, linee d’ombra, confini incerti».

Non mancano le riflessioni e le battute su Firenze e i fiorentini, la Firenze capitale del suo tempo e quella contemporanea, città vetrina affollata di turisti che si abbuffano nei punti ristoro di cui la città è piena o in fila sotto il sole cocente per ammirare i capolavori del Rinascimento, incapaci di abbracciare con lo sguardo la vera bellezza della città. O come puntualizza Carlo Lorenzini stesso: «Una città, dove ogni casa ha la sua eco e le mura filtrano voci. Dove tutti sembrano sapere di tutto e presumono di poterlo raccontare a modo loro. Dove due terzi delle cose si sanno e l’altro terzo si tira a indovinare, ed è quello che davvero conta».

 Non mancano tanti aneddoti, verità e curiosità legati ai luoghi e ai personaggi che li abitano – vera e propria peculiarità stilistica dell’autore – che riescono sempre a meravigliarci.

Un libro indispensabile per conoscere davvero Pinocchio, perché senza la conoscenza del suo “babbo” si apprezza solo in parte il valore dell’opera. E poi c’ è quel nome, Collodi, uno pseudonimo che gli ha portato fortuna certo, ma che suona alle sue orecchie come una condanna, un velo destinato a celare  in modo indelebile la sua vera identità..

Una lettura semplicemente deliziosa, colloquiale – scritta in seconda persona –  scorrevole come acqua dell’Arno, in cui noi lettori come silenziose farfalle abbiamo il privilegio di assistere e seguire i due scrittori nel loro viaggio per vivere la stessa magica avventura, alla scoperta di curiose verità.

E se credete che vi abbia svelato troppo, niente di più sbagliato, c’è ancora molto da sapere, non per ultimo a chi è rivolta questa lunga e interessante chiacchierata.

Il babbo di Pinocchio” di Paolo Ciampi (ed. Arkadia 2023)

04 luglio 2024

MATTINO E SERA di Jon Fosse

 

«Oggi niente è com’è sempre stato, deve essere successo qualcosa, ma che cosa?».

"Mattino e sera," inizio e fine, nascita e morte, e nel mezzo la Vita.

Il protagonista del romanzo è Johannes, un uomo – marito, amante, padre, amico – che vive di pesca in un paesino della Norvegia, dove il rigido inverno spesso non mette cibo in tavola. L’autore è bravo a presentarcelo, svelandocelo con parsimonia; e lo fa attraverso i dialoghi (con la moglie, l’amico Peter, la figlia), i suoi pensieri e le descrizioni che fanno da caposaldo alla narrazione, illustrandoci un mondo interiore, una intimità e sensibilità così delicate e vere che sembra di vederle, toccarle per l’intensità in cui sono rappresentate. Si ripercorrono così gli eventi più significativi della sua vita: l’amore, la famiglia, gli affetti, le amicizie, il lavoro.

Una storia senza tempo o dove il tempo non ha tempo, perché si dilata e si restringe nell’infinità dell’essere.

Una scrittura dallo stile unico e all’apparenza complesso, tanto che non è facile all’inizio calarsi nella pagina e avviare quel processo di decodificazione della frase e del periodo senza l’ausilio di una punteggiatura (il punto nello specifico) a chiusura di un discorso, di un argomento. Incredibile come l’autore sia riuscito alla fine a regalarci un testo così appassionante, mantenendo la prosa comprensibile e sorprendentemente scorrevole (una volta entrati nel ritmo), anzi assai di più senza l’interruzione della punteggiatura. Una narrazione continua come un flusso di pensiero - in terza persona, dal punto di vista di Johannes - in equilibrio assoluto tra spazio e punteggiatura.

Una prosa pulita, essenziale e chiara. Una lettura “leggera” ma che nasconde una grande profondità di sentimento.

Un libro sulla vita, sul valore delle piccole cose.

Un libro sulla morte, sulla “buona morte,” quella che dà un senso alla vita come fine di un percorso di auspicabile e tranquilla serenità.

Un libro che apre le porte alla speranza: «Dove andremo adesso, non è nessun posto e per questo motivo non possiede neppure un nome […] Pericoloso è una parola, non esistono parole dove andremo […] Non esistono corpi dove andremo, quindi non esiste dolore […] Non esiste nessuna sofferenza, nessun tu e io dove andremo […] Non si sta né bene né male, ma è grande e tranquillo e vibrante e luminoso […] Tutto è uno e allo stesso tempo diverso, è uno eppure è proprio quello che è, tutto è diviso eppure senza divisione e tutto è tranquillo».

Una lettura che rimane attaccata alla pelle anche a libro chiuso e che penetra negli strati più profondi della coscienza, come un balsamo che evapora lentamente ma che rilascia le sue proprietà benefiche. Una lettura che fa riflettere sulla nascita e sulla morte, certezze uniche dell’esistenza alle quali nessuno può sottrarsi, restituendocele in tutto il loro valore intrinseco, in una dimensione di pienezza, gioia, serenità e dignità.

Un libro che tutti dovrebbero leggere per acquisire conoscenza e conferire la giusta connotazione all’evento più naturale e certo che è il fine vita.

“Mattino e sera” di Jon Fosse ( ed.La Nave di Teseo 2023)


23 giugno 2024

IL DOTTOR SEMMELWEIS di Louis- Ferdinand Céline

 

“Il pericolo di voler troppo bene agli uomini”

Una storia vera, di passione e dedizione, di coraggio e determinazione ma anche di incomprensione e ipocrisia, questa riportata da Céline (autore francese del Novecento) che si dedicò allo studio del personaggio tanto da farne argomento della propria tesi di Medicina.

Chi era Ignazio Semmelweis, uomo sconosciuto a molti?

Ce lo ritrae molto bene l’autore in questo piccolo libro, ripercorrendo passo passo la sua vita osteggiata e difficile. «Egli era di quelli, troppo rari, che possono amare la  vita in ciò che essa ha di più semplice e di bello: vivere. L’amò oltre il ragionevole».

Ignazio Filippo Semmelweis (1818-1865) –  medico ungherese, dedito alla Medicina e soprattutto alla cura dei suoi pazienti, uomo sensibile, audace e coraggioso, ostinato contro la stupidità degli uomini del suo tempo -  fu il precursore dell’antisepsi e della microbiologia, il primo “a toccare i microbi senza vederli” come dice Celine stesso. Pasteur cinquant’anni dopo ne scoprì l’esistenza, documentandola col microscopio.

 A Semmelweis si deve l’importante intuizione dell’esistenza di agenti mortali e dannosi (invisibili all’occhio umano), che attraverso le mani possono trasmettersi da un individuo a un altro. Nello specifico, S. capì che le morti eccessive delle puerpere ricoverate in ospedale erano correlate alle visite ginecologiche effettuate dai medici che con le stesse mani avevano toccato i cadaveri per le autopsie. Perciò capì l’importanza di “sanificarle”, attraverso un accurato lavaggio delle mani, impiegando cloruro di calce. Fu  schernito, deriso, ostacolato, tanto da essere etichettato “pazzo” e  allontanato dalla pratica clinica. Morì in grande sofferenza, per setticemia, dello stesso male scoperto, a causa di un taglio con un bisturi infetto.

Si prova tanta rabbia e indignazione di fronte a simili vicende, quando l’ottusità e l’ignoranza  unite al potere, non solo ostacolano le verità ma addirittura sono talmente letali da portare alla morte menti così eccelse.

Una narrazione fluida, quasi colloquiale, che ha il registro di una storia narrata al calore di un focolare.

Un grande omaggio che l’autore ha reso a un uomo tanto talentuoso quanto incompreso, dandogli memoria e spessore «perché le grandi opere sono quelle che risvegliano il nostro genio, i grandi uomini sono coloro che sanno dargli forma».

Il dottor Semmelweis” di Louis- Ferdinand  Céline ( Adelphi 1975)

22 giugno 2024

DIARIO DI UN DOLORE di C.S.Lewis

 

Diario di un dolore è un libro di interesse comune che tutti dovrebbero leggere, perché è pressoché impossibile nella vita di ciascuno di noi, non sperimentare il dolore, nonostante la sua soggettività. Il dolore come il piacere, fa parte del nostro quotidiano di esseri umani e sensibili, riveste un ruolo fondamentale e condizionante nel relazionarci con l’esterno, influenzando ogni sfera del nostro essere, fisica, mentale e spirituale.

Lo scrittore ha perso la moglie, il cancro se l’è portata via con sofferenze atroci. Questa opera, sotto forma di diario, partendo dal tragico evento, nasce come elaborazione della perdita, come risposta reattiva al dolore del lutto, della mancanza, nel tentativo di dargli forma, consistenza e valore, per poterlo superare forse, e dargli un senso, una connotazione..

L’autore però va oltre, riuscendo a penetrare il dolore e a descriverlo nelle molteplici sfumature: il dolore come una sbronza; il dolore come una arma puntata contro che incute paura e angoscia; il dolore che impigrisce inibendo ogni azione; il dolore come entità individuale ed esclusivamente personale « La debolezza dell’altro, la sua paura, la sua sofferenza non puoi farle tue. Potrai aver paura e soffrire anche tu. […] Ma sarebbe pur sempre un soffrire diverso», per quanto siamo vicini a chi soffre, ognuno conosce davvero soltanto il proprio dolore; il dolore come mistero: «Perché la separazione (per non dire altro) che tanto strazia chi rimane dovrebbe essere indolore per chi se ne va?»; il dolore che fa perdere il significato della vita stessa: «La gente non esiste, non è mai esistita. La morte non fa che rivelare il vuoto che c’era da sempre»; il dolore prolungato per la persona perduta che può allontanare l’affetto per la persona stessa «l’abbandono al dolore, invece di legarci ai morti, ce ne distacca».

E poi Il lutto, vissuto dai figli come imbarazzo, dal congiunto come assenza, come perdita di un’abitudine che svela orizzonti diversi e sconosciuti: « Il dolore di un lutto è come una lunga valle, una valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio affatto nuovo».

Il concetto della morte, come un tabù da sfatare: «La morte esiste. E tutto ciò che esiste ha importanza»; la morte come approdo e non come l’arrivo.

Non mancano le riflessioni sull’esistenza di un’altra dimensione spaziale e temporale dopo la morte: «Dov’è lei ora? Ossia in quale luogo è lei in questo momento? Ma se H. non è un corpo,… H. non è in nessun luogo […]. Se i morti non sono nel tempo, o non sono nel tempo che noi conosciamo, esiste una chiara differenza, quando parliamo di loro, tra “era”, “è” e “sarà”? La risposta che prova a darsi è: «H è con Dio. Almeno in un senso, questo è certissimo. Essa è, come Dio, incomprensibile e immaginabile».

Questo lungo percorso sul dolore si rivela alla fine una sublimazione, un salto spirituale, una modalità saggia (anche se dolorosa) per approfondirsi, crescere, evolversi.

L’autore attua questo processo in maniera stoica, alternando la razionalità all’emozione, in una gamma di stati d’animo, anche contraddittori a volte, in cui mette in discussione la fede stessa, criticando e analizzando il suo Dio: «È razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l’idiota malevolo?».

Non manca la riconciliazione con «Lui come il donatore e con lei come dono… amarla è diventato, nella sua misura, come amare Lui», che riaccende la speranza capace di lenire ogni sofferenza.

Un libro intenso e coraggioso che mette in luce gli aspetti complessi del dolore – fisico, psichico e spirituale –  che porta noi lettori a soffermarci e a confrontarci anche con il proprio, a dargli un significato, trovando molti punti in comune, sebbene la soggettività e l’unicità dell’esperienza stessa.

Un libro che terrò nella biblioteca del mio cuore.

“Diario di un dolore” di  C.S.Lewis ( ed. Adelphi 1990)

11 giugno 2024

FAUSTO E ANNA di Carlo Cassola

 

Un inno all’amore contro la guerra

Anni Trenta, la storia si svolge tra Volterra, Val di Cecina e Grosseto. Anna e Fausto due giovani di estrazione borghese, si innamorano e si amano. Anna, ragazza semplice, vivace, spigliata, leggera ma non superficiale, intraprendente e sentimentale; Fausto aspirante scrittore, romano d’origine, intellettuale, ateo, più misurato perché concentrato “sul recitare la parte”, riflessivo e con un mondo interiore ricco e complesso abitato dalle influenze e dagli ideali politici del suo tempo. Una relazione un po’ movimentata la loro, che dopo ripetuti alti e bassi, si interromperà, portandoli alla separazione. Fausto tornerà a Roma e Anna conoscerà Miro e si sposerà. Fausto avrà altre donne (conosciute nelle case di tolleranza) senza incontrare il vero amore (idealizzato in Anna)e si dedicherà alla politica, diventando partigiano.

Il romanzo appare diviso in due: una prima parte idilliaca, in cui prevale la favola d’amore, l’atmosfera incantevole della relazione tra i due giovani sebbene a tratti altalenante, in una Volterra bucolica, ben rappresentata e descritta. La seconda parte invece, si fa più cruda, più realistica, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale che trasforma lo scenario in una campo di battaglia, vedendo Fausto, impegnato politicamente nella Resistenza, come partigiano insieme ad altri compagni.

Un romanzo di formazione (considerando e il percorso di maturazione e lo sviluppo ideologico dei due protagonisti), dal carattere sociale e storico, ma anche autobiografico, in cui riconosciamo in Fausto, l’autore stesso che si affiancò anch’egli ai partigiani, partecipando attivamente alla Resistenza contro il governo nazifascista. ». Un percorso di crescita e maturazione ideologica, in cui l’esperienza  ci insegna e ci trasforma, proprio come accade ai nostri protagonisti.

Cassola però non ci mostra il movimento in maniera eroica ed esaltante, bensì, in una dimensione molto più realistica, piena di incertezze e dubbi, come quando ci descrive Fausto di ritorno fra i partigiani e «ne ebbe l’impressione della prima volta, un’ impressione di tristezza, di squallore, di sciagurataggine», tanto da non credere «che il comunismo potesse rendere migliore il mondo

L’autore fu anche accusato in questo libro di schierarsi contro la Resistenza, critica smentita da lui stesso nella nota a fine romanzo. Un testo particolarmente difficile per lo scrittore, che fu costretto più volte a correggerlo e revisionarlo dal punto di vista stilistico e ideologico perché rifiutato dalle molte case editrici.

Personalmente ci ritrovo questo suo sentire, il valutare in maniera oggettiva la sua epoca, riflettere e vedere senza esagerate celebrazioni, orientamenti politici, ideali e tendenze, riportate invece in maniera concreta e con sincera passione e coinvolgimento intellettivo ed emotivo.

Una prosa fluida, dai dialoghi chiari, semplici ma ben strutturati che alleggeriscono la narrazione a tratti anche troppo dilatata e particolareggiata.

Una lettura comunque fortemente attuale, un inno all’amore contro la guerra, un monito che non dovremo mai stancarci di ripetere:« La guerra distrugge, non produce. Come mai  i capi non capiscono? Non dovrebbero mai fare la guerra. Non ci dovrebbero esser guerre. Ciascuno a casa sua, a lavorare in pace».

Come le commoventi parole del partigiano caduto, che sembrano uscire dalle sue labbra ormai immobili: «Era un gioco molto bello, questo della guerra […] Ma, vedete, non era un gioco la guerra. Ci siamo sbagliati. Guardate i miei occhi vitrei, la bava sanguigna che mi esce dalla bocca, e quest’orribile colore giallo sparso per tutto il mio corpo! Credevamo di giocare, ed era invece una cosa terribile, spaventosa! Smettete, ragazzi, voi che siete in tempo!».

“Fausto e Anna” di Carlo Cassola ( Oscar Mondadori 2012)

21 maggio 2024

LA BANDA DEI PITBULL di Carlo Giannone

 

Se amate il giallo, La Banda dei pitbull è una lettura assolutamente da non perdere, e lo dice una che non ama particolarmente il genere (come più volte ho già detto) ma che di fronte a una narrativa così appassionante e completa, deve ricredersi.

Sì, perché al di là dell’indagine, in questo romanzo c’è molto di più, non per ultima la città di Firenze che fa da sfondo e cornice in maniera puntuale e minuziosa  alla narrazione. 

Gaetano Mancuso, Commissario della Pubblica Sicurezza della città sta indagando su un caso assai angosciante: il cadavere di un giovane è stato ritrovato lungo il torrente Mugnone, ucciso dall’assalto di uno o più cani Pitbull, come conferma il veterinario che effettua le analisi. Purtroppo non sarà un evento sporadico, ma seguiranno altre vittime, sempre giovani e di sesso maschile, a opera dei cani, sicuramente guidati da un folle omicida che non ama sporcarsi le mani. Perché una  tale ferocia? Perché tutti quei giovani e solo uomini? Un caso drammatico e complesso che Mancuso saprà condurre meticolosamente avvalendosi dei suoi preziosi collaboratori, Angelo il vicecommissario e l’affascinante Simona, agente scelto, che non nasconde il debole che nutre per il suo superiore.

Un romanzo complesso, tanti i personaggi e ben caratterizzati (e ringrazio l’autore per il promemoria introduttivo che ne facilita la memoria), una narrazione fluida e piacevole che incolla il lettore fino all’ultima pagina. Un giallo che si tinge anche di altre tonalità, riportandoci anche su una dimensione più quotidiana e umana, dove insieme all’indagine si muove una realtà brulicante di necessità e problemi ma anche di sentimenti ed emozioni. Affascinante la figura del commissario, di cui l’autore sa cogliere ed esaltare l’aspetto umano, oltre a quello di pubblico ufficiale, restituendoci il padre, il marito, il collega, l’amico, l’amante, nelle sue molteplici identità. Ed è proprio questa caratteristica che più ho apprezzato, perché ci conduce nel mondo oggettivo e interiore del protagonista, ci fa simpatizzare,  affliggere, gioire, preoccupare, odiare e amare insieme a lui,accompagnandolo nel suo cammino verso la risoluzione e non solo investigativo.

Una lettura coinvolgente, tremendamente attuale, in cui non manca l’occasione di riflettere (e sconvolgersi) per come l’uomo possa arrivare a essere tanto crudele e feroce e come il perdono (in qualsiasi contesto) sia un sentimento e un percorso davvero raro e difficile da intraprendere.

La banda dei pitbull” ( Ed. incipit 23, 2023)

12 maggio 2024

PASSIONE SEMPLICE di Annie Ernaux

 

«Calcolavo quante volte avevamo fatto l’amore. Avevo l’impressione che, ogni volta, qualcosa di più si fosse aggiunto alla nostra relazione, ma anche che era questo stesso accumulo di gesti e di piacere che ci avrebbe sicuramente allontanato l’uno dall’altra. Si esauriva un capitale di desiderio. Ciò che si guadagnava in fatto di intensità fisica, lo si perdeva in ordine di tempo».

Entriamo nel vivo della storia con questa frase emblematica del rapporto che lega Lei, donna matura e indipendente, e Lui  molto più giovane, e “straniero”, che compare e scompare dalla sua vita come un gioco di prestigio, in una continua altalena di attese e illusioni, di tensione e resa, di pensiero e azione, di energia e inerzia. «Vivevo il piacere come un futuro dolore» ci informa l’autrice congedandosi da Lui. 

Una passione tutt’altro che semplice, un’attrazione fisica travolgente, un sentimento/tormento per Lei che non riesce a sottrarsi al magnetismo di tale fenomeno uscendone spossata e priva tutte le volte di ogni stimolo .

Una lettura piacevole, una storia di passione e amore, descritta con assoluta oggettività, un rapporto animato che dà tanto ma toglie anche tanto, che carica d'energia quando c’è, ma che ne toglie altrettanta nell’assenza.

Racconto lungo più che romanzo breve, Passione semplice è soltanto una di alcune letture dell’autrice (Nobel per la Letteratura 2022), in cui ancora una volta ritrovo il suo stile inconfondibile, l’essenzialità del discorso unita alla profondità di pensiero, la narrazione autobiografica e autentica, la ricerca esatta e precisa della parola in una narrazione che scaturisce sincera e spontanea come flusso incessante di pensiero

Una grande penna, uno stile, che al di là dell' attrattività  del tema e della storia non delude mai.

«Passione semplice» di Annie Ernaux  ( ed. Rizzoli 1992)

08 maggio 2024

TROPPA MEDICINA - Un uso eccessivo può nuocere alla salute di Marco Bobbio

 

 

TROPPA MEDICINA - Un uso eccessivo può nuocere alla salute di Marco Bobbio

Fare di più non significa fare meglio

La medicina ha migliorato di gran lunga la nostra vita, grazie ai progressi della tecnologia, dell’informatica, della ricerca clinica e scientifica ma di pari passo non c’è stato sempre in maniera proporzionale, altrettanto beneficio e benessere in termini di qualità e dignità di vita. Infatti il progresso può rivelarsi anche un vincolo, una catena che ci lega ancor di più mani e piedi, che immobilizza il corpo oltrepassando il suo naturale e fisiologico processo, se non usata con sapienza e intelligenza. Come dice Bobbio, troppa medicina può danneggiarci anziché farci star bene, «può provocare effetti peggiori di quelli che si sarebbe voluto evitare».

Il problema è che la medicina è nata per guarire, e là dove questa attribuzione gli è impossibile, si defila dall’incarico. Dice Bobbio, citando le parole di Richard Smith direttore di una importante rivista americana: «Non fa male ricordare che la morte è inevitabile, che la maggior parte delle malattie non può essere guarita».

Fare sempre qualcosa è davvero la miglior cosa da fare? Il nuovo, le procedure più sofisticate sono sempre le migliori? Risolveranno davvero ogni problema di salute? Anticipare la diagnosi può essere sempre utile? I rischi potenziali vanno sempre trattati con farmaci? Dobbiamo sempre ostinarci al trattamento o c’è un momento in cui dobbiamo fermarci? Questi e altri quesiti popolano il libro, esortandoci a riflettere sulle nostre insicurezze e paure, a ponderare la cura e l’assistenza, a confrontarci in una visione sempre più centrata sui reali bisogni della persona.

La Slow Medicine, di cui Marco Bobbio fa parte (membro del Gruppo direttivo), risponde molto bene a questi interrogativi, e lo fa con tre parole, aggettivi chiave: medicina sobria, rispettosa, giusta.

Una medicina contenuta, misurata senza eccessi inutili (oltretutto sfavorevoli alla persona).

Una medicina rispettosa, che considera la volontà della persona, in linea con le risorse disponibili, di buona qualità.

Una medicina giusta, appropriata, su misura della persona, che riduca gli sprechi per garantire equità delle cure e sostenibilità.

Purtroppo non sempre è facile adottare il sobrio, rispettoso e giusto atteggiamento, anche se condiviso dal medico, perché subentra la paura di eventuali sanzioni e provvedimenti disciplinari, se il medico incorre in errori per omissione di esami a conferma di diagnosi, per esempio. La medicina difensiva è proprio questo, prescrivere esami, farmaci, trattamenti inutili per evitare contenziosi più che per reale necessità, senza un effettivo vantaggio per la persona. «La medicina difensiva peggiora la qualità dell’assistenza sanitaria, incoraggiando procedure inutili e un crescendo difficilmente controllabile di risultati ambigui o falsamente positivi».

La ricerca della certezza, al quale viene dedicato un intero capitolo, dice Bobbio,  può essere deleteria, non solo in termini di costi e sprechi, ma soprattutto per integrità della persona, che non “si dà pace” senza una diagnosi, o una cura a risoluzione del suo problema. Su questo mi viene da riflettere su quanto la certezza sia un valore fluttuante e mai assoluto nella durata della vita stessa, di certo non esiste niente, ciò che è vitale è mutabile per sua natura, trasformabile e quindi in antitesi con la certezza, stabile, sicura, ferma.

Purtroppo il sistema consumistico ci ha portato a un apprezzamento della quantità a scapito della qualità: siamo progettati per fare, sempre di più, sono i numeri che contano, più dei contenuti del messaggio da dare.

C’è una mancanza di formazione inerente alla comunicazione tra medico e paziente nello stimolare le sue capacità decisionali. Non solo, il medico è impreparato a gestire l’emotività dell’altro.

«I medici farebbero meglio ad accompagnarli (i pazienti) nella decisione, aiutandoli a mettere insieme le numerose tessere, spesso molto personali, che caratterizzano sempre una scelta complessa».

«È più facile fare che non fare.  La rinuncia è sinonimo di abbandono, abdicazione, astensione, cedimento, cessione, digiuno, distacco, forfait, mortificazione, privazione, resa, rifiuto, ritirata, sacrificio, vendita». Tutti questi aggettivi parlano da soli, e ce la dicono lunga sull’accezione negativa del termine.

Eppure a volte è bene arrendersi, accettare, constatare che è il momento di fermarsi; il che non significa che dobbiamo lasciare il campo, interrompere e terminare il gioco, anzi, è questo il momento giusto per cominciare a fare qualcos’altro. E il gioco cambia prospettiva e direttiva, non più nell’ottica della guarigione ma in quella della presa di coscienza dei propri limiti, della consapevolezza del proprio essere, nel contenimento dei sintomi invalidanti e scomodi, quali il dolore cronico, in una visione realistica e oggettiva. Le cure palliative rientrano in questo raggio d’azione.

Mi piace la frase: «L’equilibrio tra accanimento e abbandono è delicato, i medici dovrebbero assimilare il concetto che “rinunciare non è sempre un male”; in molti casi può essere una scelta conveniente per quella persona […] una rinuncia può essere una scelta positiva, consapevole e rispettabile. Magari, l’unica accettabile per quel paziente».

Sugli screening di prevenzione non mi trovo invece molto d’accordo. Sono una persona che cerca di condurre uno stile di vita sano ed equilibrato, di fare tutto quello che è nelle mie facoltà per mantenere l’equilibrio del  corpo, in uno stato di benessere fisico, psichico e sociale che so bene non essere completa assenza di malattia. Insomma, credo che dobbiamo volerci bene, e fare il possibile per onorare questa impalcatura che ci è stato offerta, proprio come un dono. So bene che questo non mi esonererà da problemi futuri, che potrò ammalarmi anch’io di patologie i cui fattori favorenti ho cercato di scansarli n tutti i modi, ma almeno potrò dire alla fine della storia di aver fatto del mio meglio, cercando e scegliendo la strada dell’amore e del rispetto. Per questo mi sottopongo volentieri agli screening, forse come testimonianza e valutazione del mio impegno. Ovviamente pagandoli non tolgo spazio e tempo a nessun altro che può avere più bisogno di me.

Ma condivido l’ osservazione dell’autore: «Uno screening è utile quando all’aumento del numero di diagnosi corrisponde una riduzione della mortalità per quella patologia[…] lo screening è invece inutile quando svela patologie irrilevanti. La mortalità non varia anche se i tumori vengono scoperti e trattati. Lo screening è addirittura dannoso, quando all’aumento della diagnosi, non corrisponde una mortalità specifica».Il problema a questo punto è: «Ma come facciamo a sapere a quale delle tre categorie apparteniamo?»

Concordo sull’idea che ci sono davvero troppi conflitti d’interesse e ritorni economici che fanno muovere il mercato della sanità, ambito in cui non dovrebbero proprio mettere il naso.

Sul tema degli sprechi quanta verità, e non solo nell’ambito della sovraprescrizione e sovratrattamento!

Insomma per concludere anch’io la mia analisi, più che una recensione, sottolineo di nuovo i punti di forza di questa nuova concezione di approccio alla medicina e termino con questa citazione a parer mio riassuntiva ed esauriente: « Il compito del medico, che dispone di un numero sempre crescente di strumenti, è anche quello di capire quando è meglio attenersi alle regole generali, quando deviare e addirittura quando consigliare di non procedere […] la non- cura è tanto efficace quanto la cura». E ancora:« non ci possiamo illudere che la medicina garantisca lo stato di perfetta salute, ma aspettarci che riduca il più possibile lo stato di malattia senza provocarci altri problemi».

Da questa riflessione si capisce quanto è importante il rapporto di fiducia tra medico e paziente e il dialogo volto a captare i desideri, valori, la volontà della persona, ciò che è giusto per lei.

Un libro ben scritto, dettagliato, corredato di casi e studi clinici a supporto delle teorie dell’autore.

Concludo con le parole appropriate, quelle che vorrei risuonassero come un’ eco per chi è arrivato fino in fondo a queste righe e che sono la sintesi di tutto questo mio lungo discorso:

 Sobrietà, Rispetto e Giustizia, tre parole ma un mondo immenso intorno.

 

 

Troppa medicina - Un uso eccessivo può nuocere alla salute di Marco Bobbio (ed. Einaudi 2017)

07 maggio 2024

IL RIFRULLO DEL DIAVOLO di Andrea Improta

 


Il Rifrullo del Diavolo è un romanzo che definire “giallo” sarebbe davvero riduttivo. Vero che ha tutte le peculiarità per catalogarlo nel genere – c’è un femminicidio, un assassino, un commissario, un’ indagine in corso – ma c’è molto di più a mio parere, sconfinando, in territori che lo accomunano anche ad altre tipologie di narrazione, “rosa” per il bisogno inesauribile di amore dei personaggi, “rosso” per le note piccanti ed erotiche, “noir” per l’impronta grottesca e truce di alcune ambientazioni e situazioni, realtà purtroppo sempre più attuale. Insomma si potrebbe definire un’opera davvero completa, capace di soddisfare anche il lettore più esigente (come me che non amo le note particolarmente gialle e noir) avvalendosi del genere che più predilige.

L’aspetto assai peculiare del libro è che l’autore ci svela già all’inizio l’omicida, ma la cosa ancor più sorprendente è che nonostante la rivelazione, la tensione non manca, anzi aumenta man mano si procede nella lettura. Forse perché, come dicevo poco prima, il romanzo non è solo basato sull’aspetto investigativo, ma su una narrazione che si avvale di altri elementi importanti, quali l’intreccio e l’attrattività della storia legata all’ottima strutturazione dei personaggi (tanti e sapientemente ideati), alla fluidità dialogica, e non per ultimo all’ambientazione, Firenze che fa da sfondo in maniera sublime alle complesse vicende umane.

Giulia, una ragazza venticinquenne viene trovata uccisa nel proprio appartamento, riversa nuda sul divano, palesemente violentata e maltrattata. Marco Manfredi, commissario di Polizia Giudiziaria di Firenze, conduce il caso non facile, in quanto man mano che l’indagine prosegue, affiorano sempre nuovi fantasmi nel vissuto della ragazza, aprendo piste e possibilità ulteriori.

Accompagnano l’investigazione le storie d’amore e passione delle due coppie protagoniste: Manfredi e Alice alla ricerca continua di serenità e amore, quello che condivide il caffè del mattino, le facce assonnate e non solo il letto; e di Sauro e Martina, pedine secondarie ma non meno importanti in questo complicato gioco di delitto, amore e passione.

Non aggiungo altro per non togliere al lettore il gusto della scoperta. L’autore, Andrea Improta che ho il piacere di conoscere, ha la grande capacità di sapere scegliere le parole e collocarle nel punto giusto, di attribuire loro spessore e significato, rendendole verità e restituendo suggestione ed emozione. Ciò che sanno fare i bravi scrittori.

Una prosa ricca di dettagli del panorama umano e quotidiano, fluida e trascinante, come una musica che si armonizza col respiro dell’ascoltatore, tanto che si arriva alla fine stupiti da come abbiamo divorato tutte quelle pagine, senza accorgerci del tempo trascorso.

E il titolo? Cos’è il Rifrullo del Diavolo e cosa c’entra con questa storia?

Confesso, anch’io non conoscevo la leggenda, è stata una piacevole sorpresa. I “più” fiorentini sicuramente la conoscono, agli altri non resta che leggere il libro.

 

“Il rifrullo del diavolo” ( ed. Incipit23 – 2022)

01 maggio 2024

LE RAGAZZE DI SANFREDIANO di Vasco Pratolini

 

Leggere “Le ragazze di Sanfrediano” più che una lettura, è un’esperienza virtuale nel quartiere di Sanfrediano nel dopoguerra, in una nazione appena liberata dal fascismo, animata e sostenuta dagli ideali partigiani, di libertà, democrazia e giustizia sociale. San Frediano è il rione Diladdarno, dove la vita scorre frenetica nelle strade e nei vicoli, nelle botteghe artigiane, sulla soglie delle case, tra schiamazzi di ragazzini e massaie che dialogano dalle finestre spalancate delle abitazioni, tra il frastuono delle motociclette e i rintocchi  delle campane del Cestello che scandiscono le ore.

Bob, il cui vero nome è Aldo Sernesi, ma che si fa chiamare Bob per la somiglianza con il divo Robert Taylor, fa strage di cuori nel quartiere «che è tutta la sua vita, una riserva di caccia tutta sua particolare». Le ragazze - Gina, Bice, Mafalda, Silvana, Tosca e Loretta - gli corrono dietro come api al miele, e lui, intreccia una relazione con ciascuna di loro, «perché le ragazze rappresentano il suo vero sport, la sua arte, e la sua religione» pronto però a dimenticarsene non appena la ragazza in questione esce dal suo campo visivo. Bob sembra sincero quando dichiara il suo amore, sente di amarle tutte e nessuna, ma non sa decidersi a scegliere «poiché Bob, ormai, si riteneva dotato di un’immensa riserva di affetto che una sola donna sarebbe stata incapace di accettare e esaurire».

Ma le ragazze di Sanfrediano non si lasciano incantare, sono donne determinate e orgogliose, «non prendono i rifiuti di nessuno», ognuna col proprio carattere e peculiarità, con l’impronta genetica della resistenza proverbiale del rione saprà, unita con le altre per giusta causa, dare la meritata lezione al presuntuoso damerino.

Ecco allora interi capitoli dedicati a ciascuna di loro: Tosca «una creatura che la vita dovrà ingegnarsi per riuscire ad umiliarla, e forse non ci riuscirà»; Gina snella, piacente [… ]con quella gentilezza di modi che se non era più innocenza, era tuttora il suo carattere e la sua virtù»; Mafalda la rossa, «dal corpo solido e plebeo» risoluta e intraprendente; Bice «quieta, credula, ottimista, incapace di sentimento assaltante come di un affetto eroico e di un sacrificio meditato, squisitamente femminile, limitata e paziente»; Silvana «manidifata» la contesa; Loretta ultima arrivata, che nonostante il recente innamoramento, non si tira indietro per seguire le altre.

Protagonista in questo romanzo, come già altri hanno individuato, non è soltanto Bob intorno al quale si tesse la trama, ma le tutte donne e soprattutto il quartiere.

Un messaggio di solidarietà femminile che emerge a risoluzione di questa scrittura fortemente scenica (dal quale è stato tratto il film di Valerio Zurlini che per l’occasione mi sono rivista) e che si afferma in modo rudimentale e grezzo, a dimostrare l’emancipazione femminile e la  parità dei diritti di genere. Ma non solo aggiungerei, soprattutto il diritto al rispetto e alla dignità della persona.

Una prosa popolare, dai termini e detti “fiorentini”, testimonianze di tradizione e costume, che hanno risuonato in me (…non m’è rimasto attaccato neanche un’ugna, mi gingillo, …ha corso la cavallina, …è tanto che mi struggo,… un pirulino, …una sugna,… una mezzasega, …togliere l’olio dai fiaschi) e che colorano e arricchiscono il testo, lo animano, rendendolo vero e appetibile.

Un libro meno impegnativo rispetto ad altre sue opere, ma che ogni fiorentino (e non solo) dovrebbe conoscere, per apprezzare e ritrovare i sapori, odori, suoni di un tempo nemmeno tanto lontano che ha fatto la nostra Storia.

«Le ragazze di Sanfrediano» di Vasco Pratolini (ed. Bur Rizzoli 2011)